2 - Il peso del destino

2 Il peso del destino

I temi e i toni drammatici della narrativa deleddiana – letti un tempo come la reazione di una sensibilità verista di fronte alla crisi socioeconomica che, sul finire dell’Ottocento, dà inizio alla dissoluzione della società tradizionale sarda sotto i colpi dell’avanzante industrializzazione – vanno piuttosto attribuiti a una visione esistenziale tragica e religiosa. Se l’autrice ha insistito tanto a lungo su modi solo in apparenza veristi, è perché in quella direzione si attardava la moda letteraria del tempo; nel corso del Novecento, essa cercherà invece di adattarsi alle mutate esigenze del gusto.

Il già citato Cosima contiene in sintesi tutta l’ideologia poetica cara alla scrittrice sarda. Vi domina terribile, con compiaciuta insistenza, il suo pensiero primordiale: «La vita segue il suo corso fluviale, inesorabile: vi sono tempi di calma e tempi torbidi, a cui nulla può mettere riparo: e invano si tenta di arginarla, di mettersi anche di traverso nella corrente per impedire che altri ne venga travolto. Forze occulte, fatali, spingono l’uomo al bene o al male; la natura stessa, che sembra perfetta è sconvolta dalle violenze di una sorte ineluttabile». Per questo si può affermare che il fatalismo è il sentimento viscerale più forte dei personaggi deleddiani. Essi accettano gli eventi negativi e addirittura tragici dell’esistenza, poiché sono convinti che l’uomo non possa mutare ciò che il destino ha stabilito per loro. La statura morale dell’essere umano si misura semmai sulla sua capacità di accettazione della sorte assegnatagli, nel suo piegarsi, umile e docile, come una canna al soffio del vento.

Spesso nella narrativa della scrittrice al motivo del destino è associato quello della colpa: nella religiosità deleddiana, il destino finisce così con il confondersi con la volontà di Dio. In Canne al vento Efix è il personaggio che rappresenta più compiutamente tale visione del mondo, nella quale la concezione pagana (del destino) e quella cristiana (della Provvidenza) si intrecciano e si confondono su un piano di sostanziale sincretismo: «Non voleva, a sua volta, forzare la sorte, e pensava ch’era peccato cercare di opporsi ai voleri della provvidenza. Bisogna abbandonarsi a lei, come il seme al vento. Dio sa quel che fa».

Tuttavia a un mondo del peccato e del male, sentito come fatalità, e rappresentato con accenti cupi, si accompagna o piuttosto si contrappone, nell’opera di Grazia Deledda, un’ansia di liberazione e di riscatto che trova espressione soprattutto nella dimensione del sogno, nel vagheggiamento di una possibile evasione e nella rappresentazione idillica e romantica del paesaggio.

T2

La morte di Efix

Canne al vento, cap. 17

Dopo aver trascorso un lungo periodo di vagabondaggio in seguito alla vendita del podere che per tanti anni aveva custodito, sentendosi prossimo alla morte, l’anziano servo Efix decide di tornare alla casa delle sorelle Pintor. È questo l’ultimo capitolo del romanzo.

Efix era di nuovo laggiù, al poderetto. Terminata la buona stagione, raccolte le frutta,

Zuannantoni, a cui il padrone aveva dato l’incarico di pascolare un branco di

pecore nelle giuncaie intorno al paesetto, se n’era andato di buon grado.

Ed ecco dunque Efix di nuovo seduto al solito posto davanti alla capanna, sotto

5      il ciglione1 glauco2 di canne. Il cielo è rosso, in alto sopra la collina bianca; passa il

vento e le canne tremano e bisbigliano.

“Efix rammenti, Efix rammenti? Sei andato, sei tornato, sei di nuovo in mezzo

a noi come uno della nostra famiglia. Chi si piega e chi si spezza, chi resiste oggi

ma si piegherà domani e posdomani si spezzerà. Efix rammenti, Efix rammenti?”

10    Egli intrecciava una stuoia e pregava. Di tanto in tanto un acuto dolore al fianco

lo faceva balzare dritto, rigido come se qualcuno gli infilasse un palo di ferro

nelle reni; si ripiegava di nuovo su se stesso, livido e tremante, proprio come una

canna al vento; ma dopo lo spasimo provava una gran debolezza, una grave dolcezza,

perché sperava di morire presto. La sua giornata era finita.

15    Finché poté resistere rimase laggiù accanto alla terra che aveva succhiato tutta

la sua forza e tutte le sue lagrime.

L’autunno s’inoltrava coi giorni dolci di ottobre, coi primi freddi di novembre;

le montagne davanti e in fondo alla valle parevano vulcani; nuvole di fumo solcate

da pallide fiamme e poi getti di lava azzurrognola e colonne di fuoco salivano

20    laggiù dal mare.

