T20 - Dialogo della Natura e di un Islandese

T20

Dialogo della Natura e di un Islandese

Operette morali, 12

Composta nel maggio 1824, l’operetta sviluppa un serrato confronto tra la natura, sotto forma di una statua colossale, e un islandese, che chiede ragione dei mali cui non riesce a sfuggire e che, nel suo viaggiare, ha visto colpire tutte le parti dell’universo. Leopardi sceglie un anonimo personaggio proveniente da una terra inospitale dove la potenza e la crudeltà della natura appaiono più chiaramente attraverso i fenomeni vulcanici che la caratterizzano. È una terra esotica e lontana, poco nota ai suoi tempi, e questo accentua l’atmosfera fantastica dell’incontro.

Un Islandese, che era corso1 per la maggior parte del mondo, e soggiornato in diversissime
terre; andando una volta per l’interiore dell’Affrica,2 e passando sotto la linea
equinoziale3 in un luogo non mai prima penetrato da uomo alcuno, ebbe un caso
simile a quello che intervenne a Vasco di Gama4 nel passare il Capo di Buona speranza;
5      quando il medesimo Capo, guardiano dei mari australi, gli si fece incontro,
sotto forma di gigante, per distorlo dal tentare quelle nuove acque.5 Vide da lontano
un busto grandissimo; che da principio immaginò dovere essere di pietra, e a somiglianza
degli ermi colossali6 veduti da lui, molti anni prima, nell’isola di Pasqua. Ma
fattosi più da vicino, trovò che era una forma smisurata di donna seduta in terra, col
10    busto ritto, appoggiato il dosso7 e il gomito a una montagna; e non finta8 ma viva; di
volto mezzo tra bello e terribile, di occhi e di capelli nerissimi; la quale guardavalo
fissamente; e stata così un buono spazio9 senza parlare, all’ultimo gli disse.
Natura Chi sei? che cerchi in questi luoghi dove la tua specie era incognita?10
Islandese Sono un povero Islandese, che vo fuggendo la Natura; e fuggitala quasi
15    tutto il tempo della mia vita per cento parti della terra, la fuggo adesso per questa.
NATURA Così fugge lo scoiattolo dal serpente a sonaglio, finché gli cade in gola da
se medesimo. Io sono quella che tu fuggi.
ISLANDESE La Natura?
20    NATURA Non altri.11
ISLANDESE Me ne dispiace fino all’anima; e tengo per fermo che maggior disavventura
di questa non mi potesse sopraggiungere.
NATURA Ben potevi pensare che io frequentassi specialmente queste parti;12 dove
non ignori che si dimostra più che altrove la mia potenza. Ma che era che ti
25    moveva a fuggirmi?13
ISLANDESE Tu dei sapere che io fino nella prima gioventù, a poche esperienze,14 fui
persuaso e chiaro15 della vanità della vita, e della stoltezza degli uomini; i quali
combattendo continuamente gli uni cogli altri per l’acquisto di piaceri che non
dilettano, e di beni che non giovano; sopportando e cagionandosi scambievolmente
30    infinite sollecitudini,16 e infiniti mali, che affannano e nocciono in effetto,17
tanto più si allontanano dalla felicità, quanto più la cercano. Per queste
considerazioni, deposto ogni altro desiderio, deliberai, non dando molestia a
chicchessia, non procurando in modo alcuno di avanzare il mio stato, non contendendo18
con altri per nessun bene del mondo, vivere una vita oscura e tranquilla;
35    e disperato dei piaceri,19 come di cosa negata alla nostra specie, non mi
proposi altra cura che di tenermi lontano dai patimenti. Con che non intendo
dire che io pensassi di astenermi dalle occupazioni e dalle fatiche corporali; che
ben sai che differenza è dalla fatica al disagio, e dal viver quieto al vivere ozioso.
E già nel primo mettere in opera questa risoluzione,20 conobbi per prova come
40    egli è vano a pensare, se tu vivi tra gli uomini, di potere, non offendendo alcuno,
fuggire21 che gli altri non ti offendano; e cedendo sempre spontaneamente, e
contentandosi del menomo22 in ogni cosa, ottenere che ti sia lasciato un qualsivoglia
luogo, e che questo menomo non ti sia contrastato.23 Ma dalla molestia
degli uomini mi liberai facilmente, separandomi dalla loro società, e riducendomi
45    in solitudine: cosa che nell’isola mia nativa si può recare ad effetto senza
difficoltà. Fatto questo, e vivendo senza quasi verun’immagine24 di piacere, io
non poteva mantenermi però senza patimento: perché la lunghezza del verno,25
l’intensità del freddo, e l’ardore estremo della state,26 che sono qualità di quel
luogo, mi travagliavano di continuo; e il fuoco, presso al quale mi conveniva
50    passare una gran parte del tempo, m’inaridiva le carni, e straziava gli occhi col
fumo; di modo che, né in casa né a cielo aperto, io mi poteva salvare da un perpetuo
disagio. Né anche potea conservare quella tranquillità della vita, alla quale
principalmente erano rivolti i miei pensieri: perché le tempeste spaventevoli
di mare e di terra, i ruggiti e le minacce del monte Ecla,27 il sospetto degl’incendi,
55    frequentissimi negli alberghi,28 come sono i nostri, fatti di legno, non intermettevano29
mai di turbarmi. Tutte le quali incomodità in una vita sempre conforme
a se medesima, e spogliata di qualunque altro desiderio e speranza, e
quasi di ogni altra cura, che d’esser quieta; riescono di non poco momento,30 e
molto più gravi che elle non sogliono apparire quando la maggior parte dell’animo
