L’indomani sullo stesso giornale si leggeva:
Il signor Pierre B., la vittima dell’aggressione di cui abbiamo dato notizia ieri, ha ripreso
conoscenza dopo due ore di assidue cure prodigategli dal dottor Bourdeau. È fuori pericolo,
110 ma si nutrono serie preoccupazioni per il suo stato mentale. Nessuna traccia del
colpevole.
Infatti il mio povero amico era impazzito; per sette mesi andai a visitarlo quasi
ogni giorno nella casa di cura in cui l’avevano ricoverato, ma non riacquistò un
barlume di ragione. Nel delirio pronunciava parole senza senso e, come tutti i
115 dementi, era ossessionato da un’idea fissa, credendosi continuamente assalito da
un fantasma.
Un giorno vennero a cercarmi d’urgenza dicendomi che era peggiorato. Lo trovai
in agonia. Per un paio d’ore rimase molto calmo, poi improvvisamente s’alzò dal
letto, nonostante i nostri sforzi per trattenerlo. In preda al terrore gridava: «Prendila,
120 prendila! Mi strozza, aiuto! aiuto!». Fece per due volte il giro della camera urlando,
poi cadde morto, la faccia a terra.
Poiché era orfano, fui incaricato io di accompagnare la salma al piccolo cimitero
di P. in Normandia, ove erano sepolti anche i suoi genitori. Veniva proprio da questo
paesino la sera in cui ci aveva trovato a bere il punch in casa di Louis R. e ci aveva
125 mostrato la mano scorticata.
Il suo corpo fu chiuso in una bara di piombo. Quattro giorni dopo io ero andato
a fare una triste passeggiata, insieme al vecchio curato del posto che era stato il
primo insegnante del mio amico, nel piccolo cimitero ove gli stavano scavando la
fossa.
130 Il tempo era magnifico, il cielo d’un azzurro intenso spandeva a profusione la
luce; gli uccelli cantavano nei rovi delle scarpate là dove tante volte, quando eravamo
entrambi bambini, eravamo venuti a cercare le more.
Mi pareva di vederlo ancora intrufolarsi lungo la siepe e passare attraverso un
varco che conoscevo bene, laggiù proprio in fondo al terreno in cui vengono sotterrati
135 i poveri. Poi tornavamo alle nostre case, con le guance e le labbra annerite dal
succo dei frutti che avevamo mangiato.
Guardavo le macchie: erano piene di more; ne presi una, macchinalmente, e me
la misi in bocca. Il curato aveva aperto il breviario e borbottava con un fil di voce
i suoi: «Oremus».15 Udivo in fondo al viale il rumore della vanga dei becchini che
140 stavano scavando la fossa.
A un tratto ci chiamarono, il curato chiuse il suo libro e andammo a vedere cosa
volevano. Avevano trovato una bara proprio in quel tratto di terreno. Con una picconata
riuscirono a sollevare il coperchio e vedemmo uno scheletro smisuratamente
lungo, coricato sul dorso: pareva che ci guardasse ancora coi suoi occhi infossati e
145 ci sfidasse.
Senza un motivo apparente, provai una forte sensazione di malessere, ebbi quasi
paura.
«Guardate», esclamò uno dei becchini, «guardate questo birbaccione ha una
mano mozza, eccola qui la mano». E raccolse, a fianco del corpo, una grande mano
150 scorticata che ci mostrò.
Commentò allora l’altro: «Attento, si direbbe che ti guardi. Adesso ti salterà alla
gola perché rivuole indietro la mano che gli hai preso!».
Intervenne il curato: «Andiamo, amici miei. Lasciate in pace i morti e richiudete
quella cassa; scaverete da un’altra parte la fossa per il povero signor Pierre».
155 Il giorno dopo tutto era finito e io me ne tornai a Parigi, dopo aver lasciato cinquanta
franchi al vecchio curato perché dicesse qualche messa per l’anima di colui
al quale avevamo turbato l’eterno riposo.
Guy de Maupassant, Le Horla e altri racconti dell’orrore, trad. di L. Chiavarelli, Newton Compton, Milano 1994