Il carattere - La lotta di una donna contro la ruvida faccia del mondo

il CARATTERE

  La lotta di una donna contro la ruvida faccia del mondo

Una giovinezza non felice

Negli anni dell’infanzia e dell’adolescenza, l’arcaica quiete domestica è dominata dalla figura del padre Antonio, verso il quale Grazia dovette avere un importante trasporto, superiore a quello verso la madre, Francesca Cambosu, “angelo del focolare” descritta in Cosima come «melanconica, taciturna, chiusa in un mondo tutto suo», tutta dedita ai figli e alle cose di casa, ma «con una freddezza quasi meccanica», legata per dovere, più che per amore, a «un uomo di venti anni più vecchio di lei, che la circondava di cure, che viveva solo per lei e la famiglia, ma che non poteva darle il piacere e la soddisfazione sensuale dei quali tutte le donne giovani hanno bisogno».

Sempre dalle pagine di Cosima, apprendiamo che la giovinezza della Deledda fu segnata da una ininterrotta catena di sciagure. Il fratello maggiore, Santus, precipita nell’alcolismo sino al delirium tremens. Il secondogenito, Andrea, viene arrestato, anche se per piccoli furti, provocando la morte di crepacuore del padre e la conseguente perdita dell’agiatezza della famiglia. La sorella Giovanna muore di angina in tenera età, e un’altra sorella più grande, Enza, perde la vita a ventun’anni tentando di abortire. Una terza sorella, Beppa, viene invece atrocemente beffata dopo la promessa di fidanzamento fattale da un pretendente “continentale”.

Desiderio di fuga e senso di colpa

In virtù di questa non facile situazione familiare e del clima di generale arretratezza della società isolana del tempo, si comprende facilmente l’anelito alla fuga coltivato sin da giovane dalla scrittrice. Tale desiderio si realizzerà nel 1900 attraverso il matrimonio, ma probabilmente tale scelta non fu vissuta in maniera psicologicamente pacificata: una causa possibile del senso di colpa che aleggia un po’ ovunque nei romanzi deleddiani può essere cercata proprio in questo “peccato di sradicamento”. L’abbandono dell’isola-terra-madre sembra essere stato vissuto dall’autrice come peccato originale del tradimento degli affetti nativi. S’innesca così la necessità dell’espiazione di una supposta indegnità: penitenza da condurre, magari, attraverso la stessa letteratura.

Una personalità schiva

Anche una volta trasferitasi a Roma, Grazia Deledda conduce una vita austera, lontana dalla mondanità salottiera della capitale, chiusa nel ristretto cerchio di famiglia e lavoro. Scrive soltanto, e pubblica romanzi e racconti con una cadenza quasi annuale, in un’esistenza ritiratissima, come se la sua vita di donna non meritasse più di avere uno spazio proprio. Consegnatasi a un uomo, a un marito, costituito il nucleo familiare, la donna che era stata sino a quel momento cede il posto alla sposa, alla madre, alla scrittrice, la quale si proietta con tutto il potere della fantasia nel passato abbandonato con la partenza dalla Sardegna e con il matrimonio. Quando nel 1928 riconobbe i primi segni della malattia (un tumore) che l’avrebbe condotta alla morte, la tenne nascosta a tutti, persino ai suoi figli, senza mai smettere di lavorare, sino alla fine.

Le opere

La prima fase della narrativa deleddiana

Dopo l’esordio del 1892 con il romanzo Fior di Sardegna, la prima notorietà viene alla Deledda dal romanzo Anime oneste (1895), cui seguono, tra gli altri, La giustizia (1898), Elias Portolu (1903), Cenere (1904; da questo romanzo verrà tratto nel 1916 un film di Febo Mari, con l'unica interpretazione cinematografica della grande attrice Eleonora Duse), L’edera (1908), Canne al vento (1913). In questa prima fase della sua opera, di sapore veristico, si trova il motivo dell’ansia di riscatto dal male – riscatto in realtà impossibile – inserito in una visione religiosa e a tratti cupa della vita e sullo sfondo di una rappresentazione, più lirica che realistica, della natura e del paesaggio della sua Sardegna.

In particolare, il romanzo Canne al vento rappresenta bene la sintesi dei temi e dei motivi della prima fase della narrativa deleddiana. Ester, Ruth e Noemi Pintor sono sorelle, discendenti di un nobile casato, ormai economicamente decaduto, del paese di Galte (nel Nuorese c’è un centro di nome Galtellì al quale l’autrice si ispirò). Le tre donne vivono quasi da recluse nell’antica casa in rovina, assistite dall’anziano servo Efix, che coltiva l’ultimo podere rimasto loro degli immensi possedimenti di un tempo. Con la sua devozione alle “padrone” Efix intende espiare la colpa di aver ucciso molti anni prima, seppure involontariamente, il padre delle donne, don Zame: il servo aveva infatti cercato di agevolare la fuga di una quarta sorella, la più giovane, Lia, dalla tirannia del padre, che teneva le figlie segregate in casa affinché non si mischiassero con la gente del paese.

Un giorno, d’improvviso, giunge dal continente Giacinto, il figlio di Lia, rimasto orfano e licenziato per un furto dal suo impiego alle Dogane. Il ragazzo – che Efix inizialmente sperava potesse essere di sostegno alle zie – si rivela invece scioperato e spendaccione, al punto da sperperare un’ingente somma di denaro prestatagli da un’usuraia. Intanto il giovane si innamora di Grixenda, un’umile paesana, ma le zie si oppongono al loro matrimonio; a essere contraria è soprattutto Noemi, morbosamente attratta dal nipote. Questi, per poter ottenere altro denaro, giunge a falsificare su una cambiale le firme delle zie. Morta improvvisamente Ruth, le due sorelle rimaste, per salvare Giacinto, sono costrette a vendere il podere al ricco cugino don Predu, che in questo modo le salva dalla rovina.

Intanto Giacinto ha lasciato il paese per cercare lavoro a Nuoro ed Efix si è messo a vagabondare vivendo di elemosine. Quando l’anziano servo torna al paese apprende che Giacinto sposerà Grixenda, mentre Noemi diventerà moglie di don Predu, sanando così la precaria situazione economica delle Pintor. Ora, finalmente, Efix può morire in pace, proprio il giorno delle nozze di Noemi.

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La seconda fase

Con le novelle della raccolta Chiaroscuro (1912) e con i romanzi successivi – tra i quali La madre (1920), Il segreto dell’uomo solitario (1921), Il Dio dei viventi (1922), Annalena Bilsini (1927), La vigna sul mare (1932), Cosima (romanzo autobiografico uscito postumo nel 1937) – si delineano i tratti distintivi del secondo periodo della scrittrice. Affrancatasi ormai da ogni regionalismo, Grazia Deledda fa suoi certi aspetti della sensibilità e del gusto propri del Decadentismo. Fra gli autori da lei prediletti, del resto, non vi sono soltanto Verga e i veristi, ma anche i romanzieri russi (da Lev Tolstoj a Fëdor Dostoevskij) e Gabriele d’Annunzio.

In una notte di vento, Maddalena scopre che suo figlio, don Paulo, venerato parroco di Aar, ha una relazione con una donna. La madre lo sente uscire e lo segue finché non lo vede entrare in casa di Agnese, una giovane bella e senza parenti. Tornata a casa, la donna decide di aspettare il figlio, ma la sua è un’attesa dolorosa, affollata di pensieri angosciosi e di presenze inquietanti, tra le quali quella del demonio in persona, che assume le sembianze dell’antico parroco di Aar, uomo dissoluto che beveva e bestemmiava, amico dei briganti, che i paesani credono non sia morto ma viva ancora nascosto in una grotta sotto il fiume. Ma la sua fede è forte, è la corazza che la protegge dagli assalti del maligno.

Quando il figlio rincasa, Maddalena trova il coraggio di parlargli. L’uomo, profondamente toccato dalle parole della madre, giura che non tornerà mai più da Agnese. La battaglia spirituale che attende il prete è dura, ma l’uomo ha la forza di resistere alla tentazione. Agnese, però, non si rassegna all’abbandono e minaccia di rivelare a tutti la relazione con il sacerdote, se egli non si allontanerà per sempre dal paese: don Paulo, però, non cede al ricatto. Quando la mattina, salito all’altare per celebrare la Messa, vede che Agnese si è alzata per parlare, sente la sua pena sciogliersi in rassegnazione: se lo scandalo avverrà, esso sarà la giusta punizione per la sua colpa. Agnese si incammina verso l’altare ma a un certo punto, incapace di proseguire, «come se una muraglia le si fosse d’improvviso alzata davanti», cade in ginocchio e tace, Maddalena – che ha assistito a tutta la scena – non regge alla tensione e si accascia a terra, stroncata dalla paura e dal dolore. Il figlio la trova morta in fondo alla chiesa, con i denti ancora stretti nello sforzo di non gridare.

