2.1 Una complessa partita diplomatica

Per riprendere il filo…

All’inizio del Novecento, le classi dirigenti del Vecchio continente erano orgogliose dei progressi tecnici e scientifici compiuti dalle loro società e si sentivano investite di una missione di “civilizzazione” globale. Nel primo decennio del secolo, tuttavia, le tensioni erano andate crescendo e le grandi potenze avevano avviato vasti programmi di riarmo, nella prospettiva che un conflitto generale fosse sempre possibile. La tenuta del sistema internazionale era stata incrinata dalla guerra russo-giapponese del 1904-05, seguita dalla rivoluzione nell’Impero russo, dalle crisi marocchine del 1905 e del 1911, dall’annessione austro-ungarica della Bosnia-Erzegovina, dalla rivoluzione dei Giovani turchi del 1908, dall’attacco italiano all’Impero ottomano e dalle due guerre balcaniche del 1912 e 1913. In tutti questi conflitti e nelle varie forme di nazionalismo che essi alimentarono, si trovano alcune delle principali cause che condussero alla crisi dell’estate del 1914 e allo scoppio di una guerra di proporzioni globali.

2.1 Una complessa partita diplomatica

La “Grande guerra”
 Passato alla storia con la denominazione di Prima guerra mondiale, per i contemporanei il conflitto iniziato nel 1914 fu semplicemente la “Grande guerra”. Esso chiuse un periodo di pace di oltre quarant’anni, seguito alla guerra tra la Francia di Napoleone III e la Confederazione germanica del Nord (1870-71). L’ultimo conflitto che aveva coinvolto tutte le grandi potenze europee risaliva all’età di Napoleone I e si era concluso addirittura un secolo prima, nel 1815. Non stupisce quindi che in Europa, nell’estate del 1914, quasi nessuno si aspettasse lo scoppio di un conflitto di tipo completamente nuovo per durata, vastità e brutalità. Militari, politici, intellettuali e giornalisti europei erano tutt’al più convinti che la guerra sarebbe stata breve e avrebbe inaugurato una nuova era di pace. Le loro previsioni si rivelarono completamente sbagliate.

L’attentato di Sarajevo
A Sarajevo, il 28 giugno 1914, il giovane studente serbo-bosniaco Gavrilo Princip uccise con un colpo di pistola l’erede al trono austro-ungarico, l’arciduca Francesco Ferdinando, che si trovava in visita nel capoluogo della Bosnia-Erzegovina con la moglie Sofia [ 1]. Princip apparteneva a una società segreta di cospiratori nazionalisti che si riteneva collegata ai vertici militari dello Stato serbo. La “Mano Nera”, come veniva chiamata, aveva già compiuto numerosi attentati terroristici per colpire la credibilità delle autorità imperiali e fomentare moti nazionalisti. L’annessione formale della Bosnia-Erzegovina all’Impero austro-ungarico, avvenuta nel 1908, non era mai stata accettata dalla Serbia, la quale si era perciò trasformata nello Stato catalizzatore del risentimento antiasburgico della regione. Inoltre, il nazionalismo serbo tendeva a intrecciarsi con lo iugoslavismo, il movimento che aspirava a riunire sotto uno stesso Stato tutti gli slavi del Sud, ossia serbi, sloveni, croati, bosniaci, montenegrini e macedoni.
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Le cause immediate della Grande guerra, riconducibili alle vicende dell’estate 1914, si intrecciarono dunque a questioni di più lungo periodo. Da una parte, in particolare, l’attentato di Sarajevo si inserì nel contesto di crisi, ormai cronica, che la lenta ritirata dell’Impero ottomano dai Balcani e la conseguente formazione di nuovi Stati nazionali alimentava da decenni [▶ cap. 1.7]. Dall’altra, l’evento del 28 giugno 1914 scatenò una catena di reazioni che furono il risultato di trattati, alleanze e impegni formali fra Stati, ma anche la conseguenza di calcoli rischiosi e improvvisati che avrebbero condotto l’Europa e il mondo dalla pace alla guerra, nel giro di un mese.

La crisi tra Impero austro-ungarico e Serbia
La questione riguardò inizialmente l’Impero austro-ungarico e il suo principale alleato, l’Impero tedesco. Da tempo l’Impero austro-ungarico cercava di contenere i diversi movimenti nazionalisti che, pur essendo cresciuti nel suo quadro legale, ne minacciavano la stabilità. Perciò, Vienna volle impartire una severa lezione alla Serbia, che era sospettata di aver sostenuto l’iniziativa di Princip. Il 23 luglio fu quindi consegnato ai serbi un  ultimatum in cui era prevista, tra le altre clausole, la partecipazione di funzionari austriaci a una commissione d’inchiesta per accertare le responsabilità dell’attentato del 28 giugno. Questa condizione, che la Serbia doveva accettare entro 48 ore, ledeva profondamente la sua sovranità, motivo per cui il rifiuto era inevitabile. Pur temendo che l’Impero russo potesse intervenire a fianco della Serbia, suo principale alleato balcanico, il 28 luglio gli austro-ungarici decisero di procedere comunque alla mobilitazione delle forze armate, con l’appoggio del cancelliere tedesco Bethmann Hollweg e dell’imperatore Guglielmo II. A questo punto la situazione sfuggì al controllo dei vertici politici e degli stati maggiori dell’esercito.

Contrasti fra potenze
Gli eventi di luglio si inserivano in un contesto geopolitico europeo ed extraeuropeo nel quale le questioni aperte, che preannunciavano conflitti potenziali o già attuali, erano molte. L’Impero tedesco di Guglielmo II, forte di una straordinaria ascesa economica e dotato di una solida tradizione militare, ambiva a una politica di conquista mondiale, in quanto privo di importanti possedimenti coloniali. La Repubblica francese, influenzata dal nazionalismo del suo presidente Raymond Poincaré, coltivava il sogno di recuperare l’Alsazia e la Lorena (le terre di frontiera annesse dall’Impero tedesco a seguito della guerra franco-tedesca nel 1870-71). L’Impero russo di Nicola II mirava a porre sotto il proprio controllo gli stretti del Bosforo e dei Dardanelli: il suo coinvolgimento nelle questioni balcaniche e la sua rotta di collisione con l’Impero ottomano e con quello austro-ungarico derivavano da questo progetto geopolitico di lungo periodo. L’Impero britannico, infine, intendeva conservare il dominio dei mari, in funzione dei rapporti con le sue colonie e in crescente antagonismo con le aspirazioni di potenza tedesche. La nuova crisi balcanica del luglio 1914 fu percepita come l’opportunità per risolvere tale insieme di questioni.

2.2 Le prime fasi del conflitto

L’effetto domino
Nel precipitare della crisi svolsero un ruolo chiave le alleanze internazionali vigenti, che produssero un effetto domino tale da coinvolgere, una dopo l’altra, quasi tutte le potenze europee. L’Impero austro-ungarico era legato all’Impero tedesco e al Regno d’Italia dalla Triplice Alleanza, che prevedeva un immediato coinvolgimento dei contraenti laddove uno di loro fosse stato attaccato. Tuttavia, a seguito della neutralità italiana, proclamata, come vedremo a breve, il 2 agosto, la “Triplice” si ridusse all’alleanza degli Imperi austro-ungarico e tedesco, detti Imperi centrali. Sull’altro fronte, Francia, Impero russo, Impero britannico erano vincolate dalla Triplice Intesa, che non costituiva però un’alleanza formalizzata, ma la risultante di alleanze bilaterali tra loro separate [ 2].
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La Serbia accettò in larga misura l’ultimatum imposto da Vienna, ma respinse la clausola sulla partecipazione di funzionari austro-ungarici alla commissione d’inchiesta sull’attentato. Per tutta risposta, l’Impero austro-ungarico dichiarò guerra alla Serbia il 28 luglio. In risposta a questo evento l’Impero russo procedette alla mobilitazione totale dell’esercito il 31 luglio. Qualche ora dopo fu la volta della mobilitazione generale tedesca, che si tradusse in dichiarazione di guerra all’Impero russo il 1° agosto. Di conseguenza, il 2 agosto la Francia proclamò la mobilitazione contro l’Impero tedesco, il quale a sua volta dichiarò guerra alla Francia il 3 agosto. La notte fra il 3 e il 4 agosto, le truppe tedesche occuparono il Lussemburgo e penetrarono in Belgio, Stato neutrale. L’Impero britannico, fino ad allora incerto su come agire, si schierò a difesa della neutralità belga, proclamando guerra all’Impero tedesco il 4 agosto. Se la partecipazione dell’Impero tedesco e di quello russo trasformò la crisi balcanica in una crisi europea, l’ingresso in guerra dell’Impero britannico fece della guerra europea una guerra mondiale.

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In difesa della patria
Alla partenza delle truppe per il fronte, le capitali europee furono investite da un’ondata di nazionalismo alimentata dalle correnti culturali irrazionaliste e vitaliste che si erano diffuse nei decenni precedenti [▶ cap. 0.3] e che aspiravano a restituire nuova energia alle “decadenti” società borghesi. In questo senso giocarono un ruolo rilevante molti intellettuali, che si mobilitarono per la difesa della “patria”.

Questo clima pervase tutta la società, travolgendo persino la Seconda Internazionale socialista, che in nome del pacifismo e della solidarietà di classe fra i lavoratori aveva più volte ribadito la propria opposizione di principio alla guerra come strumento di risoluzione delle controversie tra Stati, impegnandosi a convocare uno sciopero generale laddove si fosse profilato l’aprirsi di un conflitto europeo. I socialisti di quasi tutti i paesi aderirono invece al patriottismo dominante e si schierarono a fianco dei propri governi nazionali. Il 31 luglio l’assassinio, avvenuto per mano di un militante nazionalista, del capo del partito socialista francese Jean Jaurès, notoriamente impegnato per la soluzione pacifica della crisi, divenne l’emblema degli eventi in corso. Un Congresso unitario dell’Internazionale, da tempo programmato prima a Vienna e poi a Parigi per la fine di luglio, non fu mai convocato. Il Partito socialdemocratico tedesco votò i  crediti di guerra al Reichstag il 4 agosto, avvallando di fatto l’ingresso nel conflitto e decretando in pratica la fine della Seconda Internazionale. Il Partito socialista francese rispose con l’adesione all’Union sacrée, un’alleanza che riuniva tutte le forze politiche a sostegno dell’intervento militare della Francia.

Dalla guerra di movimento...
Nell’arco di alcune settimane, grazie soprattutto a un uso massiccio delle reti ferroviarie che attraversavano ormai molte regioni d’Europa, furono mobilitati milioni di uomini. Tra i due schieramenti nemici – gli Imperi centrali e l’Intesa – vennero aperti tre principali fronti di guerra [ 3].
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Sul versante balcanico l’Impero austro-ungarico preparò la spedizione punitiva contro la Serbia. Le difficoltà incontrate dall’esercito asburgico furono tuttavia superiori alle previsioni e le truppe serbe riuscirono a respingere il nemico fuori dai confini nazionali.

Sul versante occidentale fu invece l’Impero tedesco ad assumere l’iniziativa militare, attaccando il Belgio, che pure si era dichiarato neutrale, per farsi strada verso la Francia. Fin dal 1905, il capo di Stato maggiore dell’esercito tedesco, Alfred von Schlieffen (1833-1913), ossessionato dalla prospettiva dell’accerchiamento del paese, aveva elaborato un piano per evitare il rischio di una guerra su due fronti, a est e a ovest. Il piano Schlieffen prevedeva che si compisse un’agile manovra, incurante della neutralità dei Paesi Bassi e del Belgio, per conquistare rapidamente la Francia e poter poi rivolgere tutte le truppe contro l’Impero russo. I tedeschi penetrarono rapidamente nella regione francese della Champagne, puntando direttamente sulla capitale Parigi. Tuttavia, quando l’esito dell’invasione sembrava ormai segnato, i francesi fermarono l’avanzata tedesca nella battaglia della Marna [ 4] (un affluente della Senna), a metà settembre, portando a un assestamento del fronte.

Sul versante orientale la guerra era combattuta su spazi più ampi e fu caratterizzata, almeno all’inizio, da una maggiore mobilità rispetto al fronte occidentale. Dopo una serie iniziale di rovesci, sul finire di agosto le truppe tedesche riuscirono a consolidare, grazie alla battaglia di Tannenberg [ 5] e a quella dei laghi Masuri, le proprie posizioni nella Prussia orientale. I russi invece sfondarono nella Galizia asburgica, costringendo gli austro-ungarici a una battaglia difensiva, finché l’intervento tedesco non consentì, anche qui, di stabilizzare il fronte: in particolare, una lunga battaglia si svolse intorno alla fortezza di Przemyśl, nella Galizia meridionale, assediata dai russi dal settembre 1914 al marzo 1915.

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… alla guerra di posizione
 Sul fronte occidentale, a metà settembre gli scontri giunsero a una situazione di stallo e la guerra di movimento, nel corso dell’autunno, si andò trasformando in guerra di posizione, cioè combattuta da postazioni statiche, senza significativi spostamenti di truppe. Le prime avanzate, modellate sulle tattiche ottocentesche, erano state condotte con la cavalleria e con la fanteria dotata di baionetta, ma le ingentissime perdite di uomini sotto il fuoco delle artiglierie avevano indotto a rivedere le modalità di combattimento. Dal Mare del Nord fino al massiccio del Giura (Svizzera), attraverso le Fiandre, si cominciò a scavare sui fronti contrapposti un lungo reticolo di trincee [ 6], costituite da camminamenti e rifugi. Nello spazio fra le opposte trincee si veniva a creare una “terra di nessuno”, sconvolta dalle bombe e attraversata dal filo spinato.

Con la stabilizzazione dei fronti assunsero un ruolo preminente le artiglierie, che martellavano le posizioni avversarie preparando gli assalti delle rispettive fanterie. Tuttavia, le diverse linee di trincea, disposte l’una dietro l’altra, consentivano il ripiegamento delle forze più esposte agli attacchi e rendevano inutili quasi tutti i tentativi di sfondamento. La ripetizione di questi assalti decimò le truppe di tutti gli eserciti e fu oggetto di crescenti critiche alle strategie delle alte gerarchie militari. Neppure l’uso di armi nuove [ 7] e dagli effetti devastanti, come i gas sperimentati dai tedeschi a Ypres nell’aprile del 1915, consentì di sbloccare la situazione.

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2.3 L’Italia in guerra

L’Italia verso la guerra
All’inizio di agosto del 1914, il Regno d’Italia, pur essendo ufficialmente legato agli Imperi tedesco e austro-ungarico, proclamò la propria neutralità perché considerava la Triplice Alleanza un patto di tipo difensivo. Inoltre, il governo italiano, che non era stato informato dell’ultimatum alla Serbia, imputava agli Imperi centrali di aver violato gli accordi. In realtà, la scelta della neutralità era motivata soprattutto dall’impreparazione tecnico-militare italiana, dal timore di rivolte sociali e, infine, da un’opinione pubblica in cui vi erano forti posizioni antiaustriache e irredentiste. Dal punto di vista ideologico, prima ancora che geopolitico, l’adesione italiana alla Triplice Alleanza era apparsa sempre contraddittoria ed era stata fonte di ricorrenti tensioni. Nell’immaginario collettivo italiano, infatti, l’Impero austro-ungarico incarnava il nemico storico dell’Italia risorgimentale, l’ostacolo che impediva il completamento dell’unificazione nazionale con Trento e Trieste.

A differenza degli altri paesi, dove la scelta della guerra – pur influenzata da un’opinione pubblica sempre più nazionalista – era maturata nelle alte sfere delle forze armate e dei governi, l’intervento italiano divenne materia di un infuocato dibattito pubblico che si protrasse dall’autunno 1914 fino al maggio del 1915.
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Pro e contro l’intervento
Come nelle altre società europee, anche in quella italiana – in particolare nelle campagne – la popolazione era in maggioranza ostile all’idea della guerra, vista alla stregua di una catastrofe naturale che avrebbe mietuto vittime tra i più deboli e avrebbe allontanato i contadini dal lavoro dei campi. Una forte avversione alla guerra proveniva inoltre dagli ambienti cattolici, che, pur presentando posizioni eterogenee, erano inclini al neutralismo o per ragioni di principio – un atteggiamento pacifista ispirato in particolare dal nuovo papa Benedetto XV (1914-22) – o in considerazione dei buoni rapporti tradizionalmente tenuti con la corte austriaca.

La contrarietà a un intervento dell’Italia in guerra prevaleva anche in parlamento, dove la maggioranza parlamentare giolittiana aveva un orientamento neutralista. Decisamente ostile alla guerra – diversamente dagli altri partiti socialisti europei – era anche il Partito socialista italiano che, tuttavia, si rivelò sostanzialmente incapace di mobilitare un’opposizione attiva, preferendo adottare una politica di equidistanza sintetizzata dal motto «né aderire, né sabotare».

A spingere per l’entrata in guerra c’era invece una minoranza attiva e ben organizzata, concentrata soprattutto nei centri urbani e comprendente posizioni politiche variegate ma tutte unite dall’avversione per il sistema politico giolittiano. Anche le grandi testate nazionali, in particolare il Corriere della Sera, si fecero portavoce di posizioni interventiste.

Agli interventisti democratici (come Gaetano Salvemini o Ivanoe Bonomi) interessava la sconfitta del militarismo prussiano, il trionfo della democrazia francese e il coronamento degli ideali risorgimentali ricapitolati dalla formula «Trento e Trieste». I nazionalisti (come Luigi Federzoni o Enrico Corradini) aspiravano invece a una guerra di espansione e conquista che andasse ben al di là dei tradizionali obiettivi irredentisti. Vicini a queste posizioni erano i principali gruppi industriali (come l’Ansaldo e la Breda), che contavano sui proventi delle commesse statali per la produzione bellica. Tra questi due gruppi si poneva infine una corrente eterogenea di interventisti – sindacalisti rivoluzionari, anarchici, futuristi – che guardavano alla guerra come evento capace di avviare una rivoluzione interna, essenzialmente rivolta contro la democrazia giolittiana, ma anche contro la società borghese. Gli intellettuali che facevano capo a questi gruppi ricorrevano spesso a immagini truci e minacciose per esaltare la guerra, «un caldo bagno di sangue nero», come disse lo scrittore Giovanni Papini in un noto editoriale intitolato Amiamo la guerra. Con gli interventisti rivoluzionari si schierò anche il direttore del quotidiano socialista l’Avanti!, Benito Mussolini, che nell’ottobre 1914 passò da una posizione neutralista a una interventista.

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Il patto di Londra e l’entrata in guerra

Anche se la Triplice Alleanza con gli Imperi tedesco e austro-ungarico era ancora in vigore, la diplomazia italiana si avvicinò all’Intesa alla ricerca di interlocutori più attenti alle sue richieste. Nonostante le prevalenti posizioni neutraliste nella società e nel parlamento [ 8], il 26 aprile 1915 il presidente del Consiglio Antonio Salandra e il ministro degli Esteri Sidney Sonnino firmarono a Londra un patto segreto con Francia e Regno Unito, con cui l’Italia si impegnava a dichiarare guerra all’Impero austro-ungarico in cambio di ampie ricompense territoriali. In particolare, si riconosceva all’Italia il diritto di annettere le “terre irredente” Trento e Trieste, Gorizia, l’intera penisola istriana, la Dalmazia settentrionale (comprese Zara e Sebenico) e, nel quadro di un riassetto dell’Albania, Valona.

L’intervento in guerra doveva avere l’approvazione del parlamento, in cui prevalevano, come si è detto, posizioni neutraliste: per forzare la decisione parlamentare, interventisti e nazionalisti organizzarono una serie di agitazioni di piazza, durante le quali avvennero violenti scontri. Nelle cosiddette “radiose giornate” di maggio ebbe un ruolo preminente il poeta Gabriele D’Annunzio, autore di un famoso discorso a favore della guerra pronunciato il 5 maggio sullo scoglio di Quarto, vicino a Genova, dove si inaugurava un monumento dedicato alla spedizione garibaldina dei Mille [ 9]. A Roma, fra il 13 e il 16 maggio, gli scontri di piazza provocarono un clima di tensione e intimidazione nei confronti dei deputati neutralisti. In opposizione alla maggioranza parlamentare neutralista, il governo Salandra annunciò le sue dimissioni, che furono però respinte dal re Vittorio Emanuele III. A quel punto, per evitare una pericolosa crisi istituzionale, il parlamento fu forzato ad approvare l’intervento e i relativi crediti di guerra.

Il 24 maggio le truppe italiane oltrepassarono il Piave e attaccarono le linee nemiche sul Carso e in Trentino. L’Italia entrava in guerra sul fronte opposto a quello che avrebbe dovuto scegliere in base alle alleanze prebelliche.

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2.4 I fronti di guerra del 1915-16

Il fronte occidentale
Considerato cruciale per le sorti della guerra perché teatro dello scontro fra le maggiori potenze militari, tra il 1915 e il 1916 il fronte occidentale si mosse solo di 8 chilometri [ 10]. Una serie di sanguinose battaglie dimostrò quanto fosse inutile la continua sequenza di offensive e controffensive. La battaglia di Ypres, che si combatté dall’ottobre 1914 all’aprile 1918 in quattro fasi diverse, non segnò mai significativi mutamenti del fronte. La battaglia di Verdun (febbraio-dicembre 1916), che cominciò con un’offensiva tedesca e coinvolse per la prima volta cospicue forze britanniche sul territorio francese, costò la vita a oltre 800 000 soldati [ 11]. La battaglia della Somme (luglio-novembre 1916), che costituì la prima operazione condotta congiuntamente dalle forze francesi e da quelle britanniche, fu uno degli scontri più sanguinosi di tutti i tempi, con oltre 1 200 000 vittime tra morti, feriti e dispersi. Anche nella battaglia dello Chemin des Dames del 1917 (aprile-ottobre), persero la vita centinaia di migliaia di soldati francesi, inglesi e tedeschi. Un fante tedesco scrisse da Verdun: «Non puoi in nessun modo immaginare questo orrore. Non può nessuno, che non l’abbia attraversato».

Il fronte italo-austriaco e la Strafexpedition
Fin da subito, il teatro di guerra italo-austriaco riprodusse la natura statica del fronte occidentale, pur in uno scenario geografico più complesso, caratterizzato dalla presenza di altopiani e montagne. La tattica degli italiani, analoga a quella usata dai francesi e dai tedeschi, consisteva in bombardamenti su vasta scala che precedevano l’avanzata delle truppe.

La prima offensiva, guidata dal generale Luigi Cadorna, si doveva svolgere lungo tre direttrici: quella principale sul fronte del fiume Isonzo, tesa a muovere verso Gorizia; quelle secondarie verso il Cadore e la Carnia e verso il Trentino. Le dodici battaglie dell’Isonzo, che furono combattute tra il maggio 1915 e l’ottobre 1917, si risolsero però in enormi perdite di vite umane a fronte di irrilevanti acquisizioni territoriali. Solo approfittando di un trasferimento di forze austro-ungariche dal fronte orientale in direzione del Trentino, nell’agosto del 1916 le truppe italiane conquistarono Gorizia (nel corso della sesta battaglia dell’Isonzo), senza tuttavia riuscire a sfondare il fronte.

Furono invece le truppe austro-ungariche a cercare di sbloccare il logorante equilibrio militare. Nel maggio-giugno 1916, sull’Altopiano di Asiago, lanciarono la Strafexpedition (“spedizione punitiva”) che doveva punire gli italiani per il tradimento della Triplice Alleanza. Nonostante l’intenso fuoco di artiglieria e gli aspri combattimenti che costarono la vita a oltre 230 000 soldati sui due fronti, i rapporti di forza rimasero inalterati [ 12]

Nel maggio 1916, l’insoddisfazione per i risultati delle campagne militari italiane costrinse il presidente del Consiglio Salandra alle dimissioni e il governo venne affidato a Paolo Boselli.

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Il fronte orientale
Fu invece il fronte orientale a continuare a registrare significativi spostamenti territoriali e grandi battaglie campali. Le truppe tedesche cercarono di alleggerire la pressione su quelle austro-ungariche con un piano di sfondamento del fronte russo tra l’alta Vistola e i Carpazi, che si concluse con una delle più importanti vittorie tedesche nella guerra, a Gorlice, in Galizia (maggio 1915). Dopo aver conquistato l’intera Galizia fino a Leopoli, le truppe tedesche avanzarono nei territori oggi corrispondenti a Polonia, Lituania e Bielorussia, occupando Varsavia all’inizio di agosto. Intanto nei Balcani, anche grazie all’ingresso in guerra della Bulgaria a fianco degli Imperi centrali, le truppe austro-ungariche riuscirono a sottomettere la Serbia. Dopo la pausa invernale, nel giugno-settembre 1916 le truppe russe al comando del generale Brusilov condussero una controffensiva su vasta scala che inflisse severe perdite alle difese austro-ungariche in Galizia, costringendo l’Impero tedesco a sospendere l’offensiva su Verdun e a spostare truppe dal fronte occidentale a quello orientale: fu una delle battaglie più sanguinose della storia (oltre un milione e mezzo di morti). Nondimeno, le perdite subite dall’esercito russo e le crescenti difficoltà economiche, sociali e politiche sul  fronte interno affievolirono gradualmente l’impeto dell’azione di Brusilov. Così, nonostante lo schieramento inatteso della Romania a fianco dell’Intesa (agosto 1916), l’esercito tedesco, intervenuto a sostegno di quello austro-ungarico, fu in grado di riequilibrare la situazione, arrivando a conquistare Bucarest in dicembre; era ormai evidente che l’Impero austro-ungarico, soprattutto dopo la morte dell’imperatore Francesco Giuseppe (novembre 1916), suo principale riferimento politico e simbolico, dipendeva sempre più strettamente dall’appoggio militare e logistico dell’Impero tedesco.

In tutti questi lunghi mesi di guerra nessuno dei governi belligeranti osò fare scelte che avrebbero accelerato il ritorno della pace, ma che avrebbero vanificato il sacrificio di milioni di soldati caduti al fronte. Fu soprattutto l’imperatore asburgico Carlo I, succeduto a Francesco Giuseppe, a sondare la possibilità di aprire trattative di pace, ma i tentativi di negoziato fallirono. A partire dal 1917 fu chiaro che l’unica soluzione del conflitto era di natura militare.

La guerra nelle periferie degli imperi
Le grandi potenze che si contrapponevano in Europa agivano sullo scacchiere internazionale non come semplici Stati nazionali, ma come imperi che disponevano di vasti possedimenti coloniali in Africa e in Asia: era dunque pressoché inevitabile un coinvolgimento delle colonie nel conflitto. L’esercito britannico fu in grado di occupare gran parte dei territori dell’Impero tedesco in Africa orientale, pur senza annullare del tutto la presenza tedesca. Inoltre, con l’ingresso in guerra dell’Impero ottomano a fianco degli Imperi centrali, già nell’ottobre 1914, il Medio Oriente divenne un importante teatro di operazioni belliche. Nell’aprile del 1915 le forze britanniche sbarcarono a Gallipoli, sullo stretto dei Dardanelli, con l’intenzione di conquistare Costantinopoli, ma fallirono l’obiettivo.

Nei due anni successivi, mentre il giovane avventuriero inglese Thomas Lawrence (1888-1935) [ 13] chiamava le tribù arabe alla rivolta contro il sultano, le truppe dell’Intesa si concentrarono in zone periferiche dell’Impero ottomano: i francesi occuparono il Libano, i britannici presero prima Gerusalemme e poi Baghdad, i russi contesero ai turchi il Caucaso. Nel maggio del 1916, gli accordi di Sykes-Picot firmati da Francia e Regno Unito definirono le linee essenziali del riassetto post-bellico del Medio Oriente, che sarebbe stato confermato dalla politica dei “mandati”. Un anno più tardi, nel novembre del 1917, con la dichiarazione Balfour (dal nome del ministro degli Esteri), il governo britannico dichiarò la propria disponibilità a creare una «sede nazionale» ebraica in una futura Palestina sottratta al controllo ottomano [▶ eventi].

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  eventi

La dichiarazione Balfour

La Grande guerra ebbe conseguenze decisive e durature per il Medio Oriente, che nel 1914 era ancora in larga misura sotto il controllo dell’Impero ottomano. Per indebolire gli ottomani, l’Impero britannico strinse accordi con gruppi e movimenti nazionalisti della regione, che si ponevano obiettivi contraddittori e spesso in conflitto fra loro. Per esempio, nel 1916 i britannici non esitarono a fomentare la rivolta anti-ottomana dei palestinesi rappresentati dallo sceriffo (sharif, governatore) della Mecca, promettendo loro una ricompensa territoriale per il dopoguerra, anche se questa poteva pregiudicare l’assetto della Palestina a sfavore degli ebrei, che stavano rafforzando la loro presenza nella regione proprio grazie al sostegno britannico.

Il primo nucleo del futuro Stato ebraico

Fu infatti in questo contesto che si inserì la cosiddetta dichiarazione Balfour. Il 2 novembre 1917 Arthur James Balfour, ministro degli Esteri britannico, inviò tramite Walter Rothschild, uno dei leader della comunità ebraica di Londra, una lettera alla Federa-zione sionista di Gran Bretagna e Irlanda, organizzazione nata nell’ambito del movimento nazionale ebraico sorto a fine Ottocento e formalizzato nel 1897 a Basilea. Nella missiva si manifestava la disponibilità del governo di Sua Maestà a riconoscere «lo stabilirsi in Palestina di una sede na-zionale per il popolo ebraico». I termini dell’impegno britannico erano vaghi, dal momento che all’espressione “Stato” fu preferita quella di “sede nazionale” (national home).

Tuttavia, nel 1920 la dichiarazione fu incorporata all’interno del Trattato di Sèvres, che assegnava il controllo della regione della Palestina all’Impero britannico. La principale istanza del sionismo, la formazione di uno Stato per il popolo ebraico, era così per la prima volta sancita da un accordo internazionale.

Anche se non intendeva «pregiudicare i diritti civili e religiosi delle comunità non-ebraiche esistenti in Palestina», la dichiarazione Balfour di fatto ignorava i diritti politici dei palestinesi ed è per questo motivo che alcuni ritengono tale dichiarazione l’origine del lungo e sanguinoso conflitto tuttora aperto nella regione fra arabi ed ebrei.

La guerra sui mari
Un altro fondamentale teatro di scontro fu rappresentato dai mari, utilizzati soprattutto allo scopo di interrompere gli approvvigionamenti delle nazioni nemiche.

La rivalità tra le flotte britannica e tedesca era stata una delle cause delle tensioni internazionali alla vigilia della Grande guerra. L’unica vera battaglia fra corazzate, tuttavia, si combatté al largo della penisola dello Jutland, nel maggio del 1916, e il suo esito fu incerto. Per il resto, la flotta britannica, che manteneva incontrastata la propria supremazia, si concentrò in azioni di pattugliamento che miravano a creare un blocco totale delle economie nemiche e a piegarne la capacità di resistenza. Con la stessa intenzione l’Impero tedesco avviò una serie di attacchi sottomarini condotti con i sommergibili U-Boot contro le navi civili e mercantili delle nazioni avversarie: dall’inizio del 1915, con l’ormai chiara consapevolezza dello stallo della guerra terrestre, questi attacchi divennero indiscriminati e alla fine del 1916 si intensificarono. Anche nella guerra sui mari, dunque, i civili – direttamente o indirettamente – divennero obiettivi militari, come dimostra il

tragico episodio del transatlantico britannico Lusitania, che, sospettato di trasportare armi, il 7 maggio 1915 fu colpito e affondato da un sommergibile tedesco al largo delle coste irlandesi causando la morte di 1200 passeggeri, fra cui molti cittadini statunitensi [ 14].

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Lo sterminio armeno
Nel contesto di una guerra totale che non risparmiava i civili, si acuirono le tensioni tra l’Impero ottomano e la comunità armena, di religione cristiana, concentrata fra l’Anatolia orientale e il Caucaso meridionale, che era già stata vittima di eccidi tra il 1894 e il 1895. A esasperare i rapporti con la popolazione armena contribuì la svolta autoritaria del triumvirato dei “tre Pasha”, esponenti di spicco dell’associazione “Unione e progresso” che avevano preso il potere nel 1913 [▶ cap. 1.3] e che nell’ottobre 1914 spinsero il paese nel conflitto mondiale accanto agli imperi centrali, contro l’Impero russo. Nel clima di psicosi collettiva alimentato dalla guerra, in conseguenza del quale si temeva che i “nemici interni” mettessero a repentaglio la sicurezza dello Stato e potessero portare alla disintegrazione dell’impero, la popolazione armena fu sospettata di slealtà verso la causa ottomana e di complicità con l’Impero russo. Cominciarono a circolare voci insistenti su atti di sabotaggio e tradimento da parte degli armeni, già da tempo rappresentati come potenziali nemici.

La scelta di risolvere la “questione armena” fu assunta sotto la drammatica pressione prodotta dallo sbarco anglo-francese a Gallipoli, nello stretto dei Dardanelli, alla fine di aprile del 1915. Le operazioni, che furono condotte dal governo dei Giovani turchi, si svolsero in due tempi. Il 24 aprile iniziò una massiccia campagna di arresti dell’élite armena (intellettuali, professionisti, commercianti) nell’area intorno a Istanbul; il 27 maggio fu decisa la deportazione della popolazione armena che viveva a ridosso del fronte militare con l’Impero russo. Il principale responsabile di queste operazioni fu soprattutto Mehmed Talaat Pasha. La quasi totalità della popolazione maschile abile alle armi fu massacrata, imprigionata o condannata ai lavori forzati. Seguirono azioni di eccezionale violenza contro i villaggi armeni e, a fronte della loro resistenza, la deportazione di massa [ 15], con le cosiddette “marce della morte” nel deserto siriano, che decimarono soprattutto anziani, donne e bambini.

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Su una popolazione armena complessiva di circa due milioni, il numero delle vittime è stimato tra il milione e il milione e mezzo di persone. Un numero altissimo di armeni fu inoltre costretto a convertirsi all’islam per sopravvivere. Oltre il 90% della comunità armena in Anatolia scomparve, a seguito di un vero e proprio sterminio, con la sistematica opera di distruzione di quel gruppo religioso e culturale. Fu proprio la guerra a creare le condizioni militari, politiche, sociali e psicologiche per una soluzione definitiva e violenta della questione armena, che fu perseguita con ampio e coerente dispiegamento di mezzi. L’obiettivo finale era quello riassunto da Talaat Pasha quando disse all’ambasciatore tedesco, alla fine dell’agosto 1915: «la questione armena non esiste più».

Le rivolte contro la guerra
Intanto, tra il 1916 e il 1917, il malcontento sempre più diffuso al fronte e nelle retrovie dei molti paesi coinvolti nel conflitto si trasformò in aperta ribellione contro una guerra che, invece, per i primi due anni era stata accettata e combattuta con obbedienza e rassegnazione. A Dublino, nell’aprile del 1916, la protesta contro il conflitto si innestò sulla preesistente questione della Home Rule [▶ cap. 1.1], provocando un’insurrezione che pose fine alla collaborazione tra cattolici e protestanti iniziata con la guerra. Il gruppo della Fratellanza irlandese repubblicana, in particolare, mirava all’indipendenza dal Regno Unito, ma l’intervento dell’esercito britannico represse nel sangue la cosiddetta “rivolta di Pasqua” [ 16]

Sul fronte francese dello Chemin des Dames, invece, le truppe abbandonarono la prima linea, smettendo di combattere. Più che al diffondersi della propaganda pacifista e rivoluzionaria, la rivolta contro la disciplina militare era dovuta all’esasperazione per la costante esposizione al pericolo di morte, alla vanità di ogni sforzo per cambiare i rapporti di forza sul campo e alla stanchezza per le privazioni e le sofferenze della vita di trincea. Le automutilazioni (compiute dai soldati per non dover continuare a combattere), le diserzioni e gli ammutinamenti erano ormai all’ordine del giorno su tutti i fronti e venivano ovunque puniti con straordinaria brutalità [▶ FONTI, p. 90].

Storie. Il passato nel presente - volume 3
Storie. Il passato nel presente - volume 3
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