L'alterazione degli alimenti

 3  LA TECNOLOGIA APPLICATA ALL’ALIMENTAZIONE >> 12. Alterazione e conservazione degli alimenti

L’alterazione degli alimenti

Si narra che quando il celebre condottiero del popolo mongolo Tamerlano (1336-1405) decise di insediarsi a Samarcanda per farne la capitale del suo impero, volle individuare il punto migliore dove costruire i depositi delle derrate alimentari. A questo scopo, fece appendere nei vari quartieri delle carcasse di agnello a pali conficcati nel terreno. Laddove si trovava la carcassa meno decomposta dopo un certo periodo di tempo, Tamerlano individuò il punto più ventilato e salubre della città, il più adatto per conservare al meglio le riserve alimentari.

Questo semplice aneddoto fa capire che conservazione e alterazione sono concetti complementari: da una parte la natura completa i suoi cicli biologici degradando tessuti e molecole, dall’altra l’umanità, ingegnandosi per frenare tali processi, finisce per comprenderli meglio.

Traendo inizialmente spunto dai fenomeni che osservava in natura, l’uomo ha via via adottato metodi di conservazione sempre più sofisticati, fino ad automatizzarli.

Curiosamente l’industria della conservazione alimentare si sviluppò ancor prima che i processi alla base dell’alterazione degli alimenti fossero compresi a pieno. Solo con la nascita della microbiologia, nella seconda metà del XIX secolo, le cause del deterioramento alimentare sono divenute chiare: grazie al contributo di importanti ricercatori, si superò la vecchia idea della generazione spontanea, secondo la quale alcuni organismi potevano prendere vita dalla materia non vivente. Era il caso, per esempio, di vermi e insetti che, secondo questa teoria, potevano generarsi spontaneamente sulla carne in decomposizione.

La comprensione profonda dei processi degenerativi ha permesso, col tempo, di sviluppare tecniche di conservazione sempre più efficaci e sicure.

Ancora oggi la ricerca in questo settore è in costante evoluzione, grazie soprattutto al contributo delle aziende alimentari.

Pasteur e la fine della generazione spontanea

La teoria della generazione spontanea ebbe molto credito almeno fino al XVII secolo, pur se sostenuta da considerazioni di scarso o nessun rigore scientifico.

Nonostante già nel Settecento lo scienziato italiano Lazzaro Spallanzani ne avesse dimostrato l’infondatezza, nel 1864 l’Accademia delle Scienze di Parigi decise di premiare chiunque fosse stato in grado di fornire una prova definitiva e inconfutabile a favore o a sfavore della teoria della generazione spontanea.

Fu il chimico e microbiologo Louis Pasteur (1822-1895) a vincere il premio e a infliggere il colpo mortale alla teo­ria, dimostrando che dalle presunte “sorgenti di vita”, come il cibo avariato, non nasceva assolutamente nulla se esse venivano trattate in modo adeguato con il calore. In tal modo, oltre a evidenziare gli effetti disinfettanti del calore, egli dimostrava che ciò che non ha vita non genera vita… a meno di non essere contaminato da esseri viventi, come insetti o microrganismi.

Le cause dell’alterazione

Un alimento si definisce alterato quando subisce modificazioni degenerative nelle sue caratteristiche nutrizionali e organolettiche tali da renderlo non più commestibile.

Le cause che concorrono all’alterazione degli alimenti sono numerose e tra loro molto diverse. A far degenerare il cibo possono essere, per esempio, l’esposizione alla luce, all’umidità, all’ossigeno o a temperature inadeguate, o ancora l’azione di enzimi e quella di esseri viventi (dai microrganismi, come i batteri, ai macrorganismi, come i roditori). Tutti questi fattori possono essere distinti sulla base della loro origine oppure sulla base della loro natura.

  • Riguardo all’origine, si distinguono fattori esogeni ed endogeni. Si definiscono esogeni tutti quei fattori che causano il deterioramento dall’esterno, agendo sulle superfici dell’alimento, come la luce, l’ossigeno, gli esseri viventi. Si definiscono invece endogeni quei fattori che operano dall’interno dell’alimento e sono quindi riconducibili alla sua stessa costituzione.
  • Riguardo alla natura, si distinguono fattori biologici e chimico-fisici. Costituiscono fenomeni biologici i processi di decomposizione della materia organica, spontanei o operati dagli esseri viventi che contaminano l’alimento. Invece, i fattori di natura chimica e fisica (come ossigeno, temperatura e luce) contribuiscono a stimolare oppure rallentare l’attività dei microrganismi o addirittura ad alterare direttamente le qualità organolettiche dell’alimento.
CLASSIFICAZIONE DEI PRINCIPALI FATTORI DI ALTERAZIONE
FATTORI DI ALTERAZIONE ORIGINE NATURA
ESOGENA ENDOGENA BIOLOGICA CHIMICO-FISICA
microrganismi X   X  
enzimi X X X  
macrorganismi X   X  
ossigeno X     X
acqua e umidità X X X X
temperatura X     X
luce X     X

Nella tabella sono elencati i principali fattori responsabili dell’alterazione alimentare. Si nota che la maggior parte delle cause di alterazione è esogena, cioè proviene dall’esterno. Inoltre, dalla tabella appare evidente che l’origine e la natura dei fattori di alterazione sono due variabili indipendenti l’una dall’altra: sia i fattori esogeni sia quelli endogeni possono essere di natura biologica o di natura chimico-fisica.

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MICRORGANISMI DECOMPOSITORI

I composti organici presenti in tutti i tessuti morti, e dunque anche negli alimenti, attirano i microrganismi decompositori, per i quali rappresentano una fonte ideale di nutrimento. Infatti, nei tessuti morti le barriere fisiologiche da superare sono assenti o facilmente penetrabili senza innescare meccanismi di difesa immunitaria. L’ambiente è popolato da innumerevoli virus, batteri, lieviti, muffe (e dalle loro spore) che si depositano a ”ondate” su tali superfici, portati da qualche vettore o veicolo di contaminazione, sommandosi progressivamente. Una volta insediati, i microrganismi attivano batterie di enzimi che innescano processi di perforazione, penetrazione, digestione e assorbimento delle sostanze nutritive del tessuto. Queste ultime vengono così trasformate in prodotti nuovi, generalmente repulsivi per i nostri gusti, oltre che tossici. Nei casi in cui l’attività microbica determina la comparsa di caratteristiche gradevoli e non tossiche, si preferisce utilizzare l’espressione “trasformazione alimentare” anziché alterazione.

Decomposizione aerobica e decomposizione anaerobica

Sul piano chimico, i microrganismi possono decomporre gli alimenti in presenza di ossigeno (decomposizione aerobica) o in assenza di ossigeno (decomposizione anaerobica).

Nella decomposizione aerobica i microrganismi, reazione dopo reazione, degradano quasi completamente le molecole del cibo, trasformandole in anidride carbonica (CO2) e acqua (H2O). In altri termini, questi processi biologici svolgono in tempi molto lunghi ciò che il fuoco realizzerebbe in un attimo.

Nella decomposizione anaerobica, che può avvenire nel sottosuolo, all’interno di un frutto, nell’intestino di un animale, in un insaccato o dentro una conserva, i microrganismi trasformano gradualmente le molecole del cibo in vari gas, definiti “di palude” per via dell’odore caratteristico e pungente.

Esempi di sostanze maleodoranti generate dalla decomposizione anaerobica sono l’ammoniaca (NH3), l’idrogeno solforato (H2S) e la fosfina (PH3); sono invece privi di odore il metano (CH4) e l’idrogeno (H2).

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Alimenti... morti

Come sappiamo, l’uomo è un organismo eterotrofo: deve cioè cibarsi di altri esseri viventi (o di loro “prodotti”, come il latte o le uova) per rifornirsi di molecole da cui trarre materia prima ed energia. Spesso non ci pensiamo, ma gran parte dei nostri alimenti è costituita da organismi morti, derivanti per esempio dalla macellazione di un animale o dallo sradicamento di una pianta.

A ben vedere, la distinzione che passa fra un animale carnivoro e uno necrofago (ossia che si nutre di carogne) è data solo dal tempo intercorso tra la morte dell’animale di cui essi si ciberanno e il momento nel quale lo mangiano. Allo stesso modo, è solo una questione di tempo anche la distinzione tra un animale erbivoro e un organismo saprofita, che si nutre cioè di materia organica in decomposizione.

Il tempo è infatti un fattore fondamentale, poiché l’alterazione dei tessuti morti genera molecole via via più semplici, ma incrementa anche il numero di sostanze tossiche. Per gli organismi che si nutrono di cibo “morto”, il momento in cui possono assumere i vari alimenti dipende dunque dal rapporto fra le loro capacità digestive e l’efficienza del loro sistema immunitario. L’essere umano è caratterizzato da un apparato digerente capace di digerire molecole complesse, ma il suo sistema immunitario non ha difese confrontabili a quelle di cui sono dotati, per esempio, avvoltoi e iene.

ENZIMI

Gli enzimi sono proteine in grado di favorire l’unione o la scissione delle molecole organiche. A causare l’alterazione degli alimenti sono principalmente quelli che operano scissioni, detti enzimi catabolici. Essi infatti accelerano notevolmente reazioni spontanee che, in loro assenza, avverrebbero in tempi secolari.

Gli enzimi possono avere origine endogena o esogena.

  • Gli enzimi endogeni sono quelli presenti naturalmente nelle cellule di ogni organismo. Alla morte dell’organismo, gli enzimi racchiusi nei lisosomi delle sue cellule vengono liberati nel citosol e le molecole e gli organelli vengono autodigeriti in un processo detto autolisi, che si conclude con il rigonfiamento e lo scoppio delle cellule. Nelle sue fasi iniziali, l’autolisi ha una funzione organolettica positiva sugli alimenti: gli enzimi endogeni sono responsabili, per esempio, della maturazione della frutta e di alcune verdure e della frollatura della carne. Se l’azione degli enzimi endogeni si prolunga nel tempo, però, finisce con lo stimolare e facilitare la contaminazione microbica.
  • Gli enzimi esogeni sono invece quelli prodotti dai microrganismi decompositori presenti nell’ambiente o dai microrganismi che popolano le mucose dell’organismo morto. Questi ultimi, infatti, si trasformano in “opportunisti” alla morte del soggetto che li ospita, cioè aumentano approfittando di una condizione di deficitaria resistenza dell’ospite. Gli enzimi esogeni provvedono alla digestione dei tessuti e dei nutrienti in essi contenuti, a partire sia dalle superfici interne sia da quelle esterne.

Quando l’azione combinata di enzimi endogeni ed esogeni si protrae a lungo, la digestione delle sostanze nutritive produce molecole di dimensioni sempre più piccole e leggere, quindi facilmente volatili. Esse sono di scarsa utilità per il metabolismo umano e in certi casi risultano addirittura tossiche. Il nostro olfatto di esseri umani evoluti le ha connotate come fortemente sgradevoli per “tenerci lontano” dalla loro assunzione.

Gli enzimi nei processi di decomposizione

L’azione degli enzimi causa fenomeni di decomposizione avanzata noti come putrefazione, irrancidimento enzimatico e fermentazione.

  • Putrefazione. È un processo di digestione avanzata degli amminoacidi. Viene operato da enzimi specifici, chiamati proteasi, in assenza di ossigeno. Attraverso la putrefazione si generano molecole nauseanti come le ammine biogene (istamina, tiramina, cadaverina, putrescina), i mercaptani, l’indolo e lo scatòlo; alcune fra queste molecole, se assunte in dosi eccessive, possono causare effetti da intossicazione quali nausea, dolori addominali e vomito.
  • Irrancidimento enzimatico. È un processo di idrolisi degli acidi grassi che avviene in presenza di ossigeno a opera di enzimi specifici, definiti lipasi. Questo processo genera, tra l’altro, acido propionico e butirrico dall’odore sgradevole.
  • Fermentazione. È un processo di ossidazione, generalmente a carico dei glucidi, che avviene in assenza di ossigeno (anaerobiosi). Vari microrganismi operano questo tipo di reazione: i loro prodotti sono anch’essi fortemente connotati dal punto di vista olfattivo.
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La frollatura

Quando un animale muore, il suo corpo va incontro a tre stadi in sequenza, definiti abiotici: il raffreddamento (algor mortis), l’irrigidimento (rigor mortis) e infine lo sbiancamento (livor mortis). Dopo questi tre stadi iniziali si concretizzano i processi biotici, cioè riconducibili all’attività biologica, di putrefazione.

Durante le prime fasi della putrefazione, la digestione enzimatica delle fibre muscolari ha una funzione importante nel rendere la carne più tenera, digeribile e succosa al palato umano. Questo fenomeno è definito frollatura: può avvenire in modo controllato, per esempio ponendo in celle frigorifere i grossi tagli da macello per un paio di settimane. Durante la frollatura, la digestione parziale delle proteine coinvolte nella contrazione determina il rilassamento dei muscoli e conferisce alla carne la morbidezza, l’odore e il colore tipico di quella che troviamo esposta in macelleria.

MACRORGANISMI

Tutti i macrorganismi rappresentano potenziali vettori di contaminazione biologica se entrano in contatto con un alimento (o se questo viene a contatto con le loro deiezioni corporee, come saliva, escrementi, sudore). Particolarmente insidiosi sono insetti, vermi e roditori.

Gli insetti come mosche, scarafaggi e farfalline presentano uno specifico elemento di rischio che contribuisce all’alterazione del cibo e va ad aggiungersi agli elementi di rischio comuni anche agli altri macrorganismi. Infatti, spesso essi depositano le loro uova negli alimenti non protetti. Dalle uova si sviluppano in breve tempo larve e bachi che si nutriranno dell’alimento, favorendone la decomposizione. Le larve di mosca, se ingerite con le vivande che le ospitano, possono causare ulcerazioni all’apparato digerente per la loro capacità di conficcarsi tra i villi intestinali.

OSSIGENO

L’aria contiene circa il 21% di ossigeno. Questo elemento chimico è fortemente reattivo e tende a legarsi a molecole e metalli, causandone l’ossidazione.

L’ossidazione di una molecola organica comporta in alcuni casi la sua inattivazione con conseguente impoverimento nutrizionale. È il caso delle vitamine A e C, di alcune sostanze aromatiche e dei pigmenti colorati. Il fenomeno dell’imbrunimento delle mele, una volta esposta la loro polpa all’aria, è appunto dovuto all’azione dell’ossigeno atmosferico. L’ossigeno, inoltre, favorisce la crescita dei microrganismi aerobi come le muffe, i lieviti e molti batteri.

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ACQUA

L’acqua rappresenta il fattore determinante per lo sviluppo della vita. Essa è il mezzo in cui avviene qualunque reazione biologica e la sua assenza causa la morte degli organismi o forme di criptobiosi. Al contrario, quando è abbondante, l’acqua esercita un forte richiamo per qualunque organismo e ne stimola la moltiplicazione.

Sulla superficie di un alimento secco lo sviluppo dei microrganismi risulta fortemente inibito, ma al crescere del suo tasso di umidità (e del suo indice Aw, che permette di valutare il tenore di acqua libera) l’alimento diventerà sempre meno friabile e fragrante: inizieranno a svilupparsi dapprima le muffe e successivamente i batteri, i quali prediligono ambienti con un significativo contenuto di acqua.

Nei vegetali l’acqua determina anche il turgore delle parti verdi. L’avvizzimento, ossia l’appassimento irreversibile, che consegue allo sradicamento delle piante, è un’alterazione dovuta al crollo della pressione osmotica nell’insieme del vegetale. L’avvizzimento può avvenire anche su una pianta viva per opera di parassiti, in particolare funghi e batteri che si sviluppano nei dotti linfatici, cioè nei ”canali” all’interno dei quali scorre la linfa delle piante.

TEMPERATURA

Il calore è una forma di energia capace di influenzare direttamente la velocità delle reazioni chimiche: se aumenta, la reazione avviene più velocemente, se diminuisce, la reazione richiede più tempo. Già alla temperatura di 40 °C tutte le molecole sono in forte stato di agitazione termica. Questa condizione, che è quasi costante nelle zone più calde del pianeta, favorisce notevolmente le reazioni biologiche fra enzimi e substrati, accelerando per esempio la progressione delle infezioni e anche le alterazioni alimentari. Negli alimenti, temperature ancora più alte possono causare danni molecolari ai nutrienti (dalla denaturazione alla carbonizzazione).

Le basse temperature comportano invece un graduale rallentamento delle reazioni alterative, ma possono comunque determinare una perdita di nutrienti per i danni generati dai cristalli di ghiaccio che si formano all’interno dei tessuti cellulari.

LUCE

L’energia contenuta nella luce induce in alcune molecole organiche la liberazione di specie chimiche altamente reattive, dette radicali liberi. Questi, prima di essere neutralizzati, possono generare reazioni a catena che inattivano molecole sensibili contenute negli alimenti, come le vitamine A, B2 e C. Inoltre danneggiano alcune sostanze proteiche o grasse (in quest’ultimo caso si parla di irrancidimento ossidativo) e modificano il colore (alterando i pigmenti), l’odore, il sapore e la consistenza dell’alimento stesso.

Per evitare che la luce possa causare tali danni, molti contenitori alimentari sono scuri (bottiglie per birra, vino, olio) o del tutto opachi (contenitori per latte, succhi di frutta).

I radicali liberi e le molecole antiossidanti

Nelle molecole biologiche la scissione di un legame chimico produce generalmente due ioni di carica opposta: uno negativo, che ha assorbito i due elettroni del legame, e uno positivo, carente di elettroni. Alcune forme di energia (radiazioni, luce, calore) possono, però, determinare scissioni omolitiche: anziché due ioni, in questo caso si generano due molecole che, alla scissione del legame, ricevono ciascuna un solo elettrone. Le specie così ottenute, che presentano elettroni spaiati nell’orbitale più esterno, si definiscono “radicali” e sono estremamente reattive: hanno una fortissima tendenza a legarsi subito ad altre molecole, spesso danneggiandole. Per giunta, il legame fra un radicale e un’altra molecola comporta spesso la generazione di altri radicali.

Si creano così cascate di reazioni dannose che si interrompono solo quando il radicale viene ricevuto da molecole definite “anti­ossidanti” (come le vitamine E e C) che, pur danneggiandosi, non producono nuovi radicali liberi. È ormai dimostrato che le cascate innescate dai radicali liberi sono all’origine dell’invecchiamento cellulare.

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ORGANIZZO LE CONOSCENZE


La conservazione degli alimenti

La dieta dei primi uomini preistorici somigliava a quella degli attuali predatori onnivori: pasti frugali di scarso contenuto calorico, punteggiati da rare abbuffate in stagioni o circostanze propizie. La necessità di assicurarsi provviste di cibo per affrontare periodi non favorevoli alla caccia e alla raccolta li indusse ad adottare le prime tecniche di conservazione. Queste, insieme all’uso del fuoco, segnarono una svolta determinante, accrescendo l’apporto proteico della dieta e favorendo l’evoluzione biologica della specie.

Fu la natura stessa a suggerire all’uomo le prime possibilità di conservazione del cibo, sotto forma di frutta avvizzita rimasta sugli alberi, di animali trovati sepolti sotto il ghiaccio o essiccati dal sole e dall’aria, o ancora di pesci rimasti intrappolati in saline naturali: cibo non più fresco, ma ancora commestibile.

LA CONSERVAZIONE IN ETÀ MODERNA

Nell’Ottocento la conservazione degli alimenti cominciò a essere un tema affrontato a livello industriale: furono messe a punto svariate tecniche per limitare i fenomeni di deterioramento spontaneo del cibo, grazie anche ai progressi scientifici che trovarono risposte al problema dell’alterazione degli alimenti.

Lo sviluppo successivo delle scienze e delle tecnologie ha anche chiarito che tutti gli alimenti sono entità complesse e dinamiche. Complesse dal punto di vista sia della composizione sia della comunità microbica che li caratterizza; dinamiche perché in costante evoluzione durante la conservazione, per effetto delle numerose cause di alterazione che abbiamo esaminato.

OBIETTIVI DELLA CONSERVAZIONE

Le tecniche di conservazione moderne sono caratterizzate da un elevato contenuto tecnologico, ma nei principi ricalcano ancora pratiche tradizionali che in ambito domestico tendono ormai a scomparire (come la preparazione delle classiche conserve). Qualunque sia la tecnica di conservazione scelta, si hanno inevitabili perdite nutrizionali nel cibo conservato.

La conservazione di un alimento si ottiene soddisfacendo le seguenti condizioni:

  • eliminando i microrganismi, i virus e i parassiti presenti (o almeno ostacolandone lo sviluppo);
  • inibendo i processi fisiologici di decomposizione interni all’alimento;
  • limitando al massimo il contatto con possibili fonti esterne di contaminazione (aria, oggetti solidi, esseri viventi di ogni genere, altri cibi e così via).

Le tecniche che consentono di soddisfare queste condizioni sono accorpabili in tre gruppi sulla base della loro natura: distinguiamo così fra tecniche fisiche, tecniche chimiche e tecniche biologiche.

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L’hurdle concept

Confrontando le diverse tecniche di conservazione, si potrà notare che, quando esse sono molto efficaci nel diminuire le varie cause d’alterazione, danneggiano inevitabilmente anche le sostanze nutritive che compongono l’alimento. Viceversa, i metodi che preservano al meglio il valore nutrizionale del cibo hanno un’efficacia blanda contro le cause di alterazione, e non fanno certo “impennare” la conservabilità.

Un altro limite delle tecniche di conservazione più drastiche è che il loro impiego comporta il rischio molto serio di selezionare microrganismi resistenti a quelle stesse tecniche, i quali potrebbero espandersi molto velocemente essendo tali alimenti ormai privi di tutti gli altri microrganismi “concorrenti”.

Esistono molteplici fattori di stress (variazione della temperatura, del pH, dell’Aw, della salinità ecc.) che rappresentano un ostacolo (hurdle in inglese) allo sviluppo di gran parte dei microrganismi responsabili di alterazione. Applicando queste informazioni alle tecniche di conservazione, lo scienziato tedesco Lothar Leistner ha recentemente sviluppato il cosiddetto hurdle concept, o teoria degli ostacoli, che prevede l’eliminazione dei microrganismi attraverso la combinazione di più tecniche applicate blandamente, anziché impiegando una sola tecnica spinta all’estremo: infatti tanti piccoli stress risultano più efficaci di un solo trattamento drastico. I vantaggi sono una maggior sicurezza alimentare, cambiamenti organolettici meno intensi e nessun rischio di selezionare batteri resistenti. Attualmente sono in corso numerosi studi per mettere a punto le combinazioni di tecniche più opportune in relazione all’alimento da conservare.

Le tecniche fisiche di conservazione

Le tecniche fisiche di conservazione degli alimenti comprendono gli interventi sulla temperatura (impiego del calore o sottrazione di calore), la sottrazione di acqua o di aria, l’utilizzo di radiazioni.

Impiego deI calore

Per ridurre drasticamente il numero dei microrganismi presenti negli alimenti, l’impiego delle alte temperature offre il miglior compromesso tra efficacia e costi economici. Perciò questo metodo è di gran lunga il più diffuso, tanto che il pretrattamento degli alimenti e dei loro contenitori ad alte temperature è spesso abbinato ad altre tecniche di conservazione.

L’impiego del calore causa evidenti cambiamenti organolettici nel cibo: gli alimenti cotti cambiano aspetto, consistenza, odore e gusto, ampliando la gamma dei sapori talvolta in modo sorprendente. Il principale limite di questa tecnica è che essa comporta una perdita dei nutrienti termolabili, cioè sensibili al calore, come le vitamine. Come sappiamo, si tratta di una perdita variabile in base alla tipologia dell’alimento e alle tecniche di cottura utilizzate. A riguardo, studi specifici hanno chiarito che il modo migliore per eliminare i microrganismi e al contempo limitare i danni termici consiste nel trattare gli alimenti ad alte temperature per tempi brevi, anziché a temperature inferiori per tempi più lunghi. In questo modo l’effetto disinfettante del calore è massimo, mentre la perdita di nutrienti viene limitata.

L’effetto disinfettante del calore è dovuto principalmente alle profonde modificazioni che esso induce nelle proteine. Come sappiamo infatti, oltre i 60 °C si innesca il fenomeno della denaturazione per shock termico. Le proteine si deformano, perdono la loro funzionalità biologica e coagulano.

Ai fini della conservazione, la denaturazione delle proteine ha due importanti effetti:

  • battericida: oltre i 60 °C, i batteri (così come qualunque altro organismo contaminante) cominciano a morire per via della progressiva perdita di forma e funzione delle proteine che li costituiscono;
  • conservante: ogni enzima, di origine endogena o esogena, ha una sua temperatura di denaturazione. Superata tale temperatura risultano compromessi sia i processi di necrosi intracellulare sia quelli di digestione microbica extracellulare. Gli alimenti trattati in questo modo si conservano più a lungo.

Le tecniche di conservazione che si basano sull’impiego del calore sono essenzialmente tre: cottura, pastorizzazione e sterilizzazione.

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LA COTTURA

Fin dai tempi antichi, la cottura è stato il metodo più veloce e diffuso per disinfettare qualunque alimento e dunque per conservarlo un po’ più a lungo. Per eliminare i microrganismi occorre raggiungere temperature di almeno 75 °C, in modo tale da assicurare l’effetto denaturante anche sotto gli strati superficiali dell’alimento, dove i microrganismi potrebbero sfuggire all’azione battericida del calore.

L’arte della cottura richiede che si sappia trovare il giusto compromesso tra disinfezione del cibo e conservazione dei nutrienti utili per il nostro organismo. Per soddisfare queste condizioni, il cuoco deve saper controllare la durata (tempo) dell’esposizione al calore e la sua intensità (temperatura), evitando trattamenti impropri che possono produrre sostanze tossiche, come la combustione diretta con conseguente carbonizzazione di alcune parti del cibo.

LA PASTORIZZAZIONE

La tecnica della pastorizzazione prende il nome dallo scienziato francese Louis Pasteur, che nella seconda metà del XIX secolo studiò come eliminare i batteri da vari alimenti di largo consumo e riuscì a contrastare la propagazione di alcune malattie endemiche dell’epoca, come la rabbia, il carbonchio e la tubercolosi, diffondendo non solo la vaccinazione ma anche l’abitudine di trattare con il calore alcuni alimenti crudi, come il latte, prima della loro ingestione.

La pastorizzazione consiste nel portare gli alimenti a temperature poco superiori ai 60 °C. Essa è utilizzata solo per alcuni alimenti liquidi (latte e derivati, vino, birra, succhi di frutta, uova sgusciate). Eliminando i microrganismi patogeni, ha il pregio di essere facilmente applicabile anche in ambito domestico e di modificare in misura minima le qualità organolettiche degli alimenti. Tuttavia essa non elimina spore, tossine termostabili e batteri termoresistenti, ossia gli agenti biologici che per loro natura resistono a questo tipo di trattamento termico. Per questa ragione la pastorizzazione è spesso abbinata ad altre tecniche di conservazione, efficaci contro gli agenti di alterazione che le sopravvivono. Attualmente si distinguono due principali metodi di pastorizzazione:

  • pastorizzazione lenta (o bassa): esposizione dell’alimento a una temperatura di 60-65 °C per 25-30 minuti (utilizzata per vino, birra, succhi di frutta e latte destinato alla produzione di formaggi);
  • pastorizzazione rapida (o alta): esposizione dell’alimento a una temperatura di 75-85 °C per 15-20 secondi (utilizzata per latte fresco e uova sgusciate).

La tecnica di pastorizzazione del latte si è notevolmente affinata nel corso del tempo, passando dal semplice riscaldamento dell’alimento liquido alla sua stassanizzazione (dal nome dell’ingegnere Enrico Stassano): questo procedimento prevede che l’alimento scorra attraverso piastre metalliche molto ravvicinate e calde (75 °C). All’effetto del calore si aggiunge quello del metallo che, carico elettricamente, attira a sé buona parte dei microrganismi. La stassanizzazione, particolarmente efficace per purificare il latte, si è evoluta nella tecnica industriale HTST (High Temperature Short Time, ossia “alta temperatura per breve tempo”).

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LA STERILIZZAZIONE

La sterilizzazione prevede il ricorso a temperature più elevate, tali da assicurare l’eliminazione anche delle forme biologiche resistenti al calore (come la tossina botulinica, che si denatura a 80 °C). Rispetto alla pastorizzazione, la sterilizzazione garantisce una maggiore conservabilità (o shelf-life) dell’alimento, a spese tuttavia di una maggiore perdita di sostanze nutritive. Gli alimenti sottoposti a sterilizzazione vengono poi confezionati in recipienti anch’essi sterili.