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I grandi temi

1 La Sardegna arcaica

Scriveva una giovane Grazia Deledda: «Avrò tra poco vent’anni; a trenta voglio aver raggiunto il mio radioso scopo quale è quello di creare da me sola una letteratura completamente ed esclusivamente sarda» (lettera a Maggiorino Ferraris, 1890). Effettivamente ci sarebbe riuscita: tramite il suo lavoro artistico, la Sardegna sarebbe entrata a far parte dell’immaginario europeo.

La narrativa della Deledda muove in effetti dal Verismo a fondo regionale e folcloristico: cronache e leggende paesane, storie di passioni elementari e di esseri primitivi costituiscono il materiale di fondo delle sue prove narrative. I personaggi dei suoi primi racconti e romanzi sono i servi pastori delle ▶ tancas, i garzoni delle remote fattorie alle falde del Gennargentu o dell’Ortobene, le operose massaie del Nuorese.

La scrittrice inizia infatti «il suo percorso di formazione nella temperie culturale e morale tipica del villaggio, del microcosmo antropologicamente connotato, con proprie lingue, propri saperi, proprie consuetudini», muovendo «i primi passi dentro una comunità educante i cui tipi, miti e archetipi» diventano per lei quasi subito «fonte di ispirazione e oggetto inesauribile di scrittura» (Manca). Lei stessa, rievocando gli anni della sua formazione, ebbe modo di affermare in un’intervista del 1933: «Ho vissuto coi venti, coi boschi, colle montagne. Ho guardato per giorni, mesi ed anni il lento svolgersi delle nuvole sul cielo sardo. Ho mille e mille volte poggiato la testa ai tronchi degli alberi, alle pietre, alle rocce per ascoltare la voce delle foglie, ciò che dicevano gli uccelli, ciò che raccontava l'acqua corrente. Ho visto l’alba e il tramonto, il sorgere della luna nell’immensa solitudine delle montagne, ho ascoltato i canti, le musiche tradizionali e le fiabe e i discorsi del popolo». Per poi aggiungere: «Così si è formata la mia arte, come una canzone, o un motivo che sgorga spontaneo dalle labbra di un poeta primitivo».

Fin quasi ai trent’anni, del resto, l’autrice aveva vissuto in un mondo in cui superstizione e magia, lungi dall’essere demonizzati (come accade nei contesti urbano-industriali), facevano parte dell’orizzonte quotidiano, all’interno del quale erano pienamente accettate e assorbite. Nell’ambito delle ricerche etnografiche condotte per la “Società italiana del folklore” Grazia Deledda aveva raccolto e studiato molti usi e costumi del Nuorese, con una particolare attenzione ai rituali magici. In un suo articolo intitolato Magie e incantesimi si legge di preti che evocavano diavoli per farsi da loro servire e di sacerdoti che erano anche un po’ maghi, capaci com'erano – nella credenza comune – di disperdere le cavallette, i bruchi, gli insetti e di annientare le epidemie e le pestilenze.

La Sardegna arcaica della Deledda è un ambiente barbarico in cui domina una spiccata tendenza al meraviglioso e al miracolistico. Ponendosi a cavallo tra Verismo e Decadentismo, del resto, l’arte della scrittrice è difficile da collocare in modo univoco nel panorama letterario italiano. Le stesse definizioni di autrice verista o decadente sono problematiche; da una parte, infatti, l’interesse per il folclore e il regionalismo sembra essere l’espressione, più che di un approccio verista, di un romanticismo di fondo, che mira a una rappresentazione lirica di ambienti, paesaggi e personaggi, raffigurati in modo pittoresco e stilizzato come parte di unmondo primitivo e favoloso; sull’altro versante, il suo lirismo deriva da una concezione della vita intrisa disuperstizione,religionee senso dellamagia.

