La cucina dell’antica Roma

La cucina dell’antica Roma

Dal momento in cui l’uomo lascia la preistoria adottando la scrittura, le informazioni sulla dieta e sugli usi in cucina diventano molto più ricche e precise.
Così sappiamo che già durante l’età del Bronzo in Italia e nei paesi del Mediterraneo orientale (Grecia, Turchia e Medio Oriente, Libano, Siria ed Egitto…) si consumavano cerali cotti interi o macinati in forma di zuppa e di pane azzimo o lievitato; carni, molluschi e pesci cotti o crudi; si producevano bevande fermentate (birra, vino, idromele) e formaggi con vari tipi di latte; si usava il sale per conservare e il miele per insaporire piatti e bevande… Insomma: mangiare non era più qualcosa di semplicemente necessario a sopravvivere, ma aveva acquistato un aspetto culturale, legato al ritrovarsi intorno alla tavola per gioire della reciproca presenza e del cibo disponibile. Tutto questo subirà un’accelerazione nel periodo d’oro di Roma.

Dalle origini all’impero
La cucina romana, dai primi periodi della storia fino a tutta l’età repubblicana, era frugale, incentrata su cereali e zuppe, focacce e piatti di farina: con quella di orzo, di miglio o di semi di lino, cotta in acqua di mare (il sale era molto costoso), si otteneva la polta, simile alla polenta, mentre con quella di farro e grano si otteneva la puls, una specie di pappa. A questi alimenti base si associavano legumi come fave, lenticchie e ceci, formaggi, miele o uova, oppure, più raramente, carne allo spiedo, soprattutto di maiale. 
Intorno al II secolo a.C., il grano duro rimpiazzò il farro: a differenza di quest’ultimo era facilmente conservabile anche per periodi più lunghi. Fu in questo periodo che il pane diventò la base dei pasti, anche se le verdure continuarono ad avere un ruolo importante, condite con olio d’oliva. Con l’espansione vittoriosa di Roma nel Mediterraneo, oltre a tornare in patria cariche di bottino prezioso, le legioni portarono con sé anche nuove abitudini culinarie: primo fra tutti il piacere del vino che, conosciuto in Grecia dove veniva gustato lontano dai pasti, divenne parte integrante dell’alimentazione di tutti, poveri compresi. La tradizione tipicamente mediterranea di basare l’alimentazione su pane e vino ha inizio così.
Oltre a verdura, frutta e cereali, dalle aree circostanti arrivavarono ai mercati della capitale circa 150 specie diverse di pesci d’allevamento o pescati, selvaggina e cacciagione, carne di maiale sotto sale o affumicata, alcuni salumi, formaggi e vino. Nelle ville patrizie, i cuochi cucinavano questi ingredienti sposando sapori pungenti e dolci: nelle stesse pietanze, insieme a menta e aceto, si usavano il miele, il mosto cotto e la frutta in poltiglia; i piccioni erano cotti con datteri, pepe, miele, aceto, vino, olio e senape, i funghi con il miele, mentre le pesche venivano marinate come oggi si preparano le anguille. Oche e galline, sempre presenti nelle aie delle case romane, fornivano le uova ed erano apprezzate per la loro carne tenera; inoltre, accanto alla carne di bue, vitello e agnello, si usava spesso anche quella di asino, di ghiro, di cinghiale e di molti grandi uccelli: gru, cicogna, pavone e fagiano.
È in questo periodo che viene “inventato” il garum o liquamen, un condimento usato ovunque: una salsa liquida preparata con interiora di pesce, spezie e sale, conservata in anfore di terracotta.
Nell’età imperiale si sviluppò una cucina sempre più raffinata e sorprendente: sono molti i racconti di autori latini sugli eccessi alimentari e le follie gastronomiche dei banchetti più famosi. Fra tutti citiamo Svetonio, biografo degli imperatori, che ricorda come Vitellio arrivasse a spendere cifre vertiginose per piatti a base di fegato di pesce pappagallo, cervella di fagiano e di pavone, o lingue di fenicottero.
In questo periodo di opulenza visse Marco Gavio Apicio (14-37 d.C.) il più famoso buongustaio del suo tempo, per il quale la ricerca dei piaceri divenne il fulcro della vita. Ai suoi ospiti aristocratici offriva banchetti con pietanze elaborate: pappagalli arrosto, uteri di scrofa ripieni, ghiri farciti, interi manzi, agnelli, maiali, cinghiali, cervi – ma anche lepri e tonni – ripieni e insaporiti con esotiche miscele di spezie ed erbe, o anche uova e lenticchie, coperti di miele, di mosto e d’aceto, o innaffiati di garum e vino speziato.
Apicio “incarna” il cuoco dell’epoca, la cui arte, secondo lo scrittore Petronio, stava proprio nel riuscire a trasformare gli alimenti, nel «cavare un pesce da una vulva, un piccione da un pezzo di lardo, una tortora da un prosciutto e una gallina da un culatello».
Secondo la tradizione, Apicio avrebbe raccolto le sue ricette in 10 volumi, il De re coquinaria (letteralmente “Sull’arte culinaria” che, in realtà, risale al IV secolo d.C.), che sarebbe stata la prima opera scritta di cucina.
All’epoca romana risale anche il primo gelato, preparato addolcendo la neve con il miele, così come la scoperta che con il freddo si possono conservare i cibi. E sempre in questo periodo, in Europa arrivano dall’Oriente le prime spezie esotiche: la cannella, il pepe, il coriandolo.

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CURIOSITÀ

Come ci racconta Orazio in una sua satira, la tendenza a esagerare con il cibo non era cosa universalmente apprezzata anche se era uno dei sistemi più di moda per dimostrare la propria ricchezza. Si legge infatti: «A che punto la varietà dei cibi sia nociva per l’uomo puoi capirlo
se ripensi a come hai facilmente digerito quella pietanza semplice che hai mangiato un giorno, mentre invece non appena gli avrai mescolato il bollito e l’arrosto, i molluschi e i tordi… si genererà lo scompiglio nel tuo stomaco».

IL VINO ROMANO

I primi vini romani erano piuttosto acidi ma, con il passare del tempo e con la selezione delle viti, la produzione riuscì a migliorare.
Di sicuro, stando a quanto ci racconta Plinio, il gusto migliorava molto con l’invecchiamento: nell’opera Satyricon di Petronio, parlando del famoso Falerno Opimiano che veniva stagionato fino a 100 anni, si legge: «Ahimé, dunque il vino vive più a lungo di un ometto. Perciò beviamo pure come spugne! Il vino è vita».
Virgilio, inoltre, ci racconta come a Roma ci fossero tanti tipi di vino quanti granelli di sabbia nel deserto libico. Erano tutti rossi (“neri”, li chiamavano i Romani): quelli bianchi erano vini rossi cui venivano aggiunti farina di fave o albume d’uovo. Dato poi che avevano un’alta gradazione alcolica (16-18°), venivano miscelati con un terzo di acqua fredda o neve in estate, o di acqua calda in inverno.

Protagonisti in Cucina
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Corso di enogastronomia per il secondo biennio e il quinto anno