Si distinguono due principali tipologie di sterilizzazione, quella generica e quella detta UHT.

  • La sterilizzazione generica (o classica) prevede che nel punto più interno all’alimento si raggiunga una temperatura di 121 °C per almeno 8 minuti. Viene utilizzata per molti alimenti, di origine sia vegetale sia animale, incluse alcune vivande pronte, come sughi e minestre.
  • La sterilizzazione UHT (Ultra High Temperature), o uperizzazione, è una tecnica specifica per ottenere latte a lunga conservazione. Nel latte viene iniettato vapore acqueo a 140-150 °C per 3 secondi. La shelf-life del latte così trattato è nettamente superiore, rispetto a quella ottenuta da semplice pastorizzazione. Il latte UHT si conserva a temperatura ambiente per circa 3 mesi, mentre quello pastorizzato, tenuto in frigo, non supera i 3-5 giorni.
La tindalizzazione

Un particolare metodo di sterilizzazione è la tindalizzazione (dal nome del fisico inglese John Tyndall, 1820-1893): in questo caso l’alimento è sottoposto dapprima all’effetto battericida di temperature comprese fra i 60 e i 100 °C, poi viene mantenuto per circa un giorno a temperature di incubazione (37 °C) al fine di far dischiudere le spore sopravvissute. Il trattamento va ripetuto per vari cicli (giorni), procedendo in tal modo a una sterilizzazione frazionata.

La tindalizzazione non è sempre applicabile, ma si rivela utile per gli alimenti zuccherini o a forte contenuto di vitamine, nei quali temperature troppo elevate causerebbero un calo eccessivo delle proprietà nutrizionali.

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L’appertizzazione

Le origini della sterilizzazione applicata agli alimenti inscatolati risalgono a Nicolas Appert (1749-1841), inventore francese che nel 1810, grazie a un concorso indetto da Napoleone, diffuse la tecnica, veloce ed efficace, di sterilizzare in acqua bollente l’alimento assieme al suo contenitore, che sia una scatola metallica o un barattolo di vetro. La tecnica, definita appertizzazione, ha posto le basi per i moderni metodi industriali di sterilizzazione che prevedono l’impiego di macchinari detti autoclavi, simili nel principio di funzionamento a pentole a pressione.

Impiego del freddo

Ricorrere al freddo per conservare il cibo è un metodo antico e molto efficace: basti pensare che fra i ghiacci della Siberia sono stati rinvenuti mammut risalenti a oltre 4000 anni fa in perfetto stato di conservazione.

Nell’Italia settentrionale si trovano ancora ghiacciaie antiche di secoli, costituite da ampi pozzi scavati nel terreno. Il frigorifero, brevettato nel 1851 da John Gorrie, si è diffuso a livello domestico solo in tempi relativamente recenti. L’industria del surgelato, frutto di un’intuizione di Clarence Birdseye, che prese spunto dalle tecniche di pesca da lui osservate presso gli inuit (popolo dell’Artico), risale invece agli anni Trenta del secolo scorso.

Queste tecnologie innovative, applicate anche al commercio e ai mezzi di trasporto (camion, navi, treni), in seguito avrebbero permesso non solo di preservare gli alimenti fuori stagione, ma anche di smerciarli a migliaia di chilometri di distanza, dando un notevole impulso alla globalizzazione del commercio del cibo.

Costi e vantaggi dell’impiego del freddo

Le tecniche di conservazione degli alimenti basate sull’utilizzo del freddo sono essenzialmente tre: la refrigerazione, il congelamento e la surgelazione. Tutte presentano una caratteristica che non può essere trascurata: il freddo ha un costo elevato.

Ciò che più grava sui costi (e sulla sostenibilità) della conservazione mediante basse temperature è la necessità di mantenere la catena del freddo fino alla vendita del prodotto. Infatti gli alimenti congelati e confezionati devono mentenere una bassa temperatura fino al momento dell’impiego. Ciò richiede sistemi di trasporto e stoccaggio specifici (celle frigorifere, camion, navi e treni frigoriferi, banchi frigo) associati a costanti controlli termici, e comporta un significativo consumo di energia.

Il costo è però controbilanciato da due vantaggi: da una parte i metodi di conservazione basati sul freddo si possono applicare ad alimenti sia solidi sia liquidi, dall’altra inibiscono lo sviluppo dei microrganismi senza danneggiare i nutrienti. Infatti, al contrario del calore, il freddo non danneggia le molecole delle sostanze nutritive e rallenta progressivamente le reazioni di decomposizione causate dagli enzimi che inattivano le proteine, fino ad arrestarle.

Per quanto riguarda l’effetto sui contaminanti, il freddo non elimina praticamente mai i batteri né i virus (per uccidere i batteri occorrerebbe far scendere lentamente la temperatura sotto i –40 °C). Non ha quindi un effetto battericida, bensì batteriostatico, cioè non uccide i batteri ma ne inibisce l’attività e la moltiplicazione. In particolare, tra i +5 e i –20 °C le attività biologiche dei microrganismi rallentano, poiché diminuisce la velocità delle reazioni enzimatiche. Sotto i –20 °C, invece, la maggior parte dei microrganismi è del tutto immobile: al diminuire della temperatura, essi entrano in una sorta di ibernazione definita batteriostasi. In molti di questi, l’acqua non congela, perché il loro citosol è più denso di quello di una cellula eucariota, dunque non si formano cristalli di ghiaccio. Non appena la temperatura ricomincia a salire, i batteri riprendono gradualmente le loro normali attività (movimento, nutrizione, moltiplicazione).

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LA REFRIGERAZIONE

Nei frigoriferi, insieme agli alimenti che si preferisce consumare freschi, sono conservati anche quelli a breve scadenza. Le temperature oscillano di norma intorno ai 4 °C (nei frigoriferi classici gli scomparti inferiori sono di solito leggermente più freddi), il che permette di ottenere un rallentamento dello sviluppo microbico e dei processi di alterazione, senza congelamento dell’acqua nel cibo (nemmeno quando la temperatura è di 0 °C). Tramite la refrigerazione si allunga mediamente di tre volte la naturale scadenza dei cibi rispetto a quella che si avrebbe a temperatura ambiente.

I frigoriferi moderni sono anche in grado di mantenere un tasso di umidità costante, in modo da evitare che gli alimenti non sigillati si secchino o, al contrario, si inumidiscano troppo. Sistemi di ricircolo dell’aria garantiscono invece che gli odori non ristagnino impregnando gli alimenti.

è sconsigliabile porre nel frigorifero vivande appena cucinate, o comunque ancora calde, in quanto il rialzo termico potrebbe allontanare gli altri alimenti refrigerati dalla soglia minima di sicurezza dei 4 °C, oltre che costringere l’elettrodomestico a uno sforzo considerevole per ripristinare la temperatura interna adeguata. Nei contesti ristorativi si risolve il problema ricorrendo agli abbattitori: apparecchiature a ventilazione forzata che abbassano rapidamente la temperatura delle vivande.

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IL CONGELAMENTO

Il congelamento si ottiene lasciando che l’alimento raggiunga in ogni suo punto una temperatura di almeno –12 °C. Ciò richiede parecchio tempo, anche usando freezer domestici in grado di raggiungere temperature molto basse. In tali condizioni, ogni attività microbica ed enzimatica viene interrotta a causa della solidificazione dell’acqua presente nell’alimento.

Uno svantaggio tecnico del congelamento riguarda l’acqua contenuta all’interno degli alimenti a base cellulare: più il congelamento avviene lentamente, più all’interno delle cellule si formeranno cristalli di ghiaccio, inizialmente di piccole dimensioni e poi sempre più grandi, fino a raggiungere dimensioni tali da perforare le membrane cellulari. L’evidenza di tale danno si manifesta non appena l’alimento viene scongelato: il liquido che si forma quando, per esempio, una bistecca viene scongelata, contiene preziose sostanze nutritive e deriva in parte dalla fuoriuscita dei liquidi interni attraverso queste falle.

LA SURGELAZIONE

La surgelazione è un metodo di conservazione industriale che risolve i problemi del congelamento. L’alimento viene infatti congelato in modo ultrarapido (in meno di 4 ore) per raggiungere almeno i –18 °C in ogni suo punto. In passato la surgelazione avveniva immergendo l’alimento in sostanze atossiche come l’azoto liquido (–200 °C).

Oggi esistono abbattitori in grado di surgelare gli alimenti: questi strumenti risultano indispensabili, se non obbligatori, per la conservazione del pesce fresco destinato al sushi (piatto di origine giapponese a base di pesce crudo). Con la surgelazione, all’interno dell’alimento si formano solo microcristalli, cioè cristalli di ghiaccio di piccolissime dimensioni, che non possono perforare le membrane cellulari. Il cibo surgelato è dunque al tempo stesso igienicamente stabile e nutrizionalmente perfetto.

La surgelazione si presta a qualunque tipo di alimento e si adatta molto bene anche a cibi precucinati con carica batterica minima. Spesso gli alimenti vengono preparati in blocchetti (è il caso degli spinaci) o in piccole confezioni per rendere il processo più veloce ed efficace. Ciò può essere un vantaggio al momento del consumo, in quanto diversi alimenti di piccole dimensioni surgelati o congelati possono essere cucinati senza bisogno di scongelamento.

Scongelare e ricongelare

In base alle osservazioni fatte, si capisce perché è bene non ricongelare mai un alimento scongelato. Da una parte, infatti, lo scongelamento comporta una perdita delle sostanze nutritive, dall’altra favorisce la proliferazione dei batteri presenti nell’alimento che, una volta tornati a temperatura ambiente, riprendono a moltiplicarsi. Vari cicli di congelamento-scongelamento non possono che rendere un alimento sempre più povero di nutrienti e sempre più contaminato.

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