La fase orale

 2  ALIMENTAZIONE E CORPO UMANO >> 7. La digestione

La fase orale

Prima digestio fit in ore, “la prima digestione avviene in bocca”, dicevano i latini.

Nella bocca, infatti, definita anche cavità buccale o cavo orale, durante la masticazione il cibo viene triturato dai denti e impastato con la saliva, trasformandosi così in bolo alimentare. Questa fase è fondamentale soprattutto per idratare gli alimenti (in particolare quelli secchi), prepararli all’azione degli enzimi, già presenti nella saliva, e facilitarne lo scorrimento lungo l’esofago.

La saliva riveste un ruolo fondamentale durante la fase orale. Si tratta di un liquido acquoso secreto in abbondanza da varie ghiandole salivari: l’uomo, in un giorno, ne produce più di un litro. Le ghiandole salivari più importanti prendono il nome dalla loro posizione: quelle sottolinguali e sottomandibolari si trovano infatti sotto la lingua, mentre le ghiandole parotidi (termine che significa “presso le orecchie”) sono poste nella regione retromandibolare e secernono una saliva meno densa e più limpida.

Nella composizione della saliva si trovano, oltre all’acqua, soprattutto enzimi che avviano un primo processo di digestione degli amidi. Tali enzimi, all’interno del bolo, restano attivi per circa un’ora dopo la sua discesa nello stomaco. Alcuni di essi svolgono anche una funzione antibatterica, aggredendo e neutralizzando i batteri che penetrano nel cavo orale.


ENZIMI PRESENTI NELLA SALIVA
ENZIMA CATEGORIA FUNZIONE
ptialina idrolasi, alfa-amilasi degrada l’amido in frammenti di maltosio (dimeri di glucosio)
lisozima idrolasi, glicosidasi agisce da antibatterico (contro la parete dei batteri Gram +, v. p. 283)
perossidasi ossidoreduttasi agisce da antibatterico (producendo radicali liberi)
lipasi idrolasi, esterasi scinde i trigliceridi in acidi grassi e glicerolo

Gusto e sapore

La fase orale della digestione è anche il momento nel quale percepiamo il sapore del cibo. Il sapore è, dal punto di vista fisiologico, la risultante di due componenti: il gusto e l’olfatto.

La percezione del gusto dipende dalle papille gustative sparse sulla superficie della lingua; queste strutture specializzate, di forme tra loro diverse e riconoscibili a occhio nudo, sono in grado di reagire alle molecole alimentari che si sciolgono nella saliva durante la masticazione, inviando un segnale nervoso diretto al cervello. Le papille gustative percepiscono solo i gusti primari del cibo, e cioè amaro/acido, salato/dolce e umami.

L’umami (termine giapponese che significa “sapido”, “saporito”) corrisponde alla percezione gustativa di alcuni amminoaci­di, in particolare dal glutammato di sodio, un esaltatore di sapidità talvolta usato anche in campo alimentare come sostituto del sale.

Di recente identificazione è il gusto grasso, che viene percepito da una molecola-recettore sensibile ai vari lipidi alimentari. Curiosamente, sembra che individui con quantità minori di recettori per il grasso sulla lingua siano più predisposti a diventare obesi poiché, essendo meno sensibili al gusto del grasso, tendono a ingerirne quantità maggiori.

Durante la masticazione si liberano dal cibo anche molecole più volatili che, risalendo il canale nasofaringeo, raggiungono la mucosa olfattiva: l’odore del cibo, misto al gusto percepito sulla lingua, genera la sensazione integrata del sapore.

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LA MASTICAZIONE

Una masticazione metodica e prolungata facilita l’impasto del bolo con la saliva e il suo successivo ingresso nell’esofago. Inoltre, ha numerose conseguenze positive per l’intero processo digestivo.

  • Migliora la percezione dei sapori. I cibi masticati a lungo, specialmente se caldi, rilasciano nella saliva maggiori sostanze aromatiche, subito captate dalle papille gustative, e liberano diversi vapori che stimolano l’olfatto: il tutto genera una sensazione di sapore più coinvolgente.
  • Facilita la digestione chimica nello stomaco. Gli enzimi prodotti dalla mucosa gastrica riescono a degradare con molta più efficacia il bolo se questo è stato debitamente triturato dall’azione masticatoria dei denti.
  • Stimola la produzione anticipata dei succhi gastrici, pancreatici e biliari che interverranno nelle fasi successive della digestione.
  • Lascia il tempo di percepire il senso di sazietà. La dilatazione graduale dello stomaco è uno degli stimoli che innesca nel cervello la cessazione progressiva del senso di fame. Tale stimolo impiega un certo tempo (quasi 20 minuti) per determinare il suo effetto. Mangiare in fretta può quindi indurre a riempire lo stomaco oltre il necessario, non lasciando il tempo di comunicare all’encefalo la sua saturazione.
I denti

La frantumazione del cibo durante la masticazione è svolta dai denti. Nell’individuo adulto i denti sono 32, divisi su 2 arcate (mascellare in alto e mandibolare in basso) in modo simmetrico: gli incisivi e i canini afferrano, incidono e lacerano il cibo, mentre i premolari e i molari lo frantumano e lo macinano.

Le gengive dei neonati sono prive di denti. La prima dentizione, definita decidua o da latte, consta di 20 denti, fra cui 8 incisivi, 4 canini e 8 molari. Entro i 13 anni i denti vengono sostituiti progressivamente dalla dentatura definitiva e i molari decidui sono sostituiti dai premolari definitivi. A eccezione di alcuni individui, la dentizione degli adulti è completata dai 4 molari di fondo, noti come “denti del giudizio”, che in genere spuntano tra i 18 e i 25 anni.

Ogni dente è costituito dalle stesse 3 parti:

  • la radice, inserita saldamente nell’alveolo delle ossa;
  • la corona, ossia la parte visibile e sporgente dalle gengive;
  • il colletto, che rappresenta la zona di transizione fra radice e corona; diventa esposto e sensibile in caso di ritiro delle gengive.

Analizzando invece la sezione dei denti, si riconoscono:

  • la polpa dentaria centrale, in cui si inseriscono capillari e terminazioni nervose;
  • la dentina, un tessuto osseo particolarmente duro che costituisce il corpo del dente;
  • il cemento, che riveste la radice della dentina;
  • lo smalto, uno strato sottile ma estremamente resistente all’usura (meccanica e chimica) che riveste la corona del dente.

Placca, tartaro e carie

Alcuni batteri sono in grado di ancorarsi saldamente alla dentina per evitare di essere deglutiti con la saliva. Malgrado gli effetti antibatterici del lisozima contenuto nella saliva, si calcola che 24 ore dopo un pasto essi possono essersi moltiplicati al punto da generare ben 100 strati sovrapposti: si tratta della cosiddetta placca batterica.

La placca può essere facilmente rimossa con lo spazzolino, ma dove persiste essa finisce per indurirsi grazie alla penetrazione di minerali salivari, trasformandosi in tartaro. Inoltre, i batteri che rimangono isolati sotto la placca non hanno più accesso all’ossigeno e passano a una respirazione di tipo anaerobico, che ha l’effetto di generare prodotti acidi.

A lungo andare questi acidi finiscono per corrodere sia lo smalto sia la dentina, generando un buco o meglio una carie, che può condurre gradualmente i batteri fino alla polpa dentaria, ricca di terminazioni nervose; perciò questa infezione batterica può provocare un dolore acuto.

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FARINGE ED ESOFAGO

Una volta che il cibo masticato si trasforma in bolo, esso viene sospinto dalla lingua verso il fondo della cavità orale, la faringe, da cui si diramano la trachea e l’esofago. La trachea è il canale attraverso cui l’aria inspirata arriva ai polmoni; è mantenuta sempre dilatata da anelli di cartilagine e non appartiene all’apparato digerente. L’esofago, che si trova dietro la trachea, è il canale attraverso cui il bolo deglutito giunge allo stomaco e misura poco più di 25 centimetri di lunghezza.

Nella faringe la valvola chiamata epiglottide mantiene di norma aperta la trachea e chiuso l’esofago. Quando il bolo viene deglutito, l’epiglottide si flette all’indietro, chiudendo la trachea e aprendo il passaggio per l’esofago.

Si dice che il cibo “va di traverso” proprio quando una parte di ciò che viene ingerito finisce nella trachea, generando una tosse violenta necessaria a espettorare il corpo estraneo finito involontariamente nelle vie aeree.

La fase gastrica

Scorrendo lungo l’esofago, il bolo raggiunge lo stomaco. Qui, grazie ai movimenti peristaltici, il cibo si rimescola assieme al succo gastrico prodotto dalle pareti dello stomaco stesso, fino a trasformarsi in un impasto acido, definito chimo. L’intero processo in genere dura da una a tre ore, a seconda del pasto ingerito: gli alimenti ricchi di grassi e proteine richiedono tempi lunghi, mentre acqua e alcol sono rapidamente assorbiti attraverso le pareti gastriche e permangono nello stomaco pochi minuti.

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LO STOMACO

Situato sotto i polmoni e il muscolo diaframma, lo stomaco è un’ampia sacca muscolosa a forma di cornamusa. Una delle sue caratteristiche principali è la grande elasticità: la sua capacità può variare da mezzo litro, quando è vuoto, a 4 litri in caso di pasto sovrabbondante. Per evitare che il chimo possa risalire verso l’esofago o proseguire oltre lo stomaco, due strozzature controllano l’ingresso e l’uscita del cibo dall’ambiente gastrico: sopra lo stomaco si trova il cardias, un restringimento carnoso che impedisce il reflusso del chimo (tranne in caso di vomito), mentre sul fondo si trova il piloro, una valvola contrattile regolata per via nervosa e ormonale, che dosa la fuoriuscita del chimo verso il duodeno.

Secrezioni dello stomaco

Le pareti dello stomaco sono cosparse di cellule con funzione ghiandolare, molte delle quali contribuiscono direttamente alla produzione del succo gastrico, un liquido estremamente acido (pH inferiore a 2) composto in prevalenza da acido cloridrico ed enzimi.

  • Le cellule mucose producono il muco necessario a proteggere le pareti dello stomaco dall’azione dei propri succhi gastrici.
  • Le cellule parietali, dette anche ossintiche, producono ioni H+ e Cl. Questi ioni formano l’acido cloridrico (HCl), che oltre a rendere molto acido il succo gastrico stimola l’attivazione degli enzimi secreti dalle altre cellule della mucosa gastrica. Le cellule parietali producono anche il fattore intrinseco: una glicoproteina essenziale per l’assorbimento del ferro e della vitamina B12.
  • Le cellule principali (o zimogeniche) producono due tipi di enzimi: le pepsine, specializzate nel ridurre le proteine in peptidi e singoli amminoacidi, e le lipasi, che danno seguito al lavoro di degradazione degli acidi grassi iniziato nella bocca.
  • Le cellule G producono invece l’ormone gastrina, secreto nel sangue (via endocrina), anziché all’interno dello stomaco (via esocrina). La gastrina, il cui rilascio è controllato direttamente dal sistema nervoso, stimola le secrezioni delle cellule parietali e principali e controlla l’attività del piloro.

L’elevata acidità dell’ambiente gastrico consente da una parte la digestione acida delle proteine, le quali denaturandosi diventano più accessibili all’azione degli enzimi gastrici che le riducono in peptidi, dall’altra esercita un importante effetto disinfettante eliminando la maggior parte dei microrganismi ingeriti assieme al cibo. Fanno eccezione alcuni microrganismi, come l’Helicobacter pylori, responsabile di alcune forme di gastrite e di ulcere, le spore batteriche e alcune tossine, come la tossina botulinica, che restano attive anche dopo la morte del microrga­nismo che le ha prodotte.


ENZIMI SECRETI NELLO STOMACO (PRESENTI NEL SUCCO GASTRICO)
ENZIMA CATEGORIA FUNZIONE
pepsina idrolasi, proteasi scinde le proteine in peptidi
lipasi idrolasi, esterasi scinde i trigliceridi in acidi grassi e glicerolo
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Sonnolenza post-pasto e reflusso gastroesofageo

La digestione gastrica, soprattutto dopo un pasto abbondante, può indurre una certa sonnolenza. Sdraiandosi, però, gli acidi dello stomaco – dilatato e disposto in posizione orizzontale – potrebbero risalire l’esofago fino ad arrivare in bocca, generando saliva acida e bruciori.

Se l’abitudine di coricarsi dopo aver mangiato si consolida, i succhi gastrici possono finire col corrodere il cardias e le pareti dell’esofago. Questo stato può degenerare in una condizione di reflusso gastroesofageo (risalite indesiderate del chimo verso l’esofago) e di acidità cronica, con rischio di lesioni alle pareti dell’esofago, note come ulcere.

Mangiare leggero è il metodo migliore per evitare la sonnolenza e la mancanza di concentrazione dopo il pasto, e limita i rischi di reflusso.

La fase intestinale alta

Dallo stomaco il chimo prosegue attraversando il piloro in piccoli volumi per arrivare nell’intestino tenue. Questa parte dell’intestino è divisa in tre distretti consecutivi di nome duodeno, digiuno e ileo, per una lunghezza complessiva di circa 7 metri nell’adulto.

A questa fase della digestione prendono parte in modo determinante, con i loro secreti, anche le due grandi ghiandole annesse all’apparato digerente: fegato e pancreas.

IL DUODENO

Il duodeno è un tratto intestinale piuttosto corto (misura circa 30 centimetri, o meglio 12 dita, come indica appunto il termine latino duodeni). Riveste però un ruolo cruciale nella digestione, in quanto al suo interno si riversano molti liquidi di provenienza ghiandolare: oltre al muco e agli ormoni secreti dalle pareti del duodeno stesso, vi confluiscono il succo pancreatico e la bile dal fegato.

Non appena il chimo raggiunge il duodeno, si mescola con tali succhi dal pH decisamente basico, raggiungendo un valore prossimo alla neutralità (pH 7). A questo punto il chimo si è trasformato in chilo, che si presenta come un liquido lattiginoso, denso di molecole nutritive ridotte già a dimensioni minime.

In questo primo tratto dell’intestino si innesca la fase conclusiva della digestione dei glucidi, dei protidi e dei lipidi. Il chilo prosegue poi nel digiuno e nell’ileo per essere ulteriormente digerito e assorbito attraverso le pareti intestinali.

Gli ormoni del duodeno

Le pareti del duodeno contengono cellule che secernono per via endocrina diverse sostanze coinvolte nella transizione dalla digestione acida a quella alcalina. Alcune cellule producono la secretina, un ormone che viene liberato nel sangue non appena il chimo acido entra in contatto con queste cellule. La secretina ha un ampio spettro d’azione: spegne lo stimolo che ha generato la sua stessa secrezione, stimola fegato e pancreas a liberare i loro succhi alcalini nel duodeno e rallenta lo svuotamento dello stomaco, causando la chiusura del piloro e la produzione di gastrina da parte delle cellule principali. Altre cellule, stimolate da amminoacidi e acidi grassi presenti

nel chimo, producono un altro ormone, la colecistochinina, che determina la contrazione della cistifellea e quindi il flusso della bile verso il duodeno, mentre a livello cerebrale attiva aree legate al senso di benessere e spegne lo stimolo della fame.

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IL FEGATO

Posto appena sotto il diaframma, il fegato (o ghiandola epatica) è la ghiandola più grande del corpo: pesa circa 1,5 chilogrammi. Si tratta di un organo molto particolare. Possiede infatti la capacità di rigenerarsi e funzionare correttamente anche in caso di lesioni o di parziale asportazione chirurgica, e svolge funzioni così importanti e complesse da essere uno dei pochi organi per i quali non esiste un sostituto artificiale.

Il fegato interviene nel processo digestivo con modalità e in momenti distinti, compiendo numerose funzioni.

Secrezione della bile

Il fegato secerne in modo continuo la bile, un liquido di colore giallo-verdastro, producendone circa un litro al giorno. La bile si accumula nella cistifellea, una piccola sacca (lunga circa 10 centimetri) a forma di ampolla nascosta sotto il fegato, chiamata anche colecisti. Quando il chimo passa attraverso il piloro, la cistifellea si contrae e la bile scorre lungo il coledoco, il canale che la collega al duodeno.

La bile, composta per lo più da acidi e sali biliari, pigmenti biliari e colesterolo, ha il compito di emulsionare i lipidi, riducendoli a piccolissime gocce. Inoltre, avendo un pH basico, neutralizza l’acidità delle secrezioni gastriche. Questo processo di emulsione rende i lipidi più accessibili alla digestione da parte degli enzimi specifici provenienti dal pancreas. La bile liberata nel duodeno, dopo aver svolto le sue funzioni, torna in gran parte al fegato attraverso i processi di assorbimento intestinali, per essere riutilizzata. Alcune sostanze possono tornare nella bile 6-8 volte prima di essere definitivamente eliminate con le urine e le feci.

Il colore della bile

Il caratteristico colore giallo-verdastro della bile dipende dalla presenza di bilirubina e biliverdina, prodotti di degradazione dell’emoglobina. L’emoglobina è la proteina ca­ratteristica degli eritrociti o globuli rossi, e al suo interno contiene un atomo di ferro ossidato, il quale conferisce il colore rosso al sangue.

La vita di un eritrocita è di circa 120 giorni, trascorsi i quali esso viene ritirato dalla circolazione sanguigna dal fegato e dalla milza mentre tutto il suo contenuto viene degradato. Durante questo processo, il fegato separa il ferro dal resto dell’emoglobina e lo immagazzina. In questo modo ciò che resta dell’emoglobina cambia colore e assume una tonalità giallo-verde.

Deposito di nutrienti

Collegato all’intestino tramite la vena porta, il fegato rappresenta una tappa obbligata per la maggior parte delle sostanze nutritive assorbite con la digestione. Gran parte delle molecole presenti nel cibo ingerito vengono infatti dapprima immagazzinate all’interno delle cellule del fegato, meglio definite come epatociti o cellule epatiche, e solo successivamente reimmesse nel circolo sanguigno in tempi e quantità controllate.

Azione detossificante

Il fegato svolge anche un’azione detossificante rispetto alle scorie risultanti dal normale metabolismo (emoglobina, ammoniaca, acido lattico, ormoni ecc.) e a quelle estranee che provengono dall’esterno (farmaci o altre molecole ingerite, respirate o assorbite attraverso la pelle). Quando queste sostanze tossiche risultano presenti nel sangue, vengono captate proprio a livello epatico per essere successivamente trasformate in sostanze eliminabili attraverso le urine.

Altre funzioni

Il fegato svolge anche altre funzioni meno direttamente legate ai processi digestivi, ma non meno importanti, che riguardano per esempio la produzione di fattori di coagulazione, la sintesi di lipidi, la deaminazione delle proteine, l’eliminazione del colesterolo in eccesso e soprattutto il controllo, compiuto in coppia con il pancreas, dei livelli ematici di glucosio.

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IL PANCREAS

Il pancreas è una ghiandola a forma di lingua, di circa 80 grammi di peso, che si trova alloggiata nell’ansa formata dal duodeno, sul fianco sinistro del corpo. Ha un’estremità, definita testa, collegata al duodeno tramite il dotto pancreatico, e un’altra appuntita, detta coda, rivolta verso la milza.

Le secrezioni del pancreas

Il pancreas agisce attraverso due modalità di secrezione: una, esocrina, consiste nel rilascio del succo pancreatico nel dotto che raggiunge il duodeno; l’altra, endocrina, consiste invece nel rilascio di ormoni nei capillari che irrorano la ghiandola. Gli ormoni raggiungono poi i loro bersagli attraverso il flusso sanguigno.

  • Il succo pancreatico è un liquido incolore e viscoso, caratterizzato da un pH fortemente basico per via della grande quantità di ioni bicarbonato (HCO3–) che neutralizzano l’acidità del chimo. Esso è ricco di enzimi proteolitici, ossia specializzati nel frammentare i peptidi, che operano la cosiddetta digestione basica delle proteine. Inoltre contiene: enzimi glicolitici, che riducono i glucidi in disaccaridi; enzimi lipolitici, che idrolizzano i lipidi; enzimi specializzati nel digerire gli acidi nucleici (DNA e RNA). Molti di questi enzimi, però, vengono secreti in forma di proenzimi e si attivano solo successivamente.
  • L’insulina e il glucagone sono i principali ormoni pancreatici: essi vengono secreti nel sangue da specifici agglomerati di cellule del pancreas, noti come isole di Langerhans. Questi ormoni regolano insieme la quantità di glucosio presente nel sangue (glicemia) attraverso un sofisticato meccanismo stimolo-risposta che coinvolge soprattutto il fegato.
  • Un ulteriore ormone prodotto dal pancreas (ma anche dall’ipofisi) è la somatostatina, che ha la funzione di inibire il rilascio di un’ampia gamma di secreti liberati nelle fasi iniziali della digestione, fra cui la gastrina, la colecistochinina e l’acido cloridrico a livello gastrico, ma anche l’insulina e il glucagone stessi.
ENZIMI E PROENZIMI SECRETI NEL DUODENO (PRESENTI NEL SUCCO PANCREATICO)
ENZIMA* CATEGORIA FUNZIONE
tripsina idrolasi, proteasi taglia i peptidi a livello delle lisine (lys) e delle arginine (arg) e attiva alcune delle proteasi sottostanti
chimotripsina taglia i peptidi a livello della tirosina (tyr), del triptofano (trp), della fenilalanina (phe) e della leucina (leu)
elastasi, collagenasi ecc. enzimi specializzati nel taglio di proteine specifiche (collagene, elastina ecc.)
esoproteasi taglia uno dopo l’altro i legami peptidici fra amminoacidi a partire dalle estremità delle proteine
carbossipeptidasi stacca gli amminoacidi uno per volta a partire dall’estremità carbossilica delle proteine
p-amilasi idrolasi, amilasi stacca disaccaridi da oligosaccaridi e polisaccardi
p-lipasi idrolasi, esterasi separa i trigliceridi in acidi grassi e glicerolo
colesterolo-esterasi stacca gli acidi grassi dal colesterolo esterificato
p-fosfolipasi stacca l’acido grasso in posizione 2 dai fosfolipidi
p-nucleasi idrolasi, nucleasi taglia i legami fra un nucleotide e l’altro
ribonucleasi taglia specificamente molecole di RNA
desossiribonucleasi taglia specificamente molecole di DNA
* Le caselle azzurre si riferiscono a enzimi che derivano da proenzimi.
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Il controllo della glicemia

Pancreas e fegato insieme regolano la glicemia. Alcune cellule del pancreas sono sensibili ai livelli di glicemia: quando si crea una condizione di iperglicemia (cioè il livello del glucosio sale oltre 1,1 g per ogni litro di sangue), il pancreas reagisce liberando nel sangue l’ormone insulina, che stimola gli epatociti del fegato, ma anche le cellule del tessuto muscolare, a prelevare glucosio dal sangue e ad accumularlo al loro interno sotto forma di glicogeno. Questo processo è definito glicogenosintesi.

Quando, al contrario, si crea una condizione di ipoglicemia (ossia il glucosio ematico scende sotto 0,7 g per litro di sangue), il pancreas libera un altro ormone, il glucagone, che svolge un effetto contrario all’insulina. Stimola infatti le cellule del fegato e dei muscoli a degradare il glicogeno e a liberare singole molecole di glucosio nel sangue. Questo processo è definito glicogenolisi.

In caso di necessità, il fegato è anche in grado di produrre glucosio a partire da molecole che non appartengono al gruppo dei glucidi, secondo una via biochimica definita gluconeo­genesi.


L’importanza della calma glicemica

Recenti studi hanno messo in chiaro che, per rimanere in salute, bisogna evitare di sforzare il pancreas nella sua produzione di insulina. Infatti, quando si introducono nell’organismo alimenti troppo ricchi di zuccheri, il pancreas si “spreme” per liberare insulina, determinando un effetto metabolicamente violento sull’organismo.

I cibi che causano un’impennata nella secrezione di insulina tolgono subito la fame, ma in poco tempo i livelli ematici di questo ormone crollano e la fame torna a farsi sentire. Una dieta ideale dovrebbe invece evitare i picchi e cercare di mantenere la cosiddetta calma glicemica (o calma insulinica). Il consiglio è tenere sempre presente l’indice glicemico (vedi Unità 3, I macronutrienti) degli alimenti, privilegiando quelli con indici meno elevati.

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DIGIUNO E ILEO

Al duodeno seguono in sequenza i tratti intestinali del digiuno e dell’ileo, anatomicamente piuttosto simili tra loro. Il catabolismo di quanto è stato ingerito in questi distretti raggiunge la sua fase conclusiva per opera del succo enterico prodotto dalle ghiandole della parete intestinale. Le sostanze nutritive, ormai ridotte a molecole di dimensioni minime, possono essere agevolmente assorbite. Il processo di assorbimento, sino a questo punto limitato a poche categorie di molecole, inizia a prevalere su quello digestivo, e l’ampia superficie della mucosa del tenue estrae dal chilo circa il 90% dei nutrienti prima che esso transiti nell’intestino crasso.

La mucosa del tenue

Al fine di aumentare la capacità di assorbimento, la tonaca mucosa dell’intestino presenta molteplici pieghe dalla cui superficie si sollevano innumerevoli sporgenze a forma di dita, lunghe circa 1 millimetro, definite villi intestinali.

La superficie dei villi intestinali è rivestita da enterociti, cellule che a loro volta presentano numerose estroflessioni di nome microvilli, rivolte verso l’interno del canale digerente. Secondo le più recenti stime, appianando l’intera superficie di un intestino umano si arriverebbe a coprire un’area di 30-40 m2.

All’interno di ogni villo scorrono sia capillari che vasi linfatici; gli enterociti assorbono i vari nutrienti dalla cavità intestinale e li riversano nel sangue (o nella linfa per quanto riguarda alcuni lipidi). Ogni enterocita ha una vita media di tre giorni, dopodiché si distacca per essere eliminato con le feci e viene sostituito da un’altra cellula.

Nella superficie dei microvilli sono presenti importanti enzimi di membrana che restano attivi e contribuiscono alla digestione, anche quando gli enterociti si distaccano dai villi. Fra questi enzimi figurano lattasi, maltasi e saccarasi, specializzati nello scindere i disaccaridi in monosaccaridi, e l’enterochinasi, che svolge un ruolo chiave nell’attivare la tripsina, un enzima proteolitico prodotto dal pancreas.

Il succo enterico, prodotto in questa porzione di intestino e responsabile del completamento dei processi digestivi, è un liquido giallognolo, leggermente basico, nella cui composizione rientrano gli stessi enterociti distaccatisi dalla mucosa e alcuni enzimi proteolitici ed antibatterici secreti dalle cosiddette cellule di Paneth, alloggiate alla base dei villi intestinali.

La celiachia

Nelle persone affette da celiachia i villi intestinali appaiono troncati a causa di una reazione autoimmune provocata dal glutine presente in alcune farine. L’assorbimento dei nutrienti risulta compromesso, con conseguenti diarree, dolori addominali e altri sintomi.

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ENZIMI SECRETI NEL DIGIUNO E ILEO (PRESENTI NEL SUCCO ENTERICO)
ENZIMA CATEGORIA FUNZIONE
enterochinasi idrolasi, peptidasi attiva la tripsina liberata dal pancreas (la quale a sua volta attiva altri proenzimi del succo pancreatico)
dipeptidasi scinde un dipeptide in due amminoacidi
amminopeptidasi stacca gli amminoacidi uno per volta a partire dall’estremità amminica delle proteine
nucleasi idrolasi idrolizza i legami tra i nucleotidi degli acidi nucleici
lipasi enterica idrolasi, esterasi separa i trigliceridi in acidi grassi e glicerolo
lattasi idrolasi, disaccarasi scinde il lattosio in glucosio e galattosio
maltasi scinde il maltosio in due unità di glucosio
saccarasi scinde il saccarosio in glucosio e fruttosio

Stress e digestione

Stress è un termine con il quale si indica uno stato di tensione nervosa generale dell’organismo. Le cause possono essere molto varie (dalla fretta all’ansia, dall’assunzione di sostanze stimolanti alle patologie) e i suoi effetti si ripercuotono su tutto l’organismo, compreso l’apparato digerente.

In caso di stress, la muscolatura liscia autonoma che avvolge il canale digerente, e che genera i movimenti di rimescolamento nello stomaco e la peristalsi nell’intestino, risulta contratta, andando a compromettere il buon funzionamento della digestione. La tensione gastrica, infatti, impedisce il corretto rimescolamento del chimo, mentre la tensione dei muscoli peristaltici riduce l’assorbimento con conseguente stitichezza o, al contrario, diarrea, se lo stress interessa anche il colon, dove avviene gran parte del riassorbimento dell’acqua.

La fase intestinale bassa

La fase conclusiva della digestione si svolge nell’intestino crasso, suddiviso nei tre distretti cieco, colon (con i suoi sottodistretti ascendente, traverso e discendente) e retto. L’intestino crasso è lungo nel complesso circa 1,5 metri e ha un diametro maggiore rispetto a quello dell’intestino tenue. La progressione e il rimescolamento del cibo digerito sono assicurati da movimenti sia di peristalsi sia di segmentazione.

In questo percorso finale, ciò che resta del chilo – dopo la digestione e l’assorbimento avvenuti nel tenue – si concentra e si trasforma in feci, grazie alla digestione operata dal microbiota e al graduale assorbimento dell’acqua residua.

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MICROBIOTA INTESTINALE

Si calcola che in media il 30% di ciò che evacuiamo con le feci sia composto da microrganismi saprofiti, ossia specializzati nel nutrirsi di materia organica in decomposizione.

Sia nell’intestino tenue sia in quello crasso vive infatti una gran varietà di microrganismi (quasi un migliaio di specie), chiamati nel loro insieme microbiota intestinale: questa definizione ha soppiantato i nomi “flora” e “fauna” intestinale, oggi considerati impropri. Il microbiota intestinale di un individuo adulto è costituito da una massa complessiva di circa 1 kg di microrganismi, tra batteri, virus e miceti, che proprio nell’intestino trovano un ambiente idea­le per il loro sviluppo: temperatura stabile, pH adeguato e apporto costante di nutrimento in forma liquida. L’unico limite è l’assenza di ossigeno, motivo per cui il microbiota intestinale è composto in prevalenza da batteri anaerobi, i quali trasformano la materia organica che transita nell’apparato digerente unicamente attraverso reazioni di fermentazione.

L’apparato digerente dei neonati è del tutto privo di microrganismi, ma subito dopo la nascita quelli che formeranno il microbiota cominciano a insediarsi gradualmente nell’intestino attraverso tutto ciò che viene ingerito, superando il cavo orale e sopravvivendo ai succhi gastrici. Le prime fasi di questo insediamento sono spesso dolorose e causano le tipiche coliche infantili.

Il microbiota intestinale è la componente preponderante del microbiota umano. Questo rapporto tra uomo e microbiota rappresenta un perfetto esempio di simbiosi, che si manifesta nella forma del mutualismo.

I batteri che costituiscono il microbiota intestinale, benché simbionti, sono anche opportunisti e, quando si verifica un prolungato abbassamento delle difese immunitarie, dovuto per esempio a stress o a un’alimentazione squilibrata, possono penetrare la mucosa intestinale (si parla di migrazione del microbiota) e generare disturbi molto seri, quali malattie autoimmuni e tumori dell’apparato digerente. Tuttavia in condizioni normali di salute, la presenza stabile del microbiota intestinale comporta molteplici vantaggi per il nostro organismo.

  • Produce alcune vitamine, come la vitamina K, indispensabile per la coagulazione del sangue, e la B8, attiva nella gluconeogenesi e nella scissione degli amminoacidi a catena ramificata.
  • Digerisce alcuni alimenti, come la cartilagine e la cellulosa, altrimenti indigeribili per l’uomo: il nostro organismo, infatti, non produce enzimi capaci di degradarli, mentre il microbiota riesce persino a ricavarne energia.
  • Stimola lo sviluppo del sistema immunitario. Per raggiungere un’immunità adeguata, il nostro organismo sin dall’infanzia deve entrare a diretto contatto con la maggior varietà possibile di microrganismi. Vari esperimenti hanno dimostrato infatti che gli animali cresciuti in ambienti totalmente asettici, ossia privi di qualunque microrganismo, non sviluppano un’immunità adeguata e non sopravvivono.
  • Contribuisce al generale stato di benessere dell’intero organismo. Oggi si tende a considerare il microbiota intestinale come un vero e proprio organo. Esperimenti di trapianto del microbiota intestinale hanno dimostrato che patologie come l’obesità, l’anoressia, il diabete, la cirrosi epatica, la resistenza ai farmaci e alcune malattie autoimmuni possono migliorare sensibilmente se si modifica la composizione del microbiota di un paziente malato. Una nutrizione corretta in giovane età rappresenta la condizione essenziale per sviluppare un microbiota equilibrato e prevenire moltissime disfunzioni.
  • Determina differenze metaboliche fra individui. A seconda delle specie batteriche che lo compongono, il microbiota può risultare più o meno efficiente nel degradare il cibo che transita nell’intestino. Sembra si spieghino così le differenze tra le persone che affermano di essere magre perché “assimilano poco” e quelle, viceversa, sovrappeso perché “assorbono tutto” da ciò che mangiano.
  • Aiuta il flusso peristaltico delle feci. I batteri del microbiota, digerendo per fermentazione (ossia in assenza di ossigeno) le sostanze che transitano nell’intestino, producono varie molecole gassose, in particolare metano (CH4). Questi gas contribuiscono per il 10% circa alla composizione delle flatulenze (il contributo maggiore deriva dall’aria ingerita dalla bocca e dal naso) e stimolano l’avanzamento e l’evacuazione delle feci.

Probiotici e prebiotici

Si definiscono probiotici i microrganismi che, ingeriti per via orale, finiscono nella composizione del microbiota intestinale migliorandone le funzioni. Affinché ciò avvenga, tali microrganismi devono essere vivi (sono esclusi quindi i farmaci a base di spore), sopravvivere ai succhi gastrici e successivamente moltiplicarsi nell’intestino apportando un beneficio all’organismo umano. A differenza di quanto si afferma spesso, i batteri lattici presenti nei comuni yogurt non sono esattamente probiotici, poiché difficilmente sopravvivono alla barriera acida dello stomaco.

Il termine prebiotico si usa invece per caratterizzare quelle sostanze che stimolano positivamente lo sviluppo della popolazione più utile del microbiota intestinale. Si tratta per lo più di fruttoligosaccaridi (FOS): oligosaccaridi composti da ripetizioni di molecole di fruttosio, comunemente presenti nella composizione delle fibre vegetali. I FOS, per l’uomo indigeribili, raggiungono intatti l’intestino, dove diventano una fonte di nutrimento selettivo per i batteri considerati benefici. Grazie quindi a sostanze come l’inulina (presente per esempio nei topinambur e nella cicoria), i batteri del genere Lactobacillus e Bifidus possono moltiplicarsi e risanare una condizione di disbiosi, ossia uno squilibrio nella composizione delle varietà batteriche costituenti il microbiota, dovuta magari a una dieta troppo ricca di carni e di cibi ad alto contenuto energetico, come i dolci, che favorisce lo sviluppo di specie batteriche più opportuniste.

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LE FECI

Dopo l’assorbimento di tutte le sostanze nutritive dal chilo e di gran parte dell’acqua, nel canale intestinale restano solo molecole di scarto di vario genere, miste a una massa significativa di fibre e microrganismi. Il tutto viene identificato come feci e non ha più nulla di utile da fornire all’organismo. I movimenti peristaltici provvederanno a espellerle attraverso l’ultimo tratto intestinale, chiamato retto. Il retto termina con l’ano, la cui apertura è regolata da due sfinteri (muscoli a forma di anello).

Sono i batteri presenti nell’intestino a determinare colore e odore delle feci: agendo sulla bilirubina e sull’amminoacido triptofano essi producono rispettivamente stercobilina (un pigmento marrone), scatolo e indolo (due sostanze maleodoranti).

L’esame clinico delle feci consente di ottenere un quadro dettagliato dello stato di salute dell’intestino: si valuta il pH, la presenza di acidi grassi e di sangue; inoltre si possono coltivare i microrganismi fecali per identificarne la specie (coprocoltura) e verificare se compaiono patogeni indesiderati.

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TRATTO DEL TUBO DIGERENTE MATERIA DIGERITA pH
E SECREZIONI COINVOLTE
NUTRIENTI ED ENZIMI CORRELATI
bocca
boccone/bolo pH 6,5
saliva
glucidi amilasi salivare (ptialina)
lipidi lipasi linguale
stomaco
chimo pH 2
succo gastrico
proteine pepsina
lipidi esterasi
duodeno
chilo pH 5,5
succo pancreatico
glucidi amilasi pancreatica
proteine proteasi (tripsina, chimotripsina)
lipidi lipasi
digiuno e ileo
chilo pH 7,4
succo enterico
glucidi maltasi, saccarasi, lattasi
proteine peptidasi
crasso
feci    

La congestione

La quantità di sangue che circola complessivamente nel nostro corpo è costante (circa 7 litri in un adulto). Se per qualche ragione il sangue si concentra maggiormente in una certa zona del corpo, allora in quel punto i vasi si dilatano (vasodilatazione), mentre nel resto del corpo vi sarà di riflesso meno sangue e i vasi risulteranno più ristretti (vasocostrizione).

Durante la digestione avviene una vasodilatazione centrale: il sangue si concentra nei vasi sanguigni che scorrono attorno all’apparato digerente per riempirsi delle sostanze nutritive. Di conseguenza, nella periferia del corpo, ossia negli arti e a livello sottocutaneo, si genera una vasocostrizione. L’individuo in questa condizione appare leggermente pallido per il ritiro parziale del sangue dalla pelle.

Se in questa fase ci si espone improvvisamente al freddo, il sangue viene immediatamente richiamato verso la periferia del corpo per riscaldare le zone che stanno velocemente perdendo calore. Ciò può causare un blocco della digestione, in quanto gli enterociti non riescono più a caricare le sostanze nutritive nei vasi sanguigni ormai contratti. I risultati di questo shock termico possono essere svenimento o una successiva diarrea. Va però precisato che spesso il rischio che si verifichi una congestione è sopravvalutato, e che a volte si tende a scambiare per congestione gli effetti di una intolleranza alimentare.

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