Nell’ultima fase della sua produzione, Grazia Deledda presenta la Sardegna come una sorta di luogo archetipico: la terra del mito diventa metafora di una condizione esistenziale, quella “primitiva”, che la cultura del Novecento cercherà di recuperare come soluzione all’angoscia e al disagio derivanti dal difficile rapporto con la società industriale e dalle conseguenze del progresso scientifico.

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T1

Un grido nella notte

Chiaroscuro

La novella che presentiamo è tratta dalla raccolta Chiaroscuro (1912), un volume importante nel percorso artistico di Grazia Deledda, in quanto segna il parziale superamento dei moduli tardoromantici e veristi, con un più deciso accostamento al gusto decadente. Il racconto di un vecchio sardo rievoca un’esperienza traumatica, ancora segnata dal senso di colpa.

Tre vecchioni a cui l’età e forse anche la consuetudine di star sempre assieme han

dato una somiglianza di fratelli, stanno seduti tutto il santo giorno e quando è bel

tempo anche gran parte della sera, su una panchina di pietra addossata al muro

d’una casetta di Nuoro.

5      Tutti e tre col bastone fra le gambe, di tanto in tanto fanno un piccolo buco per

seppellirvi una formica o un insetto o per sputarvi dentro, o guardano il sole per

indovinare l’ora. E ridono e chiacchierano coi ragazzetti della strada, non meno

sereni e innocenti di loro.

Intorno è la pace sonnolenta del vicinato di Sant’Ussula, le tane di pietra dei

10    contadini e dei pastori nuoresi: qualche pianta di fico si sporge dalle muricce1 dei

cortili e se il vento passa le foglie si sbattono l’una contro l’altra come fossero di

metallo. Allo svolto della strada appare il monte Orthobene grigio e verde fra le

due grandi ali azzurre dei monti d’Oliena e dei monti di Lula.

Fin da quando ero bambina io, i tre vecchi vivevano là, tali e quali sono ancora

15    adesso, puliti e grassocci, col viso color di ruggine arso dal soffio degli anni, i capelli

e la barba d’un bianco dorato, gli occhi neri ancor pieni di luce, perle lievemente

appannate nella custodia delle palpebre pietrose come conchiglie. Una nostra serva

andava spesso, negli anni di siccità, ad attinger acqua ad un pozzo là accanto:

io la seguivo e mentr’ella parlava con questo e con quello come la Samaritana,2 io

20    mi fermavo ad ascoltare i racconti dei tre vecchi. I ragazzi intorno, chi seduto sulla

polvere, chi appoggiato al muro, si lanciavano pietruzze mirando bene al viso, ma

intanto ascoltavano. I vecchi raccontavano più per loro che per i ragazzetti: e uno

era tragico, l’altro comico, e il terzo, ziu3 Taneddu, era quello che più mi piaceva

perché nelle sue storielle il tragico si mescolava al comico, e forse fin da allora io

25    sentivo che la vita è così, un po’ rossa, un po’ azzurra, come il cielo in quei lunghi

crepuscoli d’estate quando la serva attingeva acqua al pozzo e ziu Taneddu, ziu

Jubanne e ziu Predumaria raccontavano storie che mi piacevano tanto perché non

le capivo bene e adesso mi piacciono altrettanto perché le capisco troppo.

Fra le altre ricordo questa, raccontata da ziu Taneddu.

30    – Bene, uccellini, ve ne voglio raccontare una. La mia prima moglie, Franzisca

Portolu, tu l’hai conosciuta, vero, Jubà, eravate ghermanitos,4 ebbene, era una donna

coraggiosa e buona, ma aveva certe fissazioni curiose. Aveva quindici anni appena,

quando la sposai, ma era già alta e forte come un soldato: cavalcava senza sella,

e se vedeva una vipera o una tarantola, eran queste che avevan paura di lei. Fin da

35    bambina era abituata ad andar sola attraverso le campagne: si recava all’ovile di

suo padre sul monte e se occorreva guardava il gregge e passava la notte all’aperto.

Con tutto questo era bella come un’Immagine:5 i capelli lunghi come onda di mare

e gli occhi lucenti come il sole. Anche la mia seconda moglie, Maria Barca, era bella,

tu la ricordi, Predumarì, eravate cugini; ma non come Franzisca. Ah, come Franzisca

40    io non ne ho conosciuto più: aveva tutto, l’agilità, la forza, la salute; era abile

in tutto, capiva tutto; non s’udiva il ronzio d’una mosca ch’ella non l’avvertisse. Ed

era allegra, ohiò,6 fratelli miei; io ho passato con lei cinque anni di contentezza,

come neppure da bambino. Ella mi svegliava, talvolta, quando la stella del mattino

era ancora dietro il monte, e mi diceva:

45    «Su, Tanè, andiamo alla festa, a Gonare, oppure a San Francesco o più lontano

ancora fino a San Giovanni di Mores».

Ed ecco in un attimo balzava dal letto; preparava la bisaccia, dava da mangiare

alla cavalla, e via, partivamo allegri come due gazze sul ramo al primo cantar del

gallo. Quante feste ci siamo godute! Ella non aveva paura di attraversar di notte i

50    boschi e i luoghi impervi; e in quel tempo ricordate, fratelli miei, in terra di Sardegna

cinghialetti a due zampe,7 ohiò! ce n’erano ancora: ma di questi banditi

qualcuno io lo conoscevo di vista, a qualche altro avevo reso servigio, e insomma

paura non avevamo.

Ecco, Franzisca aveva questo ch’era quasi un difetto: non temeva nessuno, era

55    attenta, ma indifferente a tutto. Ella diceva: «Ne ho viste tante, in vita mia, che nulla

più mi impressiona, e anche se vedessi morire un cristiano non mi spaventerei».

E non era curiosa come le altre donne: se nella strada accadeva una rissa, ella non

apriva neanche la porta. Ebbene, una notte ella stava ad aspettarmi, ed io tardavo

perché la cavalla m’era scappata dal podere ed ero dovuto tornare a piedi. Oh dunque

60    Franzisca aspettava, seduta accanto al fuoco poiché era una notte d’autunno

inoltrato, nebbiosa e fredda. A un tratto, ella poi mi raccontò, un grido terribile risuonò

nella notte, proprio dietro la nostra casa: un grido così disperato e forte che

i muri parvero tremare di spavento. Eppure ella non si mosse: disse poi che non

si spaventò, che credette fosse un ubbriaco, che sentì un uomo a correre,8 qualche

65    finestra spalancarsi, qualche voce domandare «cos’è?» poi più nulla.

Io rientrai poco dopo; ma lì per lì Franzisca non mi disse nulla. L’indomani dietro

il muro del nostro cortile fu trovato morto ucciso un giovine, un fanciullo quasi,

Anghelu Pinna, voi lo ricordate, il figlio diciottenne di Antoni Pinna: e per questo

delitto anch’io ebbi molte noie perché, come vi dico, il cadavere del disgraziato ragazzo

70    fu trovato accanto alla nostra casa, steso, ricordo bene, in mezzo a una gran

macchia di sangue coagulato come su una coperta rossa. Ma nessuno seppe mai

nulla di preciso, sebbene molti credano che Anghelu avesse relazioni con una nostra

vicina di casa e che sieno stati i parenti di lei ad ucciderlo all’uscir d’un convegno.9

Basta, questo non c’importa: quello che c’importa è che la perizia provò essere il malcapitato

75    morto per emorragia: aiutato a tempo, fasciata la ferita, si sarebbe salvato.

Ebbene, fratelli miei, questo terribile avvenimento distrusse la mia pace. Mia

moglie diventò triste, dimagrì, parve un’altra, come se l’avessero stregata, e giorno

e notte ripeteva: «se io uscivo e guardavo e alle voci che domandavano rispondevo,

– il grido è stato dietro il nostro cortile, – il ragazzo si salvava…».

80    Diventò un’altra, sì! Non più feste, non più allegria; ella sognava il morto, e alla

notte udiva grida disperate e correva fuori e cercava tremando. Invano io le dicevo:

«Franzisca, ascoltami: sono stato io quella notte a gridare, per provare se ti spaventavi.

Un caso disgraziato ha voluto che nella stessa notte accadesse il delitto: ma

l’infelice non ha gridato e tu non hai da rimproverarti nulla».

85    Ma ella s’era fissata in mente quell’idea, e deperiva, sebbene per farmi piacere

fingesse di credere alle mie parole, e non parlasse più del morto. Così passò un

anno; ero io adesso a volerla condurre alle feste e a divagarla.10 Una volta, due anni

circa dopo la notte del grido, la condussi alla festa dei santi Cosimu e Damianu,

dove una famiglia amica ci invitò a passare qualche giornata assieme.

90    La sera della festa ci trovavamo tutti nello spiazzo davanti alla chiesetta. Era agli

ultimi di settembre ma sembrava d’estate, la luna illuminava i boschi e le montagne,

e la gente ballava e cantava attorno ai fuochi accesi in segno d’allegria. A un

tratto mia moglie sparì ed io credetti ch’ella fosse andata a coricarsi, quando la

vidi uscir correndo di chiesa, spaventata come una sonnambula che si sia svegliata

95    durante una delle sue escursioni notturne.

«Franzisca, agnello mio, che è stato, che è stato?».

Ella tremava, appoggiata al mio petto, e volgeva il viso indietro, guardando

verso la porta della chiesa.

La trascinai dentro la capanna, l’adagiai sul giaciglio, e solo allora ella mi raccontò

100 che era entrata nella chiesetta per pregare pace all’anima del povero Anghelu

Pinna quando a un tratto, uscite di chiesa alcune donnicciuole di Mamojada, si

trovò sola, inginocchiata sui gradini ai piedi dell’altare.

«Rimasi sola», ella raccontava con voce ansante, aggrappandosi a me come una

bambina colta da spavento. «Continuai a pregare, ma all’improvviso sentii un sussurro

105 come di vento e un fruscio di passi. Mi volsi, e nella penombra, in mezzo alla

chiesa, vidi un cerchio di persone che ballavano tenendosi per mano, senza canti,

senza rumore; erano quasi tutti vestiti in costume, uomini e donne, ma non avevano

testa. Erano i morti, maritino mio, i morti che ballavano! Mi alzai per fuggire,

ma fui presa in mezzo, due mani magre e fredde strinsero le mie… ed io dovetti

110 ballare, maritino mio, ballare con loro. Invano pregavo e mormoravo:


Santu Cosimu abbocadu,

ogademinche dae mesu…11


quelli continuavano a trascinarmi ed io continuavo a ballare. A un tratto il mio

ballerino di destra si curvò su di me, e sebbene egli non avesse testa, io sentii distintamente

115 queste parole:

«Lo vedi, Franzì? Anche tu non hai badato al mio grido!».

Era lui, marito mio, il malcapitato fanciullo. Da quel momento non ci vidi più.

Ecco il momento, pensavo, adesso mi trascinano all’inferno. È giusto, è giusto, pensavo,

perché io vivevo senza amore del prossimo e non ho ascoltato il grido di chi moriva.

120 Eppure sentivo una forza straordinaria; mentre, continuando a ballare, sfioravamo

la porta, riuscii a torcere fra le mie le mani dei due fantasmi e mi liberai e fuggii;

ma Anghelu Pinna mi rincorse fino alla porta e tentò di afferrarmi ancora: egli però

non poteva metter piedi fuori del limitare, mentre io l’avevo già varcato. Il lembo della

mia tunica gli era rimasto in mano; per liberarmi io slacciai la tunica, gliela lasciai e

125 fuggii. Marito mio bello, io muoio… io muoio… Quando sarò morta ricordati di far

celebrare tre messe per me e tre per il povero Anghelu Pinna… E va a guardare se trovi

la mia tunica, prima che i morti me l’abbiano ridotta in lana scardassata».12

Sì, uccellini, – concluse il vecchio zio Taneddu – mia moglie delirava; aveva la

febbre, e non stette più bene e morì dopo qualche mese, convinta di aver ballato

130 coi morti, come spesso si sente a raccontare: e, cosa curiosa, un giorno un pastore

trovò davanti alla porta di San Cosimo un mucchio di lana scardassata, e molte

donne credono ancora che quella fosse la lana della tunica di mia moglie, ridotta

così dai morti.

Sì, ragazzini, che state lì ad ascoltarmi con occhi come lanterne accese, il fatto

135 è stato questo: e quel che è più curioso, sì, ve lo voglio dire, è che il grido lo feci io

davvero, quella notte, per provare se mia moglie era indifferente com’essa affermava.

