2. La globalizzazione e i suoi effetti politici

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La globalizzazione e i suoi effetti politici

Gli storici oggi tendono a collocare l’inizio della globalizzazione nel periodo 1750-1880, quando i rapporti economici, politici e culturali fra le diverse aree del pianeta si intensificarono sensibilmente grazie all’aumento della capacità produttiva legato all’industrializzazione e ai nuovi mezzi di comunicazione e di trasporto. Le dinamiche di interconnessione e di interdipendenza globale ripresero e si infittirono tra gli anni Settanta e Ottanta del Novecento, con le crisi energetiche e la fine del sistema di Bretton Woods, l’apertura di nuovi mercati in Cina e India e la fine del blocco sovietico. Lo storico americano Charles Maier spiega come questo processo che tendeva a separare politica ed economia trasformò profondamente la territorialità e l’identità dello Stato nazionale, mettendo in crisi le politiche di Welfare State, suscitando reazioni localiste o nazionaliste e chiudendo una lunga epoca cominciata negli anni Sessanta dell’Ottocento. Lo storico inglese Adam Tooze affronta invece la crisi finanziaria ed economica del 2007-09 negli Stati Uniti, che ha investito tra il 2010 e il 2012 l’Europa, sconvolgendo gli assetti che dalla fine degli anni Settanta in poi avevano caratterizzato l’Occidente e rovesciando l’ordine post Guerra fredda che si era stabilizzato fin dai primi anni Novanta: di qui sono scaturite veementi tensioni politiche e geopolitiche, nonché ampi movimenti populisti e nazionalisti.

testo 1
Charles Maier 

Trionfo e declino dello Stato territoriale e la nuova epoca globale

Tra gli anni Settanta e Ottanta, con il dispiegarsi della globalizzazione, entrarono in crisi non solo i sistemi di Welfare State e di intervento statale nella sfera economica, ma anche lo Stato territoriale, in cui l’identità e i confini nazionali delimitavano lo spazio della politica, che si era formato negli anni Sessanta dell’Ottocento e che aveva alimentato anche le terribili violenze della prima metà del Novecento.

La questione che dobbiamo affrontare è se il XX secolo sia in realtà il miglior punto di partenza per la periodizzazione. Esistono transizioni epocali più stimolanti di quelle che dovrebbero essere imposte dalla nostra simpatia per i doppi zeri?

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La mia tesi è che lo spazio politico venne riorganizzato in modo decisivo nei decenni successivi al 1850 (o 1860). I territori nazionali furono considerati ambiti spaziali che potevano essere dominati fisicamente tramite la ferrovia e i trasporti. Le strutture di governo divennero più centralizzate. Elementi provenienti dalla borghesia e dalle professioni si unirono ai grandi proprietari fondiari per formare una nuova élite dominante. Una nuova consapevolezza dello spazio circoscritto, una preoccupazione di stabilire linee di confine, di demarcazione tra chi era dentro e chi fuori, tra pubblico e privato, trasformò la coscienza sociale.

Questa combinazione di elementi, a mio parere, non subì mutamenti decisivi nella prima metà del XX secolo. I grandi sviluppi tecnologici avevano le loro radici nell’età dell’industria e delle ferrovie. La produzione in serie, dalle catene di montaggio introdotte nell’industria automobilistica alla vigilia della Prima guerra mondiale fino alle acciaierie a flusso continuo degli anni Cinquanta, rimase quella che chiamiamo «fordista»1e che assoggettava cioè il maggior numero possibile di operai a un processo produttivo continuo controllato dall’alto e mirante a fornire grandi quantità di prodotti standardizzati. Le linee di navigazione incrementarono il loro traffico; quelle aeree costituirono un’innovazione fondamentale nel superamento dello spazio dopo la Prima guerra mondiale, e ancor più dopo la Seconda. La nuova alleanza dominante tra borghesia e vecchie élite fu sfidata dai sindacati e dai partiti socialdemocratici delle classi lavoratrici industriali. Questa sfida portò nel nuovo secolo a conflitti politici più acuti e allo sviluppo di ideologie quali il fascismo e il comunismo. Tuttavia è interessante notare come proprio nei decenni in cui questi conflitti politici diventavano più acuti i segni della trasformazione di base della società mostrassero il grado più basso di mutamento sociale. La crescita dei grandi agglomerati urbani in Europa e in Nord America raggiunse il culmine tra il 1910 e il 1920: New York, Londra, Berlino, e negli anni Cinquanta Tokyo erano le grandi città del mondo; esse non superavano la cifra dei 10 milioni di abitanti. Le grandi migrazioni, soprattutto dal Vecchio Mondo verso l’America del Nord e del Sud, culminarono intorno al 1910; la Grande guerra e le restrizioni all’immigrazione fissate dagli Stati Uniti nel 1924 ridussero il flusso di popolazione fino a ben oltre la Seconda guerra mondiale. E la concettualizzazione del territorio come spazio circoscritto e oggetto di conflitti continuava. È con il concetto di spazio nazionale e di accordo di classe che quelli della mia generazione sono cresciuti.

Tuttavia sono convinto che tutto ciò sia cambiato, e che ognuna delle componenti principali, compresi il concetto di territorio, le tecnologie strategiche e la configurazione delle classi sociali, abbia subito significative trasformazioni nell’ultimo quarto di secolo. Le difficoltà emerse tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli Ottanta hanno comportato una trasformazione profonda e importante come quella degli anni Trenta. Il crollo dei regimi socialisti dovrebbe essere considerato l’aspetto più clamoroso e sconvolgente della transizione, ma non l’unico. Se il periodo tra il 1850 e il 1870-80 vide il consolidamento della territorialità nazionale come principio organizzatore diffuso, l’ultimo quarto di secolo lo ha definitivamente indebolito. Per concludere, vorrei sintetizzare quanto è accaduto e avanzare alcune ipotesi sul perché è accaduto.

In primo luogo, per quanto riguarda territorio e confini: popolazