Le etichette e la legge

 4  LE REGOLE DEL MONDO ALIMENTARE >> 13. La filiera, le etichette e gli imballaggi

Le etichette e la legge

Lo studio delle etichette rientra nel contesto di una disciplina più ampia, la merceologia, che studia le merci sotto tutti i loro aspetti di produzione e commercio, con l’intento di caratterizzarle al meglio anche per difenderle dalle frodi. Per “merce” si intende qualunque bene economico mobile destinato alla vendita. Alimenti e bevande rappresentano ovviamente un tipo di merce molto particolare, soggetto a specifiche normative di settore.

Che cosa sono le etichette alimentari

Quando si acquista un prodotto alimentare, di rado è possibile esaminarlo direttamente: l’imballaggio infatti lo nasconde alla vista. Ma proprio la confezione rappresenta lo spazio in cui le esigenze commerciali convivono, non sempre senza conflitto, con le molteplici informazioni indirizzate per legge ai consumatori: sono presenti infatti diciture di marketing, che sono parte integrante dell’estetica del prodotto e tendono a esaltarne i punti di forza, invitando all’acquisto d’impulso, e diciture obbligatorie, meno visibili e ammiccanti, che, riportando i dati più tecnici ed essenziali, sono una preziosa guida a un acquisto ponderato.

In definitiva, l’etichetta va intesa come un documento d’identità dell’alimento. Un consumatore consapevole dovrebbe abituarsi a esaminarne tutte le informazioni prima di scegliere se acquistare o meno un certo prodotto, per tutelare la sua salute ma anche per premiare le aziende che producono alimenti di qualità.

LA NORMATIVA EUROPEA

Attualmente a livello comunitario le normative relative all’etichettatura sono raccolte nel Regolamento CE n. 1169/2011. L’Italia si è adeguata provvedendo ad aggiornare nel merito il suo Decreto legislativo n. 109 del 27 gennaio 1992.

In sintesi, la legge stabilisce che l’etichetta deve assicurare al consumatore un’informazione comprensibile, corretta, pertinente e trasparente, tale da non indurlo in errore; in particolare, non deve assolutamente attribuire al prodotto proprietà curative né accennare a proprietà che esso non possiede.

Molte diciture come “extra”, “puro”, “fresco”, “biologico” o “di alta qualità”, un tempo utilizzate in modo indiscriminato per promuovere prodotti di ogni genere, oggi non possono più essere usate con la stessa disinvoltura perché la legge ha provveduto a delimitarne il campo di impiego. L’organo competente per vigilare, nonché per applicare sanzioni in caso di violazioni di legge, è la Camera di Commercio.

Proprio gli stratagemmi della propaganda pubblicitaria inducono la legislazione ad aggiornarsi di continuo e a essere sempre più precisa. A richiedere un costante adeguamento sono anche le innovazioni scientifiche, le nuove preferenze dei consumatori e l’evoluzione del mercato internazionale. Un ruolo importante hanno anche le esigenze delle aziende, le quali spesso richiedono di semplificare e accorpare le normative alimentari (tra cui anche le norme relative alle etichette), che risultano talvolta poco chiare o addirittura in contrasto fra loro.

 >> pagina 368 

L’etichettatura dei prodotti preconfezionati

La legge distingue da una parte le etichette presenti sull’imballaggio dei prodotti preconfezionati, dall’altra i cartelli da esporre in caso di prodotti venduti sfusi.

Le etichette dei prodotti preconfezionati devono riportare per legge le seguenti indicazioni obbligatorie:

1. denominazione di vendita;

2. nome aziendale (o marchio);

3. responsabilità legale;

4. elenco degli ingredienti;

5. quantità;

6. scadenza;

7. numero di lotto (o partita);

8. origine o provenienza (ove previsto);

9. modalità di conservazione;

10. istruzioni per l’uso (ove previsto);

11. titolo alcolometrico (per le bevande alcoliche);

12. tabella nutrizionale.

LA DENOMINAZIONE DI VENDITA

Sull’etichetta dev’essere riportata una parola o frase descrittiva, chiamata denominazione di vendita, che informi in modo inequivocabile riguardo al contenuto effettivo della confezione e che non dev’essere confusa con la marca. Deve essere indicato possibilmente anche lo stato fisico del prodotto (in polvere, in grani, concentrato, affumicato, liofilizzato, surgelato…). La denominazione di vendita si colloca generalmente sotto il marchio o come introduzione all’elenco degli ingredienti. Può essere accompagnata, ma non sostituita, dal nome commerciale del prodotto: cioè un termine o un’espressione di fantasia con cui il prodotto alimentare viene riconosciuto sul mercato.


 >> pagina 369 

IL NOME AZIENDALE (O MARCHIO)

Identificato anche come ragione o denominazione sociale, il nome aziendale è il nome, completato dall’estensione S.p.A., S.r.l. o S.n.c., con il quale l’azienda di produzione risulta iscritta al Registro delle imprese della Camera di Commercio.

Sulle confezioni il nome aziendale spesso si presenta come marchio (in inglese trademark o ™), ossia in una forma grafica brevettata con cui si distingue dalla concorrenza, anche al fine di difendere i propri prodotti dalla contraffazione. Il marchio può essere costituito da un elemento grafico (per esempio una forma geometrica, un’immagine stilizzata) o da un logo, o da entrambi questi elementi. Spesso è seguito dal simbolo ®, che ne attesta la registrazione presso l’Ufficio italiano brevetti e marchi. Rappresenta dunque una sorta di firma o di impronta digitale sull’etichetta: è unico e irripetibile.

Molte grandi aziende oltre ad avere un marchio principale hanno acquisito oppure hanno creato una moltitudine di sottomarche non meno prestigiose: la multinazionale svizzera Nestlé, per esempio, è proprietaria di altri grandi marchi, come Nescafé, Nestea, SanPellegrino, Nesquik, Gelati Motta, Buitoni.

Marchio, pay-off e brand

Nella pubblicità, e più raramente anche nelle etichette, a volte il marchio viene accompagnato da un pay-off: nel linguaggio pubblicitario con questo nome si indica una breve espressione verbale che ha lo scopo di caratterizzare meglio l’azienda o uno specifico prodotto. Per esempio: “Dove c’è Barilla, c’è casa”, “Kraft. Cose buone dal mondo”, “Sofficini Findus: il sorriso che c’è in te”. Oppure, in altri settori merceologici, “Gillette. Il meglio di un uomo”, “Adidas. Impossible is nothing”. Insieme, marchio e pay-off contribuiscono in modo determinante a definire il brand (in italiano “marca”): cioè l’immagine pubblica dell’azienda, il modo in cui essa è percepita dai consumatori e i valori che essi attribuiscono ai suoi prodotti.

LA RESPONSABILITÀ LEGALE

Fino al 13 dicembre 2014, allo scopo di tracciare la provenienza di un prodotto, la legge italiana richiedeva di indicare nell’etichetta l’indirizzo dello stabilimento di produzione. Per gli alimenti trasformati bisognava indicare il luogo in cui era avvenuta l’ultima trasformazione del prodotto. Solo i prodotti provenienti dall’estero erano esenti da tale obbligo.

Oggi invece, a seguito dell’entrata in vigore di nuove normative comunitarie, l’indicazione dello stabilimento di produzione è “su base volontaria”; fanno eccezione carni e latticini che devono ancora riportare il codice sanitario, cioè un numero che consente di identificarne la provenienza.

Sull’etichetta deve comunque comparire la ragione sociale con l’indirizzo di un responsabile legale, ovvero di uno stabilimento della filiera a cui fare riferimento per la responsabilità delle informazioni riportate in etichetta, senza necessariamente specificare il ruolo da esso svolto all’interno della filiera stessa (può trattarsi indifferentemente del produttore, di un importatore, di un distributore o altro ancora).

DICITURA INTRODUTTIVA RUOLO SVOLTO NELLA FILIERA
“Prodotto da...” stabilimento di produzione
“Confezionato da...” stabilimento di confezionamento
“Prodotto per…”, “Prodotto e confezionato per…” sede di vendita
 >> pagina 370 

L’ELENCO DEGLI INGREDIENTI

L’elenco degli ingredienti comprende tutte le sostanze usate nella preparazione del prodotto, ancora presenti nel prodotto finito. Deve essere sempre stilato in ordine di peso decrescente, ossia dall’ingrediente presente in quantità maggiore a quello presente in quantità minore. Grazie a questa semplice regola è possibile valutare subito la qualità di alcune tipologie di prodotti, dato che, per esempio, ci si aspetta logicamente che una confezione di crema di nocciole abbia come primo ingrediente le nocciole e non olio o altro.

Gli ingredienti composti, ossia formati a loro volta da più ingredienti (per esempio la crema pasticcera presente in un dolce), devono essere seguiti da “sottoelenchi” contenenti la loro composizione fra parentesi.

Quando un ingrediente viene messo in evidenza nella denominazione di vendita (per esempio “torta alle nocciole”) o nell’immagine di presentazione, esso viene definito ingrediente caratterizzante; la quantità dell’ingrediente caratterizzante deve essere esplicitata nell’elenco degli ingredienti, esprimendola in valore percentuale sul peso dell’alimento (per tornare al nostro esempio: nocciole 30%). Questa particolare indicazione è definita QUID, acronimo di Quantitative Ingredient Declaration.

Gli ingredienti provenienti da organismi geneticamente modificati (OGM) sono riportati se la loro presenza supera lo 0,9% in peso, di fatto a titolo meramente informativo, dato che non sono considerati pericolosi dalla legge italiana.

L’acqua aggiunta va menzionata solo se resta presente nel prodotto finito in quantità superiore al 5%.

Aromi, additivi e allergeni

Dopo l’elenco degli ingredienti principali di solito vengono citati gli eventuali aromi, additivi e allergeni.

  • Gli aromi possono essere definiti “naturali” se provenienti da sostanze biologiche. In alternativa sono ammessi quelli di origine sintetica purché ne sia accertata l’innocuità per la salute umana.
  • Gli additivi sono sostanze aggiunte appositamente per migliorare alcune caratteristiche del prodotto, come conservabilità, sapore, aspetto, consistenza. Quelli consentiti dall’Unione Europea per l’industria alimentare sono molecole di comprovata innocuità, identificati da un numero preceduto dalla lettera E. Occorre indicarne il nome di categoria seguito dal nome specifico o dal relativo numero (per esempio: “conservante: acido lattico”, oppure “conservante: E270”).
  • Gli allergeni sono sostanze che in alcuni individui possono scatenare reazioni allergiche, anche quando sono presenti in quantità minime. Quando sono presenti negli alimenti, tali sostanze devono essere segnalate in etichetta con caratteri e colori particolarmente evidenti. Gli allergeni vanno indicati esplicitamente con la dicitura “contiene...” anche nel caso di prodotti privi di elenco degli ingredienti, o con la dicitura “può contenere tracce di...” nel caso di alimenti lavorati in stabilimenti dove polveri allergeniche indesiderate potrebbero facilmente contaminare il prodotto prima del suo confezionamento.
 >> pagina 371 

ALTRE DICITURE OBBLIGATORIE

La quantità

Affinché il consumatore non venga tratto in inganno dalle dimensioni dell’imballaggio, la legge impone di indicare la quantità netta dell’alimento: tale valore, quindi, non deve mai includere il peso dell’imballaggio (tara). La quantità deve essere espressa in unità internazionali di massa per gli alimenti (kg, g, mg) e di capacità (l, cl, ml) per le bevande.

Se l’alimento è immerso in una fase liquida (acqua, olio, salamoia), vicino al peso netto deve essere indicato anche il peso sgocciolato, inteso come il peso dell’alimento privo della parte liquida. Alcuni esempi tipici sono la mozzarella, il tonno in scatola, i pelati, le verdure in agrodolce.

Inoltre, quando le confezioni di vendita al dettaglio sono costituite, per esigenze di conservazione, da un insieme di sotto-imballaggi, è necessario indicarne la quantità nominale con diciture del tipo “contiene 4 vasetti”, “contiene 16 bustine” e così via.

 >> pagina 372 
La scadenza

Una delle indicazioni più importanti per il consumatore è la data di scadenza: viene determinata attraverso analisi di laboratorio, per confronto con prodotti simili o consultando apposite guide tecniche. Per interpretare correttamente l’informazione, è fondamentale conoscere la differenza tra la “data di scadenza” e il “termine minimo di conservazione” di un prodotto, indicazioni che appaiono simili ma vengono usate in circostanze ben diverse.

Nelle etichette alimentari, la data di scadenza è sempre espressa con la formula “da consumarsi entro il (giorno/mese/anno)”. Essa compare sulle confezioni di prodotti altamente deperibili, come i latticini e tutti quegli alimenti che devono essere conservati nei banchi frigo a 4° C, i quali non hanno mai una scadenza superiore ai 30 giorni. Se consumati dopo la data di scadenza, gli alimenti di questo tipo diventano pericolosi per la salute e possono causare disturbi anche seri, dovuti alla proliferazione eccessiva di microrganismi.

Il termine minimo di conservazione (TMC) viene invece espresso nella formula “da consumarsi preferibilmente entro…”, seguito dalla data. I prodotti con questa dicitura sono esposti in vendita a temperatura ambiente o nei banchi di surgelazione; se consumati oltre la scadenza indicata, essi non diventano immediatamente pericolosi ma si modificano le loro caratteristiche organolettiche, e la qualità originaria dell’alimento non può essere garantita.

La dicitura del TMC e il conseguente formato della data cambiano leggermente se il prodotto si altera entro 3 mesi dal momento del confezionamento, entro 18 mesi o dopo i 18 mesi. I vari casi sono riassunti nella seguente tabella (i termini delle date minuscoli tra parentesi non sono obbligatori, quelli maiuscoli sì).


TIPO DI SCADENZA DICITURA FORMATO SCADENZA
data di scadenza “Da consumarsi entro il...” G/M/A entro 30 giorni dalla produzione
termine minimo di conservazione “Da consumarsi preferibilmente entro il...” G/M/(a) entro 3 mesi dalla produzione
“Da consumarsi preferibilmente entro fine...” (g)/M/A fra i 3 e i 18 mesi dalla produzione
“Da consumarsi preferibilmente entro la fine del...” (g)/(m)/A oltre i 18 mesi dalla produzione

Non è obbligatorio indicare né la data di scadenza né il termine minimo di conservazione per i seguenti prodotti:

  • panetteria venduta sfusa, in quanto il pane fresco va ritirato dal commercio dopo 24 ore;
  • bevande alcoliche con volume di alcol sopra il 10%, in quanto a tale concentrazione l’alcol agisce come conservante naturale;
  • aceto, sale da cucina, caramelle e altri alimenti che per loro natura ostacolano la moltiplicazione batterica;
  • prodotti venduti freschi, sfusi e non confezionati come gelati, frutta, verdura, carne, pesce, latticini. In questo caso la sicurezza alimentare è controllata e garantita direttamente dal venditore.
Il numero di lotto (o partita)

Per lotto si intende “un insieme di unità di vendita di una derrata alimentare prodotte, fabbricate o confezionate in circostanze praticamente identiche” (Decreto legislativo n. 109/1992, art. 13). I termini lotto e partita sono sinonimi.

Il numero di lotto è una stampigliatura indelebile che viene impressa sulla confezione al momento dell’impacchettamento finale, insieme alla data di scadenza o al termine minimo di conservazione. Le confezioni destinate a essere vendute sfuse ma inscatolate assieme avranno tutte lo stesso numero di lotto. Invece le varie scatole prodotte in successione saranno caratterizzate da numeri di lotto progressivi.

Di solito il lotto di appartenenza viene indicato con un numero preceduto da una L, ma altre volte la stampigliatura consiste in un codice alfanumerico. In altri casi ancora sono riportate la data e l’ora corrispondenti al momento di produzione.

Il numero di lotto è una sorta di “codice fiscale” del prodotto: consente infatti di risalire all’azienda che lo ha realizzato e permette di sapere dove e quando è avvenuta la produzione. È quindi un elemento preziosissimo per la rintracciabilità degli alimenti.

Proprio grazie al numero di lotto, organi di controllo come i NAS (cioè i Nuclei Antisofisticazioni e Sanità dei Carabinieri), le Aziende Sanitarie Locali e la Guardia di Finanza, o anche le stesse ditte produttrici o venditrici, possono individuare e ritirare velocemente dal commercio le partite di alimenti ritenute non idonee.

 >> pagina 373 
L’origine o provenienza

L’articolo 3 del Decreto legislativo n. 109/1992 prescrive di indicare nell’etichetta il “luogo di origine o provenienza, nel caso in cui l’omissione possa indurre in errore l’acquirente circa l’origine o la provenienza del prodotto”. L’affermazione ha un carattere vago: infatti, da un lato non specifica che cosa si debba intendere per “luogo” (nazione, regione, territorio o comune?), dall’altro lascia ai produttori la libera scelta di inserire o meno tale informazione sulle etichette.

L’ambiguità è evidente quando la localizzazione della sede di produzione non coincide con il paese di origine della materia prima. La canna da zucchero, per esempio, viene prevalentemente coltivata in America Latina e in Asia, ma anche in minima parte in Sicilia: un’azienda che raffina zucchero di canna potrà scegliere di specificarne o meno l’origine in etichetta se le canne da zucchero provengono dall’estero, mentre dovrebbe farlo a norma di legge se esse provengono da coltivazioni siciliane.

Di solito la zona geografica di provenienza viene indicata per quegli alimenti fortemente caratterizzati da uno specifico territorio o contraddistinti da una fattura artigianale (come la pasta di Gragnano, il salmone norvegese, le cipolle di Tropea, la crema di pistacchi di Bronte ecc.).

Ci sono poi alcuni alimenti specifici per i quali la legge impone l’indicazione di provenienza. Si tratta di oli vergini ed extravergini, passate di pomodoro, ortofrutta, miele, uova, latte, pesce, carne bovina, vino.

L’etichettatura della carne

In seguito ai recenti episodi epidemici che hanno caratterizzato la scena del mercato alimentare europeo (encefalite bovina nel 2000, influenza aviaria nel 2006, influenza suina nel 2009), la carne è stata oggetto di interventi legislativi d’emergenza da parte delle autorità europee. Allo stato attuale, secondo il Regolamento CE n. 1760/2000, la carne bovina in vendita deve riportare il luogo di nascita, di allevamento, di macellazione e di sezionamento dell’animale.

Invece le carni ovine, suine e il pollame, secondo il Regolamento CE n. 1169/2011, sono soggette solo all’indicazione del luogo di allevamento e di macellazione dell’animale; la sua origine potrà apparire, su base volontaria, se la carne è ottenuta da capi allevati e macellati nello stesso paese. Le diciture da applicare sono “allevato in...” e “macellato in...” se l’animale è stato trasferito da un paese all’altro, oppure “origine: …” se l’animale è rimasto tutta la vita nel paese di origine. Per la carne di cavallo e coniglio non è stata ancora stabilita una regolamentazione.

 >> pagina 374 
Le modalità di conservazione

Quando si acquista un alimento confezionato è lecito ritenere che, se non diversamente indicato, esso si manterrà inalterato fino alla scadenza semplicemente restando su uno scaffale, a temperatura ambiente ed esposto alla luce.

Quando tali condizioni possono causare un peggioramento delle caratteristiche organolettiche, il produttore è tenuto per legge a indicare sull’etichetta gli accorgimenti da adottare per conservare correttamente il prodotto: leggeremo così scritte come “una volta aperto tenere in frigo e consumare entro 24 ore”, “conservare in luogo fresco e asciutto”, “teme l’umidità”, “tenere lontano da fonti di calore e al riparo dalla luce”…

Le istruzioni per l’uso

Non tutti gli alimenti o le bevande appena estratti dalla loro confezione possono essere consumati direttamente. Alcuni, come i piatti precucinati o congelati, richiedono necessariamente una preparazione. In questi casi l’azienda produttrice è obbligata a inserire in etichetta alcune informazioni che chiariscano in che modo l’alimento debba essere trattato prima dell’ingestione (“preriscaldare in forno a 180 °C”, “stendere su una teglia unta e lasciar riposare”, “tempo di cottura: 10 minuti”, “scongelare prima dell’utilizzo”, “mettere direttamente il prodotto congelato in padella” ecc.).

Il titolo alcolometrico

Una bevanda è da ritenersi alcolica se contiene più dell’1% di alcol. Per legge, diventa obbligatorio indicarne il tenore alcolico quando l’alcol supera la soglia dell’1,2% del volume totale: l’indicazione viene espressa con la dicitura standardizzata “...% alc.”

La tabella nutrizionale

Le informazioni nutrizionali sono diciture che compaiono sulle etichette alimentari di solito in forma di tabella. Forniscono principalmente due tipi di indicazioni: il peso delle sostanze nutritive presenti nell’alimento e la quantità di energia fornita. La legge stabilisce anche le indicazioni di forma e di contenuto minime da inserire nelle dichiarazioni nutrizionali.

  • Per facilitare il confronto fra confezioni contenenti quantità diverse di uno stesso prodotto, i valori nutrizionali devono riferirsi a 100 g (o 100 ml se si tratta di un alimento liquido). In aggiunta è consigliato riportare i valori riferiti a singole porzioni, quando l’alimento è suddiviso in unità anch’esse imballate.
  • I valori energetici devono essere espressi in chilocalorie (kcal) e in chilojoule (kJ) e devono riferirsi sia ai 100 g di riferimento sia alle eventuali porzioni.
  • Le sostanze nutritive minime da indicare sono (nell’ordine): grassi (intesi come lipidi totali), acidi grassi saturi (come sottocategoria dei grassi), carboidrati (intesi come glucidi totali con l’esclusione delle fibre), zuccheri (intesi come somma dei mono e disaccaridi), proteine e sale. Per ognuna di queste sostanze deve comparire il peso espresso in grammi.
  • È possibile aggiungere alla tabella indicazioni facoltative, in particolare suddividendo i grassi insaturi in monoinsaturi e polinsaturi, i carboidrati in polioli (intesi come polialcoli a effetto dolcificante che forniscono meno di 4 kcal/g) e amido. Inoltre può essere indicato anche il contenuto in fibre (intese come fibre vegetali a cui corrispondono 2 kcal/g) e il contributo relativo alle vitamine e ai minerali, per i quali sono ammesse unità di misura inferiori al grammo.

In precedenza la legge richiedeva l’indicazione dei valori nutrizionali solo nei casi in cui in etichetta comparivano affermazioni relative a qualche vantaggio nutritivo, come “light”, “senza zuccheri”, “senza colesterolo”, “fonte di proteine”, “senza sale”, mentre dal 13 dicembre 2016 è obbligatorio indicare i valori nutrizionali su tutte le etichette alimentari.

 >> pagina 375 

IL CODICE A BARRE

Su ogni tipo di etichetta o confezione compare un rettangolino costituito da linee nere verticali su sfondo bianco che alternano spaziature e spessori variabili. È il codice a barre, utile all’identificazione elettronica delle merci. Ne esistono vari tipi: il più comune, chiamato GTIN-13 (Global Trade Item Number), può essere letto velocemente da lettori ottici che associano al codice una sequenza di 13 numeri (ma esistono anche codici a barre di lunghezze diverse composti da 8, 12 e 14 cifre) . Tale sequenza, grazie a un software di cui sono dotati i registratori di cassa, viene automaticamente convertita in descrizione e prezzo del prodotto acquistato, poi stampigliati sullo scontrino.

L’adozione del codice a barre è facoltativa, ma oggi quasi tutte le aziende ne fanno uso. Infatti questo strumento risulta di grande utilità nella gestione logistica delle merci, e viene spesso utilizzato per gestire il magazzino; inoltre garantisce automazione, precisione e velocità nel flusso delle merci.

I numeri del codice a barre sono elaborati e assegnati dal GS1 (la sigla sta per Global Standard), un’associazione con sede a Bruxelles che si occupa di sviluppare standard internazionali e soluzioni per rendere più efficiente la relazione tra domanda e offerta. Il GS1, infatti, ha messo a punto il sistema più diffuso al mondo per la codifica dei prodotti di largo consumo.

La sequenza numerica del codice a barre è suddivisa in modo diverso a seconda che si tratti di prodotti a prezzo fisso o variabile.

Prodotti a prezzo fisso
  • I primi 3 numeri a sinistra (detti “flag”) identificano il paese sede del marchio del prodotto. I numeri che indicano l’Italia vanno da 800 a 839.
  • I successivi 6 numeri identificano il marchio del prodotto. In Italia sono assegnati dall’INDICOD-Ecr (Istituto Nazionale per la Diffusione della Codifica dei Prodotti – Efficient Consumer Response), un’associazione che riunisce oltre 30 000 imprese e rappresenta il GS1 nel nostro paese. Tutte le aziende italiane che adottano il GTIN per i propri prodotti sono identificate da un numero diverso.
  • I successivi 3 numeri sono utilizzati dall’azienda venditrice come numero di catalogazione. Ogni azienda ha quindi a disposizione 1000 numeri (da 000 a 999) per catalogare tutto il suo inventario.
  • L’ultimo numero ha funzione di controllo ed è chiamato check digit. Risulta da un algoritmo ottenuto dai precedenti e serve al software per verificare la corretta lettura dello scanner.

Il Quick Response Code

Attualmente si sta diffondendo un nuovo tipo di codice a barre di origine giapponese chiamato Quick Response Code o QR Code (ossia codice a risposta rapida). Si tratta di un codice a barre bidimensionale. La decodifica (ossia la lettura) avviene inquadrando il codice con la fotocamera di un tablet o di uno smartphone dotato di un apposito software e di connessione Internet. Il Quick Response Code rimanda infatti a un indirizzo web in grado di fornire qualunque informazione relativa al prodotto preso in esame. Questo codice ha licenza libera, dunque sono gratuiti sia i software per la sua generazione sia quelli per la sua decodifica.

Prodotti a prezzo variabile
  • Il primo numero a sinistra indica il paese di vendita; all’Italia è stato assegnato il numero 2.
  • I successivi 6, assegnati dall’INDICOD-Ecr, descrivono il prodotto in vendita sfuso.
  • I successivi 5 contengono le indicazioni dell’azienda per definire il prezzo del prodotto una volta pesato.
  • L’ultimo numero è il check digit.

Percorsi di scienza degli alimenti
Percorsi di scienza degli alimenti
Per il primo biennio