Quando essa fu morta feci dire le messe, ma pensavo anch’io: se non gridavo,

quella notte malaugurata, mia moglie non moriva. E mi maledicevo, e gridavo a

me stesso: che la giustizia t’incanti,13 che i corvi ti pilucchino14 gli occhi come due

140 acini d’uva, va alla forca, Sebastiano Pintore, tu hai fatto morir tua moglie…

Ma poi tutto passò: dovevo morire anch’io? Eh, fratelli miei, ragazzini miei, e

tu, occhi di lucciola, Grassiedd’ ’Elè, che ne dite? Non ero una donnicciuola, io, e

d’altronde morrò lo stesso, quando zio Cristo Signore Nostro comanda…

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Dentro il TESTO

I contenuti tematici

La moglie di ziu Taneddu, Franzisca, sembra essere impazzita a causa del senso di colpa: se avesse risposto al grido di Anghelu Pinna, accorrendo in suo aiuto, forse il ragazzo non sarebbe morto dissanguato (io vivevo senza amore del prossimo e non ho ascoltato il grido di chi moriva, rr. 119-120). La sua visione dei morti che ballano dentro la chiesa e che la costringono a partecipare alla macabra danza viene appunto interpretata da Taneddu, in modo rassicurante, come un delirio (Sì, uccellini, […] mia moglie delirava, r. 128). Tuttavia, il ritrovamento di un mucchio di lana scardassata (r. 131) davanti alla porta della chiesa rappresenta un particolare inquietante, interpretabile come una prova della veridicità dell’esperienza riferita dalla donna.

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Le scelte stilistiche

Nella novella è possibile cogliere i tratti peculiari dell’ispirazione artistica della Deledda: da una parte una rappresentazione dai contorni realistici, erede della tradizione regionalistica verista; dall’altra il senso di inquietudine che attraversa la narrazione, più vicino alla sensibilità decadente. In realtà, come si è detto, il Verismo deleddiano è più formale che sostanziale: nel quadretto che raffigura i tre vecchi seduti sulla panchina a raccontare storie, infatti, è ravvisabile un intento bozzettistico più che la volontà di proporre una descrizione realistica; analogamente, nel racconto di ziu Taneddu la descrizione dell’ambiente sardo e dei suoi tipi, resi con un’attitudine folclorica, non risponde a un intento documentario, dando piuttosto vita a un’atmosfera magica e fiabesca. Più che da Verga e dagli altri maestri del Verismo, infatti, la Deledda è influenzata dal gusto per il barbaro e per il primitivo del primo d’Annunzio (quello di Terra vergine e delle Novelle della Pescara); di qui l’attenzione della scrittrice per gli aspetti selvaggi, passionali e patriarcali della sua Sardegna e, sul piano dello stile, una tensione favolistica che trasfigura in chiave fantastica le espressioni concrete della vita popolare, interpretate più alla luce di una visione magica dell’esistenza che con gli occhi della Storia.

Verso le COMPETENZE

Comprendere

1 Come viene descritto, all’inizio, il carattere di Franzisca? In seguito a quale fatto esso muta radicalmente?


2 Con quale argomento Taneddu cerca di consolare la moglie? Perché lei non gli crede?


3 Perché il ritrovamento di un mucchio di lana scardassata (r. 131) davanti alla porta della chiesa di San Cosimo potrebbe essere la prova della veridicità del ballo dei morti riferito da Franzisca?

ANALIZZARE

4 Individua le similitudini e le metafore presenti nella novella. A quale campo semantico appartengono?


5 Come definiresti il tessuto lessicale del testo? Più letterario o più gergale? In che modo queste due componenti entrano qui in reciproca relazione?


6 Individua nel racconto di ziu Taneddu le espressioni che contribuiscono a conferirgli un tono colloquiale.

INTERPRETARE

7 I racconti e i romanzi di Grazia Deledda narrano spesso di passioni forti e distruttive. In quali elementi della trama di questa novella possiamo cogliere tale aspetto?


8 Il motivo tipicamente deleddiano della colpa non riguarda solo Franzisca ma, come si scopre alla fine del testo, anche Taneddu. Tuttavia, tale senso di colpa è vissuto dai due personaggi in modo radicalmente diverso e con conseguenze opposte. Perché?

Produrre

9 Scrivere per argomentare. In quale personaggio, secondo te, si rispecchia maggiormente l’autrice? Rispondi in un testo argomentativo di circa 20 righe.

Vola alta parola - volume 5
Vola alta parola - volume 5
Il secondo Ottocento