60    nostro è occupata dai pensieri della vita civile, e dalle avversità che provengono
dagli uomini. Per tanto veduto che più che io mi ristringeva e quasi mi
contraeva in me stesso,31 a fine d’impedire che l’esser mio non desse noia né
danno a cosa alcuna del mondo; meno mi veniva fatto che le altre cose non
m’inquietassero e  tribolassero; mi posi a cangiar luoghi e climi, per vedere se in
65    alcuna parte della terra potessi non offendendo non essere offeso, e non godendo 
non patire. E a questa deliberazione fui mosso anche da un pensiero che mi
nacque,32 che forse tu non avessi destinato al genere umano se non solo un clima
della terra (come tu hai fatto a ciascuno degli altri generi degli animali, e di
quei delle piante), e certi tali luoghi; fuori dei quali gli uomini non potessero
70    prosperare né vivere senza difficoltà e miseria; da dover essere imputate, non a
te, ma solo a essi medesimi, quando eglino avessero disprezzati e trapassati i
termini33 che fossero prescritti per le tue leggi alle abitazioni umane. Quasi tutto
il mondo ho cercato, e fatta esperienza di quasi tutti i paesi; sempre osservando
il mio proposito, di non dar molestia alle altre creature, se non il meno che io
75    potessi, e di procurare la sola tranquillità della vita. Ma io sono stato arso dal
caldo fra i tropici, rappreso34 dal freddo verso i poli, afflitto nei climi temperati
dall’incostanza dell’aria, infestato dalle commozioni degli elementi35 in ogni
dove. Più luoghi ho veduto, nei quali non passa un dì senza temporale: che è
quanto dire che tu dai ciascun giorno un assalto e una battaglia formata36 a quegli
80    abitanti, non rei37 verso te di nessun’ingiuria. In altri luoghi la serenità ordinaria
del cielo è compensata dalla frequenza dei terremoti, dalla moltitudine e
dalla furia dei vulcani, dal ribollimento sotterraneo di tutto il paese. Venti e
turbini smoderati regnano nelle parti e nelle stagioni tranquille dagli altri furori
dell’aria. Tal volta io mi ho sentito crollare il tetto in sul capo pel gran carico
85    della neve, tal altra, per l’abbondanza delle piogge la stessa terra, fendendosi, mi
si è dileguata di sotto ai piedi; alcune volte mi è bisognato fuggire a tutta lena38
dai fiumi, che m’inseguivano, come fossi colpevole verso loro di qualche ingiuria.
Molte bestie salvatiche, non provocate da me con una menoma offesa, mi
hanno voluto divorare; molti serpenti avvelenarmi; in diversi luoghi è mancato
90    poco che gl’insetti volanti non mi abbiano consumato infino alle ossa. Lascio i
pericoli giornalieri, sempre imminenti all’uomo, e infiniti di numero; tanto che
un filosofo antico39 non trova contro al timore, altro rimedio più valevole della
considerazione che ogni cosa è da temere. Né le infermità mi hanno perdonato;
con tutto che io fossi, come sono ancora, non dico temperante, ma continente40
95    dei piaceri del corpo. Io soglio prendere non piccola ammirazione41 considerando
come tu ci abbi infuso tanta e sì ferma e insaziabile avidità del piacere; disgiunta
dal quale la nostra vita, come priva di ciò che ella desidera naturalmente,
è cosa imperfetta: e da altra parte abbi ordinato che l’uso di esso piacere sia
quasi di tutte le cose umane la più nociva alle forze e alla sanità del corpo, la più
100 calamitosa negli effetti in quanto a ciascheduna persona, e la più contraria alla
durabilità della stessa vita. Ma in qualunque modo, astenendomi quasi sempre
e totalmente da ogni diletto, io non ho potuto fare di non incorrere in molte e
diverse malattie: delle quali alcune mi hanno posto in pericolo della morte; altre
di perdere l’uso di qualche membro, o di condurre perpetuamente una vita più
105 misera che la passata; e tutte per più giorni o mesi mi hanno oppresso il corpo
e l’animo con mille stenti e mille dolori. E certo, benché ciascuno di noi sperimenti
nel tempo delle infermità, mali per lui nuovi o disusati, e infelicità maggiore
che egli non suole (come se la vita umana non fosse bastevolmente misera
per l’ordinario);42 tu non hai dato all’uomo, per compensarnelo, alcuni
110 tempi di sanità soprabbondante e inusitata, la quale gli sia cagione di qualche
diletto straordinario per qualità e per grandezza. Ne’ paesi coperti per lo più di
nevi, io sono stato per accecare: come interviene ordinariamente ai Lapponi43
nella loro patria. Dal sole e dall’aria, cose vitali, anzi necessarie alla nostra vita,
e però da non potersi fuggire, siamo ingiuriati di continuo: da questa colla umidità,
115 colla rigidezza,44 e con altre disposizioni; da quello col calore, e colla stessa
luce: tanto che l’uomo non può mai senza qualche maggiore o minore incomodità
o danno, starsene esposto all’una o all’altro di loro. In fine, io non mi ricordo
aver passato un giorno solo della vita senza qualche pena; laddove45 io non
posso numerare quelli che ho consumati senza pure un’ombra di godimento:
120 mi avveggo che tanto ci è destinato e necessario il patire, quanto il non godere;
tanto impossibile il viver quieto in qual si sia modo, quanto il vivere inquieto
senza miseria: e mi risolvo a conchiudere che tu sei nemica scoperta degli uomini,
e degli altri animali, e di tutte le opere tue; che ora c’insidii ora ci minacci ora
ci assalti ora ci pungi ora ci percuoti ora ci laceri, e sempre o ci offendi o ci perseguiti;
125 e che, per costume e per instituto,46 sei carnefice della tua propria famiglia,
de’ tuoi figliuoli e, per dir così, del tuo sangue e delle tue viscere. Per tanto
rimango privo di ogni speranza: avendo compreso che gli uomini finiscono47 di
perseguitare chiunque li fugge o si occulta con volontà vera di fuggirli o di occultarsi;
ma che tu, per niuna cagione, non lasci mai d’incalzarci, finché ci opprimi.
130 E già mi veggo vicino il tempo amaro e lugubre della vecchiezza; vero e
manifesto male, anzi cumulo di mali e di miserie gravissime; e questo tuttavia
non accidentale, ma destinato da te per legge a tutti i generi de’ viventi, preveduto
da ciascuno di noi fino nella fanciullezza, e preparato in lui di continuo, dal
quinto suo lustro in là,48 con un tristissimo declinare e perdere senza sua colpa:
135 in modo che appena un terzo della vita degli uomini è assegnato al fiorire, pochi
istanti alla maturità e perfezione, tutto il rimanente allo scadere, e agl’incomodi
che ne seguono.
NATURA Immaginavi tu forse che il mondo fosse fatto per causa vostra? Ora sappi che
nelle fatture, negli ordini e nelle operazioni mie,49 trattone50 pochissime, sempre
140 ebbi ed ho l’intenzione a tutt’altro, che alla felicità degli uomini o all’infelicità.
Quando io vi offendo in qualunque modo e con qual si sia mezzo, io non
me n’avveggo,51 se non rarissime volte: come, ordinariamente, se io vi diletto o vi
benefico, io non lo so; e non ho fatto, come credete voi, quelle tali cose, o non
fo quelle tali azioni, per dilettarvi o giovarvi. E finalmente, se anche mi avvenisse
145 di estinguere tutta la vostra specie, io non me ne avvedrei.
ISLANDESE Ponghiamo caso52 che uno m’invitasse spontaneamente a una sua villa,
con grande instanza,53 e io per compiacerlo vi andassi. Quivi mi fosse dato per
dimorare una cella tutta lacera e rovinosa, dove io fossi in continuo pericolo
di essere oppresso; umida, fetida, aperta al vento e alla pioggia. Egli, non che si
150 prendesse cura d’intrattenermi in alcun passatempo o di darmi alcuna comodità,
per lo contrario appena mi facesse somministrare il bisognevole a sostentarmi;
e oltre di ciò mi lasciasse villaneggiare,54 schernire, minacciare e battere
da’ suoi figliuoli e dall’altra famiglia. Se querelandomi io seco di questi mali
trattamenti, mi rispondesse: forse che ho fatto io questa villa per te? o mantengo
155 io questi miei figliuoli, e questa mia gente, per tuo servigio? e, bene ho altro
a pensare che de’ tuoi sollazzi, e di farti le buone spese;55 a questo replicherei:
vedi, amico, che siccome tu non hai fatto questa villa per uso mio, così fu in
tua facoltà di non invitarmici. Ma poiché spontaneamente hai voluto che io
ci dimori, non ti si appartiene56 egli di fare in modo, che io, quanto è in tuo
160 potere, ci viva per lo meno senza travaglio e senza pericolo? Così dico ora. So
bene che tu non hai fatto il mondo in servigio degli uomini. Piuttosto crederei
che l’avessi fatto e ordinato espressamente per tormentarli. Ora domando:
t’ho io forse pregato di pormi in questo universo? o mi vi sono intromesso
violentemente, e contro tua voglia? Ma se di tua volontà, e senza mia saputa,
165 e in maniera che io non poteva sconsentirlo né ripugnarlo,57 tu stessa, colle
tue mani, mi vi hai collocato; non è egli dunque ufficio tuo,58 se non tenermi
lieto e contento in questo tuo regno, almeno vietare che io non vi sia tribolato
e straziato, e che l’abitarvi non mi noccia?59 E questo che dico di me, dicolo di
tutto il genere umano, dicolo degli altri animali e di ogni creatura.
170 NATURA Tu mostri non aver posto mente che la vita di quest’universo è un perpetuo
circuito di produzione e distruzione, collegate ambedue tra se di maniera, che ciascheduna serve continuamente all’altra, ed alla conservazione del mondo; il quale
sempre che cessasse o l’una o l’altra di loro, verrebbe parimente in dissoluzione.
Per tanto risulterebbe in suo danno se fosse in lui cosa alcuna libera da patimento.
175 ISLANDESE Cotesto medesimo odo ragionare a tutti i filosofi. Ma poiché quel che è
distrutto, patisce; e quel che distrugge, non gode, e a poco andare è distrutto
medesimamente; dimmi quello che nessun filosofo mi sa dire: a chi piace o a
chi giova cotesta vita infelicissima dell’universo, conservata con danno e con
morte di tutte le cose che lo compongono?
180 Mentre stavano in questi e simili ragionamenti è fama che sopraggiungessero due
leoni, così rifiniti e maceri dall’inedia,60 che appena ebbero forza di mangiarsi
quell’Islandese; come fecero; e presone un poco di ristoro, si tennero in vita per
quel giorno. Ma sono alcuni che negano questo caso, e narrano che un fierissimo61
vento, levatosi mentre che l’Islandese parlava, lo stese a terra, e sopra gli edificò un
185 superbissimo mausoleo62 di sabbia: sotto il quale colui disseccato perfettamente,
e divenuto una bella mummia, fu poi ritrovato da certi viaggiatori, e collocato nel
museo di non so quale città di Europa.

 >> pagina 145 

DENTRO IL TESTO

I contenuti tematici

In ossequio al principio di varietà che domina in tutta la raccolta, il protagonista di questa operetta non è un personaggio mitico né favoloso né storico né reale, bensì un uomo sconosciuto, identificato solo dal paese di provenienza da cui è scappato per sfuggire all’azione della natura. Lo spunto venne a Leopardi probabilmente da un’opera di Voltaire, la Storia di Jenni, nella quale un ateo, per dimostrare l’inesistenza di Dio, descrive i mali che affliggono l’umanità, portando a esempio il gelo che attanaglia la remota Islanda. L’interlocutore, però, opponeva a questo punto di vista le ragioni del deismo, ovvero di una concezione razionale della divinità come ente ordinatore dell’universo; Leopardi invece propone una concezione della vita radicalmente materialistica, nella quale la natura, indifferente al bene del singolo, appare come la causa prima della sua sventura.

Dopo un lungo vagabondare, l’Islandese incontra infatti proprio la personificazione della natura, sotto la forma statuaria di una donna gigantesca che gli rivolge alcune domande per conoscere le ragioni della sua fuga affannosa. Ne scaturisce un dialogo surreale, in cui l’autore esprime il nucleo fondamentale della propria filosofia, riassumibile nel concetto che l’uomo non è stato creato per essere collocato al centro del mondo. A nulla servono i suoi tentativi non già di cercare un’impossibile felicità, ma almeno di vivere una vita oscura e tranquilla (rr. 34-35) isolandosi e allontanandosi dalla società: lo stato di natura, in cui trascorrere un’esistenza libera e serena, si rivela come un’utopia o una menzogna; il viaggio o la fuga non possono soddisfare il desiderio di conoscere una realtà diversa da quella che si manifesta, puntualmente, a tutti gli uomini in tutte le regioni del mondo. Si può sfuggire forse ai mali causati dagli altri uomini, ma non a quelli provocati dalla natura, che tormenta l’uomo e lo strazia in mille modi, pur non volendolo, ma semplicemente garantendo il ciclo generale della produzione e della distruzione o attraverso le sue normali manifestazioni, connesse con gli eventi meteorologici e l’avvicendarsi delle stagioni.

L’argomentazione della Natura è spietata e gelida nella sua raziocinante impassibilità: la sua indifferenza rispetto alla sorte dei suoi figli non ammette deroghe (sei carnefice della tua propria famiglia, rr. 125-126, le dice l’Islandese) e il suo unico scopo è quello di osservare l’incessante succedersi di nascita e morte, necessario per la sopravvivenza dell’universo: se anche tutta la specie umana si estinguesse, lei neppure se ne accorgerebbe (se anche mi avvenisse di estinguere tutta la vostra specie, io non me ne avvedrei, rr. 144-145). Della natura benigna vagheggiata nella prima fase del pensiero leopardiano, insomma, non c’è più traccia.

 >> pagina 146 

Possiamo immaginare che con la stessa testardaggine con cui ha percorso terre lontane e diverse, incontrando temporali (r. 78), terremoti (r. 81), Venti e turbini smoderati (rr. 82-83) piogge (r. 85) nell’ingenua speranza di schivare la sofferenza, l’Islandese avrebbe ripreso la sua requisitoria contro l’interlocutrice: la morte improvvisa però glielo impedisce. Sia che sia stato divorato da due leoni, sia che sia stato travolto dal vento e trasformato in una mummia, la sua sorte conferma il ruolo della natura in relazione agli esseri umani: nel primo caso l’Islandese, diventato cibo per altri animali, fa parte del circuito naturale; nel secondo gli è stato concesso di vivere quietamente, ma privato dell’umanità, ridotto a un corpo senza coscienza.

Le scelte stilistiche

Questa operetta si configura come un dialogo vero e proprio, dove due personaggi si scambiano domande e risposte e confrontano opinioni diverse. L’atteggiamento e il modo di esprimersi dei due interlocutori sono però differenti: l’Islandese pone domande insistenti e incalzanti, ricevendo risposte secche e distaccate da parte della Natura.

Il primo articola estesamente le proprie argomentazioni con un gran numero di esempi e situazioni vissute, richiamando anche l’opinione dei filosofi: in alcuni passi è possibile ritrovare influenze di scritti di Voltaire, come nella domanda finale, che riprende una voce del Dizionario filosofico. La sua è un’eloquenza appassionata, che nell’elencare i patimenti subiti, ricorre ora al tono recriminatorio del lamento, ora a quello aggressivo e indignato dell’invettiva. Così si spiega il suo eloquio fatto di frasi ampie e complesse, con l’utilizzo di un lessico spesso ricercato, lontano dall’uso comune e caratterizzato da parole rare (sconsentirlo, r. 165), arcaicizzanti (Ponghiamo, r. 146), latinismi (vietare che [] non, r. 167) e termini utilizzati con significati oggi obsoleti (perdonato, r. 93, per “risparmiato”, alberghi, r. 55, per “abitazioni” ecc.).

Ben diverso lo stile argomentativo della Natura, a cui non servono espressioni ricercate e gli strumenti di una retorica raffinata per affermare con lapidaria freddezza le sue verità. Per fare cadere miseramente le illusioni dell’umanità basta una domanda arida, quasi cinica: Immaginavi tu forse che il mondo fosse fatto per causa vostra? (r. 138).

VERSO LE COMPETENZE

Comprendere

Individua i diversi tipi di dolore che, secondo l’Islandese, prova l’essere vivente; ritrova gli esempi distinguendoli secondo:

a dolori veri e propri;

b disagi sopportabili;

c mali dell’età;

d conseguenze di eventi meteorologici straordinari;

e conflitti tra uomini;

f conflitti tra esseri viventi.


2 Quali sono le “domande esistenziali” che, al termine dell’operetta, l’Islandese rivolge alla Natura?

ANALIZZARE

3 Dividi il dialogo in macrosequenze, distinguendo quelle narrative, dialogiche e monologiche: quale struttura assume, nel suo complesso, il testo?


4 In quali punti del testo l’autore fa ricorso alla strategia dell’accumulazione? Per sottolineare che cosa?


Quali differenze si possono individuare tra le battute dell’Islandese e quelle della Natura dal punto di vista lessicale e retorico?


6 In quali punti dell’operetta individui concetti presenti nei testi leopardiani che hai già affrontato?

 >> pagina 147 

INTERPRETARE

7 L’Islandese accenna a una partizione in età della vita umana: quali osservazioni puoi fare?


8 È possibile affermare, che, al momento del loro incontro, la Natura appare come “sublime” all’Islandese? perché?


Perché, a tuo giudizio, il dialogo risulta particolarmente efficace per esprimere il pensiero leopardiano?

scrivere per...

esporre

10 Spiega e commenta la seguente battuta dell’Islandese: Ma poiché quel che è distrutto, patisce; e quel che distrugge, non gode, e a poco andare è distrutto medesimamente; dimmi quello che nessun filosofo mi sa dire: a chi piace o a chi giova cotesta vita infelicissima dell’universo, conservata con danno e con morte di tutte le cose che lo compongono? (rr. 175-179).

argomentare

11 Ti sembra che la concezione della natura presente nell’operetta sia ancora oggi attuale? perché? Esponi le tue considerazioni in un testo argomentativo di circa 30 righe.

T21

Cantico del gallo silvestre

Operette morali, 18

Scritta nel novembre del 1824, quest’operetta è l’ultima tra quelle composte in quell’anno. Leopardi affida al gallo selvatico, una favolosa creatura della tradizione ebraica, il compito di sintetizzare la verità sulla condizione umana. Anche se si affaticano per altri scopi, gli esseri umani hanno come unico fine certo la morte, mentre l’universo si conserva intatto e impassibile.

