Le tecniche chimiche di conservazione

 3  LA TECNOLOGIA APPLICATA ALL’ALIMENTAZIONE >> 12. Alterazione e conservazione degli alimenti

Le tecniche chimiche di conservazione

Per conservare gli alimenti si possono utilizzare anche metodi chimici, basati sull’impiego di sostanze naturali o di sintesi in grado di inibire o rallentare i processi di alterazione. Tra quelle naturali ci sono il fumo e il sale, il miele e lo zucchero, l’alcol, l’olio e altri grassi alimentari, l’aceto e le spezie. Ancor più numerosi sono gli additivi chimici conservanti oggi usati nell’industria alimentare. Una caratteristica che accomuna la maggior parte dei metodi chimici di conservazione è la loro interferenza con il gusto dell’alimento, che può dare luogo a sapori diversi e particolari.

Affumicatura

Una tecnica che conferisce agli alimenti un sapore molto caratteristico è l’affumicatura, tradizionalmente utilizzata per conservare diverse tipologie di pesce, tra cui salmone e anguilla, o salumi (speck) e formaggi (caciocavallo e provola). L’affumicatura è un processo nel quale concorrono due elementi di diversa natura: il calore (di natura fisica) e il fumo (di natura chimica). L’alimento viene infatti esposto al calore e al fumo sprigionati dalla combustione lenta o incompleta, vale a dire senza fiamma, di legni non resinosi: per esempio faggio, ciliegio, quercia o castagno. I legni resinosi come il pino non vengono utilizzati perché, se sottoposti a combustione lenta, liberano aromi che modificano in modo sgradevole il sapore dell’alimento.

È importante che sia esclusivamente il fumo a entrare in contatto con l’alimento e non la fiamma. Infatti, il fumo del legno contiene varie sostanze aromatiche, come la formaldeide (o aldeide formica) e l’acido acetico, che grazie alle loro proprietà antibatteriche agiscono da conservanti. La fiamma, invece, a contatto con il cibo causerebbe una combustione diretta, generando molecole tossiche con azione cancerogena (per questo stesso motivo la cottura del cibo al barbecue è sconsigliata agli inesperti).

Il processo di affumicatura è talvolta preceduto da una fase di salatura o di essiccamento che contribuisce a disidratare l’alimento. Può avvenire in vari modi, anche combinati tra loro. In particolare, distinguiamo:

  • l’affumicatura a freddo, che si protrae per vari giorni a temperature tra i 20 e i 25 °C ed è tipicamente usata per il salmone e altri alimenti che devono mantenersi morbidi;
  • l’affumicatura tiepida, di durata analoga ma con fumi a temperatura leggermente più elevata (tra i 25 e i 40 °C), che è adatta per alimenti grassi come pancetta e speck;
  • l’affumicatura a caldo, che è più sbrigativa ma non per questo meno efficace: richiede poche ore a una temperatura compresa fra i 50 e i 90 °C e ha un potere antibatterico superiore a quello delle precedenti due tecniche.

Negli ultimi anni, soprattutto per esigenze industriali che puntano più a modificare le qualità organolettiche degli alimenti che a favorire la loro conservazione, si è diffusa l’affumicatura ad acqua. In questo procedimento il fumo emanato dal legno viene raffreddato e condensato, diluito, filtrato e nebulizzato sull’alimento. In pratica si impiega un “fumo liquido”: ciò consente di abbreviare notevolmente i tempi, con indubbi vantaggi di standardizzazione e automazione delle operazioni. Inoltre, l’affumicatura ad acqua facilita la rimozione delle molecole potenzialmente dannose dal fumo, impedendo che si depositino sull’alimento. Questa operazione di detossificazione del fumo viene comunque effettuata anche negli affumicatoi industriali di tipo tradizionale.

L’affumicatura rappresenta un passaggio importante anche nella produzione di alcuni whisky scozzesi e birre ambrate. Il gusto particolare di questi prodotti si ottiene appunto sottoponendo i germogli d’orzo (futuro malto) ad affumicatura con fumo di torba. La pratica è essenzialmente finalizzata a modificare le caratteristiche organolettiche delle bevande più che a favorirne la conservazione.

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Impiego di sale

Il cloruro di sodio (NaCl, ossia il comune sale da cucina) viene impiegato da millenni per conservare il cibo. Esercita infatti una forte azione disidratante sulla maggior parte dei tessuti organici, tanto che l’acqua in essi contenuta può essere estratta per osmosi senza nemmeno dover rimuovere le barriere naturali che normalmente controllano la permeabilità dell’alimento, come la buccia, la pelle o le squame. Questo trattamento determina una duplice conseguenza:

  • disidrata l’alimento, sottraendogli molta acqua libera: così all’interno delle sue cellule le proteine diventano più resistenti all’azione degli enzimi proteolitici e si blocca il processo di necrosi;
  • disidrata i microrganismi, generando effetti che, all’aumentare della concentrazione del sale, possono variare da batteriostatici a battericidi.