Verso sera il cielo si schiariva, tutto l’argento delle miniere del mondo s’ammucchiava

a blocchi, a cataste sull’orizzonte; operai invisibili lo lavoravano, costruivano

case, edifizi, intere città, e subito dopo le distruggevano e rovine e rovine biancheggiavano

allora nel crepuscolo, coperte di erbe dorate, di cespugli rosei; passavano torme

25    di cavalli grigi e neri, un punto giallo brillava dietro un castello smantellato e pareva

il fuoco di un eremita o di un bandito rifugiatosi lassù: era la luna che spuntava.

Piano piano la sua luce illuminava tutto il paesaggio misterioso e come al tocco di

un dito magico tutto spariva; un lago azzurro inondava l’orizzonte, la notte d’autunno

limpida e fredda, con grandi stelle nel cielo e fuochi lontani sulla terra, stendevasi

30    dai monti al mare. Nel silenzio il torrente palpitava come il sangue della valle addormentata.

Ed Efix sentiva avvicinarsi la morte, piano piano, come salisse tacita dal sentiero

accompagnata da un corteggio di spiriti erranti, dal batter dei panni delle panas3

giù al fiume, dal lieve svolazzare delle anime innocenti tramutate in foglie, in fiori...

Una notte stava assopito nella capanna quando si svegliò di soprassalto come

35    se qualcuno lo scuotesse.

Gli parve che un essere misterioso gli piombasse sopra, frugandogli le viscere

con un coltello: e che tutto il sangue gli sgorgasse dal corpo lacerato, inondando la

stuoia, bagnandogli i capelli, il viso, le mani.

Cominciò a gridare come se lo uccidessero davvero, ma nella notte solo il mormorio

40    dell’acqua rispondeva.

Allora ebbe paura e pensò di tornarsene in paese; ma per lunga ora della notte

non poté muoversi, debole, come dissanguato: un sudore mortale gli bagnava tutta

la persona.

All’alba si mosse. Addio, questa volta partiva davvero e mise tutto in ordine

45    dentro la capanna: gli arnesi agricoli in fondo, la stuoia arrotolata accanto, la pentola

capovolta sull’asse, il fascio di giunchi nell’angolo, il focolare scopato: tutto in

ordine, come il buon servo che se ne va e tiene al giudizio favorevole di chi deve

sostituirlo.

Portò via la bisaccia, colse un gelsomino dalla siepe e si volse in giro a guardare:

50    e tutta la valle gli parve bianca e dolce come il gelsomino.

E tutto era silenzio: i fantasmi s’erano ritirati dietro il velo dell’alba e anche

l’acqua mormorava più lieve come per lasciar meglio risonare il passo di Efix giù

per il sentiero; solo le foglie delle canne si movevano sopra il ciglione, dritte rigide

come spade che s’arrotavano sul metallo de! cielo.

55    “Efix, addio, Efix addio”.


Ritornò dalle sue padrone e si coricò sulla stuoia.

«Hai fatto bene a venir qui» disse donna Ester coprendolo con un panno; e

Noemi si curvò anche lei, gli tastò il polso, gli afferrò il braccio cercando di convincerlo

a mettersi a letto.

60    «Mi lasci qui, donna Noemi mia» egli gemeva sorridendo ma con gli occhi vaghi

come quelli del cieco, coperti già dal velo della morte. «Questo è il mio posto».

Più tardi un nuovo accesso del male lo contorse, lo annerì; e mentre le padrone

mandavano a chiamare il dottore egli cominciò a delirare.

La cucina si empiva di fantasmi, e l’essere terribile che non cessava di colpirlo

65    gli gridò all’orecchio:

«Confessati! Confessati!»

Anche donna Ester si inginocchiò davanti alla stuoia mormorando:

«Efix, anima mia, vuoi che chiamiamo prete Paskale? Ti leggerà il Vangelo e

questo ti solleverà...»

70    Ma Efix la guardava fisso, con gli occhi vitrei nel viso nero brillante di gocce di

sudore; il terrore della fine lo soffocava, aveva paura che l’anima gli sfuggisse d’improvviso

dal corpo, come era fuggito lui dalla casa dei suoi padroni, e scacciata dal

mondo dei giusti si mettesse a vagabondare inquieta e dannata coi fantasmi della

valle; eppure rispose di no, di no. Non voleva il prete: più che della morte e della

75    sua dannazione aveva paura di rivelare il suo segreto.

Ed ecco don Predu4 che arriva, siede accanto alla stuoia e comincia a scherzare.

È allegro, don Predu; s’è ingrassato di nuovo e la catena d’oro non pende più tanto

sul suo panciotto nero.

«Perché sei tornato qui, babbeo? Se venivi a casa mia ci stavi male? Sei come il

80    gatto che ritorna anche se portato via dentro il sacco. Su, andiamo; ti metterò nel

letto di Stefana».

Anche Noemi, curva con una scodella fumante in mano, mentre gli asciuga il

sudore dal viso, cerca di imitare il suo grosso fidanzato.

«Su bevi; che vuoi morire scapolo?»

85    «Dunque» disse Efix sollevando il capo ma rifiutando il brodo, «ce ne andiamo...»

«Ma cosa dici? Vuoi andare di nuovo? Che girellone...»

«Oh, uomo, che fai? Andiamo su da Stefana che t’ha serbato una melagrana...

Su, ragazzo!»

Ma Efix rimise la testa giù e chiuse gli occhi, non perché offeso dagli scherzi dei

90    suoi padroni ma perché si sentiva tanto lontano da loro, da tutti. Lontano, sempre

più lontano, ma con un peso addosso, con un traino che non gli permetteva di andare

avanti, di tornare indietro. Era peggio di quando si portava appresso i ciechi.5

Finalmente arrivò il dottore: lo palpò tutto, gli batté le nocche delle dita sul

ventre duro come un tamburo, lo voltò, lo rivoltò, gli buttò addosso il panno come

95    su un pane che fermenta.

«È il fegato che fa un brutto scherzo. Bisogna andare a letto, Efix».

Il malato sollevò l’indice, accennando di no.

«Tanto devo morire: mi lasci morire da servo».

«Davanti a Dio non ci sono né servi né padroni» disse donna Ester, e don Predu

100 si curvò e tentò di sollevarlo fra le sue braccia.

«Zitto, babbeo. Zitto!»

Ma Efix si mise a gemere, scuotendosi debolmente come un uccello ferito che

tenta ancora di volare.

«Voi volete farmi morire prima dell’ora... »

105 Allora il dottore fece un cenno con la mano e con la testa sollevando gli occhi

al cielo, e don Predu rimise giù il malato, lo ricoprì, non scherzò più.

Così lo lasciarono. E le ore e i giorni passavano, ed Efix nel delirio sognava di

camminare, camminare coi ciechi, attraverso le valli e le tancas6 dell’altipiano, e

sognava le feste, i soldi che cadevano davanti a lui,7 le donne pietose, i bei giovani

110 sui cavalli balzani8 che correvano sulla costa del Monte e da lontano gli lanciavano

monete e parole mordenti.

Ma alte pareti affumicate, con chiazze rosse di rame, con una panca in fondo,

circondavano sempre l’orizzonte: al di là non si andava, mentre egli aveva bisogno

di andare al di là, per liberarsi del suo peso, per guarire del suo dolore.

115 Due volte Noemi lo trovò alzato che tentava di uscire fuori del cortile. Levarono

la chiave dal portone.

Donna Ester si curvava su lui, gli accomodava il guanciale, la coperta addosso,

gli tastava il polso.

«Efix, il Rettore9 verrà a visitarti».

120 Egli sollevava l’indice, accennando di no, a occhi chiusi.

Nei primi giorni qualcuno domandò di visitarlo; ma Noemi apriva appena il

portone e mandava via tutti. Egli, dentro, sentiva. E che la gente si ricordasse di lui,

così lontano, così al limite del mondo, lo sorprendeva e lo turbava.

«Chi era che mi cercava poco fa?» domandò una mattina a donna Ester.

125 «Sarà stato Zuannantoni».

«Se torna, donna Ester mia, di grazia, lo lasci entrare... È bene cominciare a

congedarsi...»

«Che dici, Efix! Perché questa idea fissa? Perché non vuoi che venga il Rettore?

Ti reciterebbe il Vangelo e non avresti più paura di morire...»

130 Egli non rispose. No, non lo ingannavano: ma l’ora non era ancor giunta, ed

egli si aggrappava alla vita solo perché aveva paura di deporre il suo peso in casa

delle sue padrone.


Intorno a lui la vita prendeva un aspetto nuovo: un’onda di gioia pareva invadere

la casa quando arrivava don Predu, ed erano timide risate di donna Ester, discussioni

135 dei fidanzati, progetti, chiacchiere, improvvisi silenzi per rispetto al malato.

Allora egli si sentiva d’ingombro e desiderava andarsene.

Una mattina donna Ester, che dormiva nella camera terrena per vegliarlo, s’alzò

presto, rimise tutto bene in ordine parlando sottovoce fra sé, e curvandosi per fargli

bere una tazzina di latte, disse:

140 «Su, Efix, allegro! Oggi Predu fisserà il giorno delle nozze. Sei contento?»

Egli accennò di sì; poi si coprì la testa col panno e là sotto gli pareva d’essere già

morto, ma di gioire lo stesso per la buona fortuna delle sue padrone.

Anche Noemi s’alzò presto; discuteva con la sorella e diceva con fierezza:

«Perché il giorno deve fissarlo lui e non io? lo non sono una paesana per seguire

145 l’uso comune».

«Che impazienza ti è presa? Le pubblicazioni sono fatte: oggi si parlerà del

resto».

Noemi era agitata ed Efix la sentiva andare e venire per la casa, con passo lieve

ma inquieto; finalmente ella sedette accanto all’uscio a cucire silenziosa, e quando

150 arrivò don Predu scostò la sedia, tirando in là la tela per lasciarlo passare, ma sollevò

appena il viso per guardarlo e rispose con un lieve cenno dei capo al saluto di

lui. Ed ecco subito donna Ester scese giù le scale annodandosi il fazzoletto, pronta

a servire da interprete10 ai due fidanzati fra i quali spesso nascevano malintesi, perché

Noemi si offendeva di tutto e capiva tutto alla rovescia nonostante la buona

155 volontà di don Predu.[…]

E fra il ridere un poco forzato di donna Ester e le proteste di Noemi, che egli

teneva ferma per le spalle, si udì lo scoccare forte di un bacio.

“Come sono contento! Adesso posso morire” pensava Efix sotto il panno; ma

aveva come l’impressione di non potersene andare, di non poter uscire da quel

160 cerchio di muri che lo serrava.

Don Predu rimase tutto il giorno lì, invitato a pranzo dalle cugine: parlava, rideva,

si beffava nuovamente del prossimo; ogni tanto però taceva, anche perché Noemi

pareva curarsi poco di lui. Un silenzio grave circondava allora Efix, ed egli capiva

d’esser d’ingombro, di dar peso e soggezione alle donne e allo stesso don Predu.

165 Bisognava andarsene, lasciare liberi i fidanzati di amarsi e scherzare senza

quell’immagine della morte davanti a loro.

E d’un tratto, lì sotto al buio, sotto il panno, gli parve di capire perché non poteva

andarsene. Era qualcosa che lo tratteneva ancora nella casa dei padroni, come

un conto non aggiustato, che bisognava aggiustare.

170 E quando donna Ester si chinò su lui, credendolo addormentato, e sollevò

lievemente il lembo del panno, lo vide con gli occhi spalancati, col viso rosso, le

labbra tremanti.

«Ebbene, Efix, che hai?»

Egli le accennò con le palpebre di accostarsi di più, le mormorò sul viso con

175 un filo di voce:

«Donna Ester mia, di grazia, se vuole mi chiami prete Paskale».

Dopo la confessione non parlò più, non si lamentò più.

Stava col capo coperto, ma donna Ester ogni volta che sollevava il panno vedeva

il povero viso sempre più piccolo, violaceo, raggrinzito come una prugna secca.

180 Una sera egli aprì gli occhi fissandola con quel suo sguardo di spavento che le

destava tanta pietà, e mormorò senza più voce:

«È lunga, donna Ester mia! Abbiano pazienza».

«Che cosa è lunga, Efix?»

«La strada... Non s’arriva mai!»

185 Gli sembrava infatti di camminare sempre. Saliva un monte, attraversava una

tanca; ma arrivato al confine di questa ecco un altro monte, un’altra pianura; e in

fondo il mare.

Adesso però camminava tranquillo, e solo gli dispiaceva di non arrivar mai

per sgombrare del suo corpo la casa delle sue padrone: ma un giorno, o una notte

190 – non capiva più che tempo era – gli parve d’esser giunto al muricciuolo del poderetto,

su in alto sul ciglione delle canne, e di sdraiarsi pesantemente sulle pietre.

Le canne frusciavano, piegandosi fino a lui per toccarlo, per lambirlo con le foglie

che avevano qualche cosa di vivo, come dita, come lingue. E gli parlavano, e una

gli pungeva l’orecchio perché sentisse meglio: era un mormorio misterioso che

195 ripeteva il sussurro dei fantasmi della valle, la voce del fiume, il salmodiare dei

pellegrini, il palpito del Molino, il gemito della fisarmonica di Zuannantoni. Egli

ascoltava, aggrappato bocconi ai muricciuolo e da una parte vedeva la cucina delle

sue padrone, dall’altra una distesa nebbiosa come lassù dal Monte Gonare.

Donna Ester saliva dalla valle col viso coperto da un’ala nera; sollevava l’ala,

200 mostrava il suo viso scuro, doloroso, gli occhi velati di pietà, ma si traeva indietro

dal muricciuolo come per paura di cadere; ed ecco altre figure salivano, tutte col

viso nascosto da un’ala nera, e tutte si avvicinavano ma si ritraevano subito spaurite,

spaventate dal pericolo di precipitare al di là.

Efix le riconosceva tutte, queste figure, le sentiva parlare, capiva che erano vive

205 e reali; eppure aveva l’impressione di sognare: erano figure del sogno della vita.

Era il prete, era il Milese, era Zuannantoni, erano le serve di don Predu, e don

Predu stesso e Noemi: a volte qualcuno di loro si faceva coraggio e cercava di aiutarlo,

di trarlo giù dal muricciuolo, senza riuscirvi.

Ed egli cominciò a provare fastidio di loro; volse il viso di là e fissò la valle nebbiosa.

210 Ed ecco la nebbia cominciò a diradarsi; macchie di boschi dorati apparvero

fra squarci di azzurro, e sul ciglione sopra di lui un melagrano come quelli di cui

raccontava il cieco curvò i suoi rami pesanti di frutti rossi spaccati che lasciavano

cadere i loro chicchi di perla.

Ma la gente al di là del muricciuolo non lo lasciava in pace a contemplare tanto

215 bene; egli non si volgeva più, e solo un giorno una mano che si posava sulla sua

spalla e una voce che lo chiamava piano piano all’orecchio lo fecero sobbalzare.

