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QUANDO L’AGRO È UN PIACERE

L’aceto – di vino, di mele, di riso, di miele... – deriva dall’ossidazione dell’etanolo presente in liquidi alcolici come vino, sidro, birra, idromele... o in materie prime come frutta, riso, malto. Questa trasformazione, chiamata fermentazione acetica o acetificazione, è provocata dall’azione di uno specifico gruppo di batteri scoperti da Pasteur: i batteri acetici (Acetobacter).
L’aceto più diffuso è quello di vino: bianco o rosso. La sua qualità dipende molto dal vino di origine, del quale conserva in parte il profilo aromatico. Così come il vino, anche l’aceto può essere invecchiato in botti di legno che contribuiscono ad arricchirne i profumi. Molto buoni e più delicati sono l’aceto di mele, che si ottiene dal sidro o dal succo di mela, e l’aceto di pere. L’aceto di miele è profumatissimo, e probabilmente anche il primo a essere stato prodotto e utilizzato dall’uomo: si ottiene infatti dalla fermentazione acetica dell’idromele, noto nell’antichità come “la bevanda degli dei” che veniva prodotto facendo fermentare il miele con acqua e lievito. Gli aceti di cereali sono diffusi in particolare nelle zone dove l’uva storicamente scarseggia: un posto di primo piano è occupato dall’aceto di birra e, soprattutto, da quello di riso, assai diffuso in Cina e Giappone.
Un discorso a parte merita l’aceto balsamico tradizionale di Modena e Reggio Emilia: per produrre questo pregiatissimo condimento, infatti, si parte da mosto d’uva cotto, che viene messo a maturare per lunghissimi periodi in botti sempre più piccole, man mano che il liquido si disidrata lentamente. Il risultato è un fluido viscoso, scuro e dall’inconfondibile gusto agrodolce.
L’industria alimentare produce molti tipi di aceto a partire da uve “dedicate”, con caratteristiche diverse da quelle destinate al consumo o alla produzione di vini. Il risultato è una più elevata produzione di aceto che, però, ha caratteristiche organolettiche limitate. Vengono prodotti anche aceti balsamici, aggiungendo caramello a una base di aceto generico: sono povere imitazioni profumate degli originali, decisamente meno complesse.

UN SAPORE SOTTOVALUTATO

L’aspro o acido è uno dei sapori fondamentali che, insieme al dolce, al salato, all’amaro e all’umami (“saporito”) danno al cibo tutte le sfumature del gusto. Ma nei suoi confronti vige ancora un pregiudizio, che nasce da una serie di ragioni legate all’evoluzione del gusto che porta a trascurarlo. 
La prima è culturale, e riguarda la natura stessa delle sostanze acidificanti che, come l’aceto, sono spesso il prodotto dell’alterazione di un altro gusto (il dolce del vino, dell’idromele o del sidro). Gli stessi termini “aspro” e “acido” hanno una sfumatura negativa, in antitesi a parole positive come “dolce”, “gradevole”, “amabile”. 
Una seconda ragione è di carattere gustativo: l’acidità è un elemento di rottura dell’armonia, qualcosa di inaspettato e dissonante. In apparenza, quindi, in una cucina “intonata” come vuole essere quella classica, essa rappresenta una stonatura. In realtà, è il gusto dell’agro che rompe la monotonia di un piatto, evitando che diventi stucchevole.
Non solo: da un punto di vista organolettico, la persistenza del gusto di una vivanda si collega proprio all’agro. Senza acidità, ogni sapore appare sciapo, stucchevole, sfuggente. L’agro, infatti, stimola la produzione di saliva: fa “venire l’acquolina in bocca” e apre lo stomaco alle portate successive.

Il nuovo sarò Maître, sarò Barman
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