In teoria, per estrarre l’acqua da un alimento è sufficiente che la concentrazione del sale all’esterno sia superiore a quella dei suoi tessuti. In pratica, un effetto conservante efficace si ottiene a partire da concentrazioni saline superiori al 10% (cioè 100 g di sale per litro d’acqua). Aumentando la concentrazione la disidratazione avviene più velocemente. Vi è comunque un limite fisico che corrisponde a una concentrazione salina del 36%, percentuale in cui, a temperatura ambiente, l’acqua salata raggiunge il punto di saturazione. Oltre il punto di saturazione, il sale non si scioglie più e precipita. Nulla vieta comunque di porre il sale direttamente a contatto con la superficie dell’alimento per ottenere una veloce disidratazione. Si parla di salamoia quando il processo di conservazione si basa sull’impiego di una soluzione di acqua e sale, nella quale in genere l’alimento viene completamente immerso. Quando il sale viene utilizzato direttamente, mettendolo a contatto con l’alimento, si parla invece di salatura a secco.

In genere si ricorre al sale grosso perché estrae l’acqua dagli alimenti penetrando limitatamente al loro interno. Al contrario, il sale fino rimane sugli strati più esterni dell’alimento creando una barriera cristallina che limita la quantità di acqua sottratta.

L’impiego del sale, accompagnato ad altre tecniche di conservazione come la sterilizzazione, è anche un ottimo metodo di conservazione domestica: viene usato tradizionalmente per acciughe, merluzzo (baccalà), olive, cetriolini, pomodori e crauti. Inoltre, ha il vantaggio di eliminare il rischio di botulismo.


RIFERIMENTI PRATICI PER I VALORI DI CONCENTRAZIONE DEL SALE
0,9 g/l soluzione fisiologica: concentrazione di Na+ e Cl nel sangue
35 g/l acqua di mare
75 g/l limite di tolleranza per la maggior parte degli organismi
100 g/l - 300 g/l salamoie: ambiente ideale di sviluppo per microrganismi alofili estremi (archeobatteri)
350 g/l acqua del Mar Morto
360 g/l punto di saturazione
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Impiego di miele e zucchero

La canna da zucchero arrivò in Europa dall’Oriente soltanto in conseguenza delle Crociate, tra l’XI e il XIII secolo. Fino ad allora, in Occidente il miele era stato l’unico prodotto dolcificante disponibile in quantità significative. Oltre che come dolcificante esso veniva utilizzato per prolungare la durata di molti alimenti. Grazie alla sua elevata concentrazione zuccherina, alla sua spiccata azione antibiotica e al suo pH acido, il miele è, infatti, un ottimo conservante, tutt’oggi impiegato nella preparazione di salse agrodolci.

Dopo le Crociate lo zucchero soppiantò quasi completamente il miele in entrambi gli utilizzi, nonostante esso (a differenza del prodotto delle api) non abbia alcuna proprietà antibiotica. Anzi, di norma il saccarosio – il comune zucchero semolato – è la sostanza nutritiva preferita da molti microrganismi, che lo digeriscono per fermentazione. Tuttavia, quando la sua concentrazione raggiunge il 70%, lo zucchero lega a sé le molecole d’acqua libera presenti nell’alimento, comportando una diminuzione del valore di Aw dell’alimento stesso.

Questa sottrazione di acqua per via chimica ostacola anche la crescita microbica e, dunque, esercita un importante effetto batteriostatico. A concentrazioni superiori il saccarosio cristallizza: nelle caramelle, per esempio, la quantità di zucchero è tale da formare una barriera solida pressoché priva di acqua libera e praticamente inattaccabile per i microrganismi, benché molto collosa.

A concentrazioni inferiori al 70%, invece, l’effetto conservante dello zucchero diventa molto blando e occorre associare altre tecniche di conservazione, come nel caso del latte dolce condensato.

L’impiego di zucchero è frequente nella conservazione della frutta, che deve comunque essere trattata previamente con il calore e conservata in contenitori appertizzati. In questo modo si preparano le confetture o le composte (contenenti pezzi di frutta), le marmellate (con frutta ridotta in purea) e le gelatine (ottenute dal succo della frutta).

Impiego di alcol etilico

L’alcol ha la capacità di penetrare all’interno dei tessuti dei cibi e di mischiarsi all’acqua in essi presente. Più l’alcol è concentrato, meno acqua resterà nell’alimento trattato. Superato il 50% esso diventa letale per i microrganismi, che perdono la loro acqua interna. L’azione disinfettante dell’alcol non si limita ai soli batteri (battericida), ma si estende anche ai funghi (fungicida) e ai virus (virucida). Ha dunque un effetto antisettico, che giustifica il suo impiego come disinfettante domestico e l’assenza di scadenza per i liquori superalcolici come whisky e vodka.