Affermano alcuni maestri e scrittori ebrei, che tra il cielo e la terra, o vogliamo
dire mezzo nell’uno e mezzo nell’altra, vive un certo gallo salvatico; il quale sta in
sulla terra coi piedi, e tocca colla cresta e col becco il cielo.1 Questo gallo gigante,
oltre a varie particolarità che di lui si possono leggere negli autori predetti, ha uso
5      di ragione; o certo,2 come un pappagallo, è stato ammaestrato, non so da chi, a
profferir parole a guisa degli uomini:3 perocché4 si è trovato in una cartapecora5
antica, scritto in lettera ebraica,6 e in lingua tra caldea, targumica, rabbinica, cabalistica
e talmudica,7 un cantico intitolato, Scir detarnegòl bara letzafra,8 cioè Cantico
mattutino del gallo silvestre: il quale, non senza fatica grande, né senza interrogare
10    più d’un rabbino, cabalista, teologo, giurisconsulto e filosofo ebreo, sono venuto
a capo d’intendere, e di ridurre in volgare9 come qui appresso si vede. Non ho
potuto per ancora ritrarre10 se questo Cantico si ripeta dal gallo di tempo in tempo,
ovvero tutte le mattine; o fosse cantato una volta sola; e chi l’oda cantare, o chi
l’abbia udito; e se la detta lingua sia proprio la lingua del gallo, o che il Cantico
15    vi fosse recato11 da qualche altra. Quanto si è al volgarizzamento infrascritto;12
per farlo più fedele che si potesse (del che mi sono anche sforzato in ogni altro
modo), mi è paruto13 di usare la prosa piuttosto che il verso, se bene in cosa poetica.14
Lo stile interrotto,15 e forse qualche volta gonfio,16 non mi dovrà essere
imputato; essendo conforme a quello del testo originale: il qual testo corrisponde
20    in questa parte all’uso delle lingue, e massime17 dei poeti, d’oriente.
Su, mortali, destatevi. Il dì rinasce: torna la verità in sulla terra, e partonsene le immagini
vane.18 Sorgete; ripigliatevi la soma19 della vita; riducetevi20 dal mondo falso nel
vero. Ciascuno in questo tempo raccoglie e ricorre21 coll’animo tutti i pensieri della
sua vita presente; richiama alla memoria i disegni, gli studi e i negozi;22 si propone23
25    i diletti e gli affanni che gli sieno per intervenire24 nello spazio del giorno
nuovo. E ciascuno in questo tempo è più desideroso che mai, di ritrovar pure nella
sua mente aspettative gioconde, e pensieri dolci. Ma pochi sono soddisfatti di
questo desiderio: a tutti il risvegliarsi è danno. Il misero non è prima desto,25 che
egli ritorna nelle mani26 dell’infelicità sua. Dolcissima cosa è quel sonno, a conciliare
30    il quale concorse o letizia o speranza. L’una e l’altra insino alla vigilia del dì
seguente, conservasi intera e salva; ma in questa, o manca o declina.27
Se il sonno dei mortali fosse perpetuo, ed una cosa medesima colla vita; se sotto
l’astro diurno,28 languendo per la terra in profondissima quiete tutti i viventi,
non apparisse opera alcuna; non muggito di buoi per li prati, né strepito di fiere
35    per le foreste, né canto di uccelli per l’aria, né susurro d’api o di farfalle scorresse
per la campagna; non voce, non moto alcuno, se non delle acque, del vento e delle
tempeste, sorgesse in alcuna banda;29 certo l’universo sarebbe inutile; ma forse
che vi si troverebbe o copia30 minore di felicità, o più di miseria, che31 oggi non vi
si trova? Io dimando a te, o sole, autore del giorno e preside della vigilia:32 nello
40    spazio dei secoli da te distinti e consumati fin qui sorgendo e cadendo, vedesti
tu alcuna volta un solo infra i viventi essere beato? Delle opere innumerabili dei
mortali da te vedute finora, pensi tu che pur33 una ottenesse l’intento suo, che fu
la soddisfazione, o durevole o transitoria, di quella creatura che la produsse? Anzi
vedi tu di presente o vedesti mai la felicità dentro ai confini del mondo? in qual
45    campo soggiorna, in qual bosco, in qual montagna, in qual valle, in qual paese
abitato o deserto, in qual pianeta dei tanti che le tue fiamme34 illustrano35 e scaldano?
Forse si nasconde dal tuo cospetto, e siede nell’imo36 delle spelonche, o nel
profondo della terra o del mare? Qual cosa animata ne partecipa; qual pianta o
che altro che tu vivifichi; qual creatura provveduta o sfornita di virtù vegetative o
50    animali? E tu medesimo, tu che quasi un gigante instancabile, velocemente, dì e
notte, senza sonno né requie, corri lo smisurato cammino che ti è prescritto; sei
tu beato o infelice?
Mortali, destatevi. Non siete ancora liberi dalla vita. Verrà tempo, che niuna
forza di fuori, niuno intrinseco37 movimento, vi riscoterà dalla quiete del sonno;
55    ma in quella sempre e insaziabilmente riposerete. Per ora non vi è concessa la
morte: solo di tratto in tratto vi è consentita per qualche spazio di tempo una
somiglianza di quella.38 Perocché la vita non si potrebbe conservare se ella non
fosse interrotta frequentemente. Troppo lungo difetto39 di questo sonno breve e
caduco, è male per sé mortifero, e cagione di sonno eterno. Tal cosa è la vita, che
60    a portarla,40 fa di bisogno41 ad ora ad ora, deponendola, ripigliare un poco di
 lena,42 e ristorarsi con un gusto e quasi una particella di morte.43
Pare che l’essere delle cose abbia per suo proprio ed unico obbietto44 il morire.
Non potendo morire quel che non era, perciò dal nulla scaturirono le cose che
sono. Certo l’ultima causa45 dell’essere non è la felicità; perocché niuna cosa è
65    felice. Vero è che le creature animate si propongono questo fine in ciascuna opera
loro; ma da niuna l’ottengono: e in tutta la loro vita, ingegnandosi, adoperandosi
e penando sempre, non patiscono veramente per altro, e non si affaticano, se non
per giungere a questo solo intento della natura, che è la morte.
A ogni modo, il primo tempo del giorno suol essere ai viventi il più comportabile.46
70    Pochi in sullo svegliarsi ritrovano nella loro mente pensieri dilettosi e lieti;
ma quasi tutti se ne producono e formano di presente:47 perocché gli animi in
quell’ora, eziandio senza materia48 alcuna speciale e determinata, inclinano sopra
tutto alla giocondità, o sono disposti più che negli altri tempi alla pazienza49 dei
mali. Onde se alcuno, quando fu sopraggiunto dal sonno, trovavasi occupato dalla
75    disperazione; destandosi, accetta novamente nell’animo la speranza, quantunque
ella in niun modo se gli convenga.50 Molti infortuni e travagli propri, molte
cause di timore e di affanno, paiono in quel tempo minori assai, che non parvero
la sera innanzi. Spesso ancora, le angosce del dì passato sono volte in dispregio,51
e quasi per poco in riso come effetto di errori, e d’immaginazioni vane. La sera è
80    comparabile alla vecchiaia; per lo contrario, il principio del mattino somiglia alla
giovanezza: questo per lo più racconsolato e confidente;52 la sera trista, scoraggiata
e inchinevole53 a sperar male. Ma come la gioventù della vita intera, così quella
che i mortali provano in ciascun giorno, è brevissima e fuggitiva; e prestamente54
anche il dì si riduce per loro in età provetta.55
85    Il fior degli anni, se bene è il meglio della vita, è cosa pur misera. Non per
tanto,56 anche questo povero bene manca in sì piccolo tempo, che quando il vivente
a57 più segni si avvede della declinazione58 del proprio essere, appena ne
ha sperimentato la perfezione, né potuto sentire e conoscere pienamente le sue
proprie forze, che già scemano.59 In qualunque genere di creature mortali, la massima
90    parte del vivere è un appassire. Tanto in ogni opera sua la natura è intenta e
indirizzata alla morte: poiché non per altra cagione la vecchiezza prevale sì manifestamente,
e di sì gran lunga, nella vita e nel mondo. Ogni parte dell’universo
si affretta infaticabilmente alla morte, con sollecitudine e celerità mirabile. Solo
l’universo medesimo apparisce60 immune dallo scadere e languire: perocché se
95    nell’autunno e nel verno61 si dimostra quasi infermo e vecchio, nondimeno sempre
alla stagione nuova ringiovanisce. Ma siccome62 i mortali, se bene in sul primo
tempo di ciascun giorno racquistano alcuna parte di giovanezza, pure invecchiano
tutto dì,63 e finalmente64 si estinguono; così l’universo, benché nel principio degli
anni ringiovanisca, nondimeno continuamente invecchia. Tempo verrà, che esso
100 universo, e la natura medesima, sarà spenta. E nel modo che di grandissimi regni
ed imperi umani, e loro maravigliosi moti,65 che furono famosissimi in altre età,
non resta oggi segno né fama alcuna; parimente del mondo intero, e delle infinite
vicende e calamità delle cose create, non rimarrà pure un vestigio;66 ma un silenzio
nudo, e una quiete altissima, empieranno lo spazio immenso. Così questo arcano67
105 mirabile e spaventoso dell’esistenza universale, innanzi di essere dichiarato
né inteso,68 si dileguerà e perderassi.69

 >> pagina 150 

DENTRO IL TESTO

I contenuti tematici

Per esprimere la propria visione della vita e dell’universo, Leopardi ricorre alla finzione romanzesca del manoscritto ritrovato, affermando di aver letto una misteriosa pergamena in un’oscura lingua ebraica, tra caldea, targumica, rabbinica, cabalistica e talmudica (rr. 7-8), e averla tradotta e riscritta in lingua italiana. Tale invenzione è assai frequente in letteratura: dal vescovo Turpino, mitico cantore citato nei poemi cavallereschi italiani di Pulci, Boiardo e Ariosto, fino agli anonimi ispiratori del Don Chisciotte di Cervantes e dei Promessi sposi di Manzoni, questo artificio narrativo consente all’autore reale di attribuire ad altri l’origine della propria opera, e poco importa se il lettore ne diffida e non ci crede. L’effetto che ne consegue è sempre straniante, poiché si ha l’impressione che quanto riportato non rientri nella volontà di chi scrive, che così distanzia sé stesso da quanto afferma e apparentemente si libera di ogni coinvolgimento personale.

Nell’eliminare ogni traccia di soggettività e dare una veste mitica alle affermazioni contenute nell’operetta, Leopardi sceglie un osservatore remoto e inquietante, estraneo alle passioni degli uomini e perciò spietato analista e fine giudice delle loro abitudini. Nel suo monologo profetico, un gigantesco gallo si rivolge da subito direttamente ai viventi, invitandoli a svegliarsi (Su, mortali, destatevi, r. 21). E, fin qui, nulla di anomalo: il gallo, che nelle religioni antiche è simbolo della rinascita, creatura sacra al dio solare Apollo, svolge il proprio consueto compito all’alba, quando agli uomini è regalato l’unico momento di speranza, benché fugace. Qui però, invece che l’inizio della vita, il gallo celebra la sua fine. Il tema centrale del suo canto è infatti la morte, a cui tutto tende, unica conclusione di un’esistenza senza felicità, legge universale estesa agli uomini, alle cose e al cosmo intero.

Il gallo ricorda agli esseri viventi il processo ineluttabile che li porta giorno dopo giorno a una lenta consunzione e infine alla distruzione; un processo addolcito solo dalla benefica pausa del sonno, particella di morte (r. 61) che con le sue immagini vane (rr. 21-22) distrae gli individui dalla quotidiana pena di vivere e consente loro di recuperare quel poco di energie essenziali per riprendere il faticoso cammino dell’esistenza.

 >> pagina 151 

Le scelte stilistiche

A differenza delle altre Operette, in questa Leopardi non utilizza, se non nel preambolo, il registro ironico né quell’impassibile stile argomentativo che sorregge il suo raziocinante materialismo. Quasi scusandosi per l’uso dello stile interrotto, e forse qualche volta gonfio (r. 18), che finge di imputare al manoscritto originale, il poeta utilizza una sintassi paratattica e frammentata (i periodi sono per lo più brevi e in pochissimi casi vi sono subordinate) e una prosa poetica, ricca di figure retoriche (similitudini, anafore, accumulazioni, parallelismi). Non è casuale che alcuni dei temi e delle espressioni rie­vochino precisi passi poetici: i grandissimi regni ed imperi umani, e loro maravigliosi moti, che furono famosissimi in altre età (rr. 100-101), di cui non resta oggi segno né fama alcuna (r. 102) ricordano la fuga inesorabile del tempo, che inghiotte ogni cosa nella morte e nel nulla, nella Sera del dì di festa ( T10, p. 74); le domande che il gallo formula al sole richiamano quelle, anch’esse senza risposta, che il pastore formula alla luna nel Canto notturno ( T14, p. 93); infine un’eco evidente dell’Infinito ( T9, p. 68) è presente nelle espressioni profondissima quiete (r. 33), silenzio nudo (rr. 103-104), quiete altissima (r. 104) e spazio immenso (r. 104).

VERSO LE COMPETENZE

Comprendere

1 In che cosa consiste l’invito rivolto dal gallo ai mortali?


Come spieghi l’elogio del sonno?

Analizzare

Come si è detto nell’analisi, quest’operetta differisce dalle altre per un’accentuata natura poetica. Individua nel testo un esempio di ciascuna delle seguenti figure retoriche.


Figure retoriche

Esempi

metafora

 

similitudine

 

anafora, parallelismo e accumulazione

 

Interpretare

4 Perché si può dire che quest’operetta sia riconducibile alla fase del cosiddetto “pessimismo cosmico” leopardiano?

scrivere per...

argomentare

5 Il filosofo tedesco Friedrich Nietzsche (1844-1900) sosteneva che «il pessimismo moderno è un’espressione dell’inutilità del mondo moderno, non già del mondo e dell’esistenza». Alla luce del pensiero leopardiano e sulla base delle tue conoscenze, rifletti su questo tema con un testo argomentativo di circa 30 righe.

Classe di letteratura - Giacomo Leopardi
Classe di letteratura - Giacomo Leopardi