«Efix! Efix!»

Il viso di Giacinto, gli occhi dolci umidi di pietà stavano sopra di lui: fra tante

figure morte quella gli parve ancora la sola viva, tanto viva che le sue mani calde

220 avevano quasi la potenza di tirarlo su, rimetterlo dritto nel mondo di qua.

Ma fu un momento: ecco che si velava anch’essa, perdeva forza, ritornava fantasma;

ed Efix provò dolore, come fosse Giacinto a morire, non lui.

«Efix, su, su! Che fai? Non mi dici niente? Sono venuto per te, sai. Sono qui.

Non volevano lasciarmi entrare ed ho saltato il muro. Su, guardami!»

225 Egli lo guardava, ma non ne vedeva più gli occhi.

«Zia Noemi è scappata come di volo, vedendomi! Proprio non mi perdonerà

mai! Che cosa ti ha raccontato, dimmi? Che non vuol più vedermi, che ha giurato

di non pronunziare più il mio nome? Lo so: ma non importa. Son contento che

si sposi; sai cos’era accaduto, l’ultima volta che venni? Io le dicevo: “Sposatevi, zia

230 Noemi; zio Pietro è ricco, vi ama, vi renderà felice”. Essa mi guardava con disprezzo,

ed io capivo bene che non si sarebbe decisa mai. Allora Efix, senti – parliamo

piano, non stia ad ascoltare – ebbene, ricordai il tuo consiglio. La guardai bene negli

occhi e le dissi: “Zia Noemi, io sposerò Grixenda, perché solo Grixenda, povera

come me, giovane e sola come me, può essere la mia compagna”. Allora Noemi si

235 fece pallida come una morta; ebbi paura e me ne andai. Piangevo; te lo disse? Su,

Efix, tu non mi ascolti. Su! Ecco zia Ester. Non è vero, zia Ester, che Efix finge d’esser

malato per non venire alle nozze mie ed a quelle di zia Noemi per non farci il

regalo? Eppure, dicono, denari ne hai portati, dal tuo viaggio...»

Efix sentiva le parole e le capiva anche, ma erano senza suono, come parole scritte.

240 «Su, dimmi almeno cos’hai. Non mi racconti neppure dove sei stato. Rammenti

quando sei venuto al Molino e ti chiesi dove andavi? E tu rispondesti: in un bel

posto. Non rammenti? Apri gli occhi, guardami. Dove andavi?...»

Efix ricominciò a provare fastidio: aprì un momento gli occhi, li richiuse, gravi

già del sonno della morte. E le parole di Giacinto si confondevano, di là del muricciuolo

245 col fruscio delle canne, col ronzio del vento che passa.

Eppure a un tratto parve sollevarsi e rivivere. Durante la sera un accesso violento

del male lo aveva pestato come sale nel mortaio: era diventato sordo e muto dal

dolore, ma aveva veduto don Predu guardare Noemi con un gesto di contrarietà.

Perché le nozze erano fissate per l’indomani, e s’egli moriva portava il malaugurio

250 agli sposi o li costringeva a rimandare a un altro giorno la cerimonia nuziale. Allora

in fondo alle tenebre che già lo avvolgevano brillò come una lampada lontana:

la volontà di combattere la morte.

Si scoprì il viso e parlò.

«Donna Ester, sto meglio. Mi dia da bere».

255 Accorsero tutt’e due le padrone e Noemi stessa gli sollevò la testa e gli diede

da bere.

«Bravo, Efix! Così va bene. Sai cosa succede, oggi?»

Egli accennò di sì, bevendo.

«Sei contento, vero, Efix? Quanto ci hai pensato, a questo giorno? Ti parrà un

260 sogno».

Egli accennava di sì, di sì: tutto era stato, tutto era un sogno.

Poi lo lasciarono solo, perché Noemi doveva vestirsi; ed egli sollevò la testa e si

guardò attorno ma come di nascosto, continuando a far cenni di approvazione. Tutto

andava bene; la festa nuziale si svolgeva in casa dello sposo, e qui nulla turbava l’antica

265 pace. Per un’attenzione di Noemi verso il malato neppure la cucina era stata ripulita,

come s’usa per le nozze; la casa e il cortile erano silenziosi, il gatto stava immobile

sulla panca, nero con gli occhi verdi come l’idolo della solitudine; nel silenzio si udiva

il legno corroso del balcone scricchiolare e sollevando un poco di più la testa Efix

rivide un’ultima volta il muro rovinato e l’erba e i fiori d’ossa dell’antico cimitero.

270 Ma d’improvviso una figura apparve sulla porta; alta, sottile, vestita d’uno stretto

abito granato a fiori neri, aveva una ghirlanda di rose sul capo, e qua e là sul viso,

sulla persona, sui piedi, qualche cosa che scintillava: gli occhi, i gioielli, le scarpette...

Egli spalancò gli occhi e riconobbe Noemi; ma dietro di lei, accomodandole

le rose del cappello e le pieghe del vestito, donna Ester con le ali nere dello scialle

275 rigettate sugli omeri gli parve l’ombra della sposa.

«Sto bene, vero?» domandò Noemi ritta davanti a lui, accomodandosi i risvolti

delle maniche. «Non ti pare stretto, questo vestito! Si usa così. E guarda com’è bello,

questo: è il regalo di Predu».

Si chinò nonostante il vestito stretto e gli fece vedere il rosario di madreperla

280 con una grande croce d’oro.

«Vedi? Era la croce di un vescovo antico: era della nonna di Predu, ch’era poi

anche la nostra. Così rimane in famiglia. È bella, vero? Guarda il Cristo, pare che

sorrida, mentre gli calano giù le lacrime e il sangue... E dietro, guarda...»

Efix guardava silenzioso, immobile, con le mani nere e secche aggrappate all’orlo

285 del panno; e pareva affacciarsi, già cadavere, dal mondo di là per contemplare

un’ultima volta la felicità della sua padrona. Ma ella disse, chinandosi ancora di

più, con le ginocchia piegate, in modo che gli sfiorava il viso col suo viso:

«Vedi che regalo, Efix!»

Ed era pallida, nel suo vestito granato, con gli occhi cattivi pieni di lagrime.

290 Ma Efix non ne provò dolore.

«Siamo nati per soffrire come Lui; bisogna piangere e tacere...» disse con un soffio.

E questo fu il suo augurio.

Da quel momento non parlò più. Gli pareva di tenersi aggrappato all’orlo del

panno per non cadere di là; e di vedere dall’alto del muricciuolo lo spettacolo del

295 mondo.

Ed ecco don Predu e i parenti arrivano per portar via la sposa: entrano, si dispongono

intorno nella cucina come le figure di un sogno, confusamente, ma con

rilievi strani di particolari.

Don Predu è vestito di nero, un abito nuovo attillato che lo costringe a respirar

300 forte, ma Efix non ne distingue il viso, mentre vede la bocca sarcastica del Milese,

lunga stretta, come piena di riso represso, e il ventre gonfio d’una parente delle

dame, quella che deve accompagnare la sposa, e due ceri con due nastri color rosa

sostenuti da due manine pallide.

E tutti sono seri come venuti a prendere lui, morto, non la padrona sposa, e

305 camminano piano per non dargli noia.

Donna Ester, con lo scialle sciolto un po’ svolazzante sulle spalle, dispone il

corteo: prima i bambini coi ceri alti in mano; poi la sposa con la parente; poi lo

sposo coi parenti; in coda i pochi invitati; il Milese in ultimo pareva ridersi di tutti

silenziosamente.

310 “Adesso mi lasciano solo” pensa Efix con un poco di amarezza. “Solo. E son io

che ho fatto tutto!”

Sulla porta Noemi si volse a fargli un cenno di addio con la croce d’oro. Addio.

Ed egli, come già per Giacinto, ebbe l’impressione che fosse lei a morire.

Uscivano tutti, se ne andavano: donna Ester si curvò su lui, parve coprirlo con

315 le sue ali nere.

«Torno presto, io, appena li avrò accompagnati: bisogna che vada; sta’ quieto,

fermo fermo».

Sì, egli stava fermo al suo posto; fermo e solo. S’udiva la fisarmonica che Zuannantoni

suonava in onore degli sposi, ed egli ricominciò a ricordare tante cose:

320 il rumore del Molino, su a Nuoro, le nuvole sopra Monte Gonare, il fruscio delle

canne sul ciglione...

“Efix, rammenti? Efix, rammenti?”

Com’era diventata grande la cucina! Scura e tiepida, coi muri lontani, con sfon-

di misteriosi come una tanca di notte. L’usignuolo cantava, il cieco raccontava la

325 storia del palazzo d’oro del Re Salomone.

“... tutto era d’oro, come nel mondo della verità; tutto era puro, lucente. Melagrane

d’oro, vasi d’oro, stuoie d’oro...”

Ed egli vedeva la casa di don Predu, coi melagrani carichi di frutta, i palmizi, le

stuoie coperte di grappoli d’uva e di zucche d’oro.

330 “Noemi starà bene... là... mangerà bene, ingrasserà, darà i denari a donna Ester

per accomodare qui il balcone. Starà bene... Sarà come la Regina Saba.11 Ma anche

lei, la Regina Saba non era contenta... Anche Noemi si stancherà della sua croce

d’oro e vorrà andare lontano, come Lia, come la Regina Saba, come tutti...”

Ma questo non gli destava più meraviglia; andare lontano, bisognava andare

335 lontano, nelle altre terre, dove ci sono cose più grandi delle nostre. Ed egli andava.

Chiuse gli occhi e si tirò il panno sulla testa. Ed ecco si trovò di nuovo sul

muricciuolo del poderetto: le canne mormoravano, Lia e Giacinto stavano seduti

silenziosi davanti alla capanna e guardavano verso il mare.

Gli parve di addormentarsi. Ma d’improvviso sussultò, ebbe come l’impressione

340 di precipitare dal muricciuolo.

Era caduto di là, nella valle della morte.


Donna Ester lo trovò così, quieto, immobile sotto il panno: fermo fermo.

Lo scosse, lo chiamò, e accorgendosi ch’era morto e che lo avevano lasciato

morire solo, si mise a piangere forte, con un gemito rauco che la spaventò. Cercò

345 di calmarsi, ma non poteva; era come un’anima che piangeva entro di lei contro

sua volontà: allora andò e chiuse il portone perché qualcuno non la sorprendesse

a disperarsi così sul servo morto e la gente non s’accorgesse che l’avevano lasciato

morire solo, mentre per la famiglia era un gran giorno di festa.

In attesa che le ore passassero rimosse il cadavere, secco e leggero come quello

350 d’un bambino, lo lavò, lo rivestì, parlandogli sottovoce, fra una preghiera e l’altra

per raccontargli come s’era svolta la cerimonia nuziale, come Noemi piangeva entrando

nella sua ricca nuova dimora – piangeva tanto era felice, s’intende – come

la casa era piena di regali, come la gente buttava grano e fiori fin dentro il cortile

degli sposi, per augurar loro buona fortuna, come tutti insomma erano contenti.

355 «E tu hai fatto questo... di andartene così, di nascosto... senza dir nulla... come

l’altra volta... Ah, Efix, questo non lo dovevi fare... oggi, proprio oggi!...»

Egli pareva ascoltasse, con gli occhi vitrei socchiusi, tranquillo ma deciso a non

rispondere da buon servo rispettoso.

Donna Ester, ricordandosi che gli piacevano i fiori, spiccò un geranio dal pozzo

360 e glielo mise fra le dita sul crocefisso: in ultimo ricoprì il cadavere con un tappeto di

seta verde che avevano tirato fuori per le nozze. Ma il tappeto era corto, e i piedi rimasero

scoperti, rivolti come d’uso alla porta; e pareva che il servo dormisse un’ultima

volta nella nobile casa riposandosi prima d’intraprendere il viaggio verso l’eternità.

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Dentro il TESTO

I contenuti tematici

L'ultimo capitolo di Canne al vento mette a fuoco molto efficacemente la visione fatalistica della scrittrice, qui incarnata nel personaggio di Efix. Questi si identifica completamente con il proprio destino di “servo”. Tale vocabolo – che compariva nella prima frase del romanzo, in cui Efix veniva definito «il servo delle dame Pintor» – non ha nel linguaggio deleddiano alcuna connotazione negativa, essendo, nella Sardegna rurale, termine d’uso comune per qualificare chi, alle dipendenze di un datore di lavoro (“padrone”), fosse a lui legato da antichi rapporti di consuetudine e fedeltà.

Tale è stato per tutta la sua vita Efix nei confronti della famiglia Pintor: prima ha servito don Zame e, dopo la sua morte, le tre figlie. Per lunghi anni egli ha coltivato i terreni dell’unico podere rimasto alle donne dopo il tracollo economico della famiglia, finché, strette dai debiti contratti dal nipote Giacinto, esse si sono trovate costrette a vendere quanto era sopravvissuto dei vasti possedimenti di un tempo. Efix, allora, se n’era andato via, per non essere di peso alle donne, vivendo di elemosine. Ma ora che si sente prossimo alla fine, il suo destino lo porta a tornare presso le Pintor, per morire là dove era vissuto per la maggior parte della sua esistenza.

Quello di “servo” non è dunque un mestiere, un lavoro, ma una sorta di identità profonda. Sei come il gatto che ritorna anche se portato via dentro il sacco (rr. 79-80), gli dice scherzosamente don Predu. Efix non vuole saperne di porsi in un letto, che pure gli viene offerto, ma preferisce rimanere sulla stuoia, come un fedele cane da guardia: Mi lasci qui, donna Noemi mia [...] Questo è il mio posto (rr. 60-61). E, poco più avanti, al medico: Tanto devo morire: mi lasci morire da servo (r. 98). Quasi sembra non voler morire per non incomodare le dame Pintor: egli si aggrappava alla vita solo perché aveva paura di deporre il suo peso in casa delle sue padrone (rr. 131-132).

L’atteggiamento di Efix, il suo desiderio di mortificazione, non si spiega però soltanto sul piano sociale. Sembra infatti che ci sia in lui una volontà di soffrire che va ben oltre il suo ruolo di subalternità nei confronti delle “padrone”. La verità è che l’uomo intende espiare una colpa che non ha mai confessato, cioè l'uccisione, seppure preterintenzionale, del suo antico “padrone” don Zame. È un fatto avvenuto molti anni prima, e che è stato all'origine della successiva vita di penitenza del povero Efix. L’uomo è stato sempre docile al suo destino, che sente fatalisticamente come fisso e immutabile, proprio come una canna al vento (rr. 12-13).

È come se la colpa di tanti anni prima – un conto non aggiustato, che bisognava aggiustare (r. 169) – lo trattenesse in vita, nella casa delle “padrone”. Per questo a un certo punto chiede del sacerdote. La scena della confessione non viene rappresentata né descritta, ma, dopo un’ellissi, apprendiamo che il sacramento è stato amministrato (Dopo la confessione non parlò più, non si lamentò più, r. 177). Ora che si è tolto quel peso dalla coscienza, l’anziano servo può finalmente morire in pace, non prima però di aver riepilogato in una frase sentenziosa la morale religiosa a cui ha improntato tutta la propria esistenza. Guardando il Crocifisso del rosario di madreperla dono di nozze di don Predu a Noemi, dice alla donna: Siamo nati per soffrire come Lui; bisogna piangere e tacere... (r. 291). È quello che lui ha fatto per tutta la vita. La sua morte avviene proprio nel giorno del matrimonio, quasi fosse un'offerta sacrificale (il sacrificio di sé) utile a riparare un antico torto e a permettere una nuova fase di felicità alla famiglia Pintor.

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Le scelte stilistiche

Finito il lungo girovagare di Efix, l’ultima parte della sua vita si svolge nell'immobilità del giaciglio che si è scelto per morire, all’interno di casa Pintor. Tuttavia, allo spazio chiuso della cucina che lo ospita e che non viene neppure ripulita (come era consuetudine fare in occasione di una festa nuziale) per non disturbare il servo moribondo, si contrappone, nei sogni di Efix, lo spazio aperto della natura. Già prima del suo ritorno alla casa delle “padrone” il paesaggio veniva rappresentato in maniera liricizzante e visionaria: Verso sera il cielo si schiariva, tutto l’argento delle miniere del mondo s’ammucchiava a blocchi, a cataste sull'orizzonte; operai invisibili lo lavoravano, costruivano case, edifizi, intere città, e subito dopo le distruggevano e rovine e rovine biancheggiavano allora nel crepuscolo, coperte di erbe dorate, di cespugli rosei; passavano torme di cavalli grigi e neri, un punto giallo brillava dietro un castello smantellato e pareva il fuoco di un eremita o di un bandito rifugiatosi lassù: era la luna che spuntava (rr. 21-26). Del resto, come è stato scritto, Efix «vive in fantastica dimestichezza con i folletti, i giganti della montagna, i santi del cielo, i morti, vivi e veri per lui come le persone del presente» (Orsola Nemi).

La stessa modalità di raffigurazione della natura in una chiave animata e antropomorfizzata segna poi la fantasticheria del delirio di Efix morente: Le canne frusciavano, piegandosi fino a lui per toccarlo, per lambirlo con le foglie che avevano qualche cosa di vivo, come dita, come lingue. E gli parlavano, e una gli pungeva l'orecchio perché sentisse meglio (rr. 192-194). È, questa, una costante della narrativa di Grazia Deledda, che coglie negli elementi naturali, tutti percorsi da fremiti e presentimenti, la suggestiva presenza di entità misteriose: segno del superamento di una rappresentazione puramente veristica dell'ambiente, nella direzione invece di aperture decisamente simbolistiche e decadenti. Per questo si è parlato, a proposito dell’opera deleddiana, di un “naturalismo spirituale”, in cui predomina, sugli elementi oggettivi, il senso dell’occulto e dell’arcano.

Verso le COMPETENZE

COMPRENDERE

1 Riassumi il contenuto del brano in circa 10 righe.


2 Mentre Efix è prossimo a morire, in casa Pintor si preparano le nozze di donna Noemi con don Predu. Come vive il servo questa novità? Quali sono i suoi sentimenti? Rispondi facendo riferimento al testo.


3 Perché donna Ester, trovando Efix morto, si dispera? Che cosa rimprovera a sé stessa?

Analizzare

4 Individua alcune delle similitudini utilizzate dalla narratrice. In quale orizzonte sociale sembrano inserirsi? Come spieghi questa scelta?

Interpretare

5 Dice a un certo punto Noemi a Efix: Su bevi; che vuoi morire scapolo? (r. 84). Quale concezione sociale emerge da questa battuta?


6 È con Ester che don Predu parla per fissare le nozze con Noemi, pur essendo quest’ultima presente. Perché secondo te?


7 Ester, parlando a Efix morto, gli racconta come Noemi piangeva entrando nella sua ricca dimora. E aggiunge: piangeva tanto era felice, sintende (r. 252). Ne siamo proprio sicuri? Come potremmo spiegare altrimenti il pianto della donna?

Produrre

8 Scrivere per confrontare. Il senso di una misteriosa animazione della natura, simile a quello che troviamo in questo brano di Grazia Deledda, è presente anche in molte poesie di Giovanni Pascoli. Facendo riferimento ai testi pascoliani letti, conduci un confronto tra i due autori su tale specifico tema in circa 20 righe.

Vola alta parola - volume 5
Vola alta parola - volume 5
Il secondo Ottocento