Le preparazioni sotto spirito (ciliegie, uva, prugne, albicocche) sono un esempio tipico di uso dell’alcol come conservante.

In termini generali, occorre ricordare che più l’alcol è concentrato, più è costoso.

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L’alcol etilico

L’alcol etilico, o etanolo, è il risultato della trasformazione dello zucchero secondo un particolare processo biochimico, detto fermentazione alcolica, svolto in natura da alcuni lieviti del genere Saccharomyces.

Probabilmente gli effetti psicoattivi della frutta fermentata erano noti fin dall’antichità, ma in Europa occorrerà attendere la fine del Medioevo per assistere alla diffusione della distillazione finalizzata alla produzione di alcol.

Oggi questo tipo di fermentazione è comunemente usato per ottenere bevande come birra e vino o alimenti come la pasta per il pane: esso non produce mai una gradazione alcolica superiore al 15% (ossia 15 cl di alcol in un litro totale di bevanda).

L’alcol usato in campo alimentare ha invece una gradazione del 95%: si tratta dell’alcol etilico buongusto, ottenuto dalla fermentazione della canna da zucchero e successivamente raffinato attraverso vari processi industriali di distillazione.

Impiego di oli e grassi

A temperatura ambiente, gran parte dei lipidi di origine animale risultano densi, di consistenza pari al grasso aderente ai muscoli. Quelli di provenienza vegetale, invece, si presentano per lo più in forma di oli liquidi. L’immersione nel grasso (strutto, sego) o nell’olio (di oliva o di semi) consente di isolare il cibo dall’aria e di mantenerlo in un ambiente a pH leggermente acido, il che ostacola lo sviluppo di molte specie batteriche.

Tra gli alimenti che generalmente vengono conservati sott‘olio ci sono ortaggi e pesce.

Quando si utilizza questa tecnica di conservazione, il rischio principale è rappresentato dal botulino, un batterio che si sviluppa proprio in ambienti anaerobi e leggermente acidi e che produce una tossina dagli effetti potenzialmente letali. Per questo, i prodotti conservati sott’olio spesso vengono preventivamente sottoposti a sterilizzazione.

Impiego di aceto

L’aceto si ottiene per fermentazione acetica di varie materie prime (come vino, cereali e mele) a opera di alcuni batteri del genere Acetobacter. Il suo effetto conservante è dovuto alla presenza dell’acido acetico: una sostanza che, in concentrazione superiore al 6%, svolge sia un effetto batteriostatico, poiché determina un abbassamento del pH, sia un effetto battericida, in quanto si tratta di una molecola tossica per molte specie di batteri. Tuttavia l’acido acetico esercita entrambe le azioni in modo molto blando, pertanto l’impiego dell’aceto viene solitamente abbinato all’uso di altre tecniche di conservazione, per esempio la salatura. Gli alimenti tradizionalmente conservati sott’aceto sono in genere verdure come crauti, cipolle e cetrioli, ma anche pesci, soprattutto l’anguilla.

Aceto e igiene

Prima dell’introduzione dei moderni protocolli d’igiene, l’aceto, anche per il basso costo e per la capacità di respingere le mosche, veniva comunemente usato non solo per la conservazione dei cibi ma anche per la pulizia delle superfici delle cucine. La tradizione contadina, inoltre, prevedeva l’utilizzo di una miscela di aceto e sale per pulire, frizionandole leggermente solo per pochi istanti, le pentole di rame: lasciando la soluzione troppo a lungo a contatto con il rame, infatti, il metallo si corrode.

Impiego di spezie

L’uso di spezie è antichissimo, già i romani erano soliti impiegarle per la loro azione antifermentante. Il meccanismo mediante cui inibiscono lo sviluppo dei microrganismi non è del tutto chiaro e non è riconducibile a una sola categoria di molecole. Salvia, rosmarino e timo sembrano le più efficaci, il loro effetto conservante deriva dagli oli essenziali che contengono, in particolare l’eugenolo. Nei paesi caldi alcune spezie, su tutte il peperoncino, sono usate in abbondanza soprattutto per la capacità di nascondere i difetti di conservazione dei cibi. Il loro effetto batteriostatico, infatti, è alquanto debole, nonostante la tradizione associ al piccante la capacità di frenare le alterazioni alimentari. In realtà, il “bruciore” dei peperoncini deriva dalla presenza della capsaicina, un alcaloide senza riconosciute proprietà conservanti ma con effetti farmacologici a basse concentrazioni, che si lega violentemente ai termocettori presenti sulla lingua e sul resto del corpo, generando un’illusoria sensazione di bruciore.

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