Tua vivit imago - volume 3

L ET IMPERIALE 25 omne propter quod vivitur; inbecillus est et ignavus qui propter dolorem moritur, stultus qui doloris causa vivit. 37. Sed in longum exeo; est praeterea materia quae ducere diem possit: et quomo do finem inponere vitae poterit qui epistulae non potest? Vale ergo: quod libentius quam mortes meras lecturus es. Vale. del dolore, stupido chi vive per il dolore. 37. Ma mi sto dilungando, ed è anche un argomento che potrebbe prendere un giorno intero: ma come può mettere fine alla vita uno che non riesce a mettere fine a una lettera? Dunque, addio: questa parola addio la leggerai più volentieri di quelle sulle morti perfette. (trad. F.R. Berno) inbecillus... stultus: inbecillus... et ignavus, debole e inerte (terza notazione dell inattività) è chi si uccide per paura del dolore; stultus, stupido , è chi continua a vivere sapendo che lo aspetta solo il dolore. 37. Sed in longum... Vale vitae... epis tulae: Seneca risolleva l atmosfera con una battuta, giocando sulla polisemia del concetto di fine (finem): come saprò porre fine alla mia vita, se non riesco a farlo con una lettera? Vale... lecturus es: la fine della lettera sarà per Lucilio piacevole (libentius), a differenza della fine (mortes) di cui la lettera stessa parla. Analisi del testo Solo il male dell anima giustifica il suicidio Nell affrontare il problema dell estrema vecchiaia e della possibilità di porre volontariamente fine a essa, il brano si concentra sulle caratteristiche fisiche, piuttosto che su quelle morali: la frugalitas consigliata, infatti, non è parsimonia, ma morigeratezza di vita, intesa come sobrietà di alimentazione e di abitudini. Inizialmente, Seneca analizza l ultima parte della vita, chiedendosi se si tratti o meno di qualcosa di paragonabile alla feccia (la rimanenza ultima e peggiore del vino in fondo alla botte), e se sia dunque il caso di anticipare la morte (par. 33). Il parere del filosofo è molto specifico: una malattia fisica, anche se debilitante, non è un motivo sufficiente per uccidersi; al contrario, una sindrome che comprometta la mente è intollerabile, e dunque, dal momento che «vivere male è un pericolo più grave che morire presto , giustifica il suicidio (parr. 34-35). Seneca paragona questa condizione a quella di una casa fatiscente, da cui è necessario fuggire per evitare il crollo: «se [la vecchiaia] comincerà a far traballare la mente, a strappare alcune parti di essa [...], salterò giù da questa casa fatiscente e in rovina . Il corpo sarebbe perciò una sorta di abitazione per l anima, da cui quest ultima può uscire. Una battuta per scacciare la paura Poi il filosofo si concentra su un aspetto cruciale della questione: il dolore. Uccidersi per paura di soffrire è da vili (sic mori vinci est, morire così equivale a essere vinti ); ma è anche insensato rimanere in vita se non ci si aspetta altro che sofferenza: in tal caso, infatti, si può scegliere di morire non a causa del dolore, ma perché il dolore «sarà di impedimento per ogni cosa per cui si vive (par. 36). Seneca si mostra, così, fedele alle idee della superiorità della mente sul corpo e dell importanza della sopportazione del dolore, due princìpi cardine dello stoicismo. Nella conclusione della lettera, Seneca cambia completamente tono, e ironizza sul suo stesso dilungarsi sulla morte, come se i suoi ragionamenti fossero, paradossalmente, persino più tediosi dell argomento stesso: «come può mettere fine alla vita uno che non riesce a mettere fine a una lettera? (par. 37). Egli si mostra dunque consapevole della delicatezza e difficoltà di certi argomenti, e cerca di alleggerire la portata del discorso con la battuta finale. Mettiti alla prova Laboratorio sul testo ONLINE 132

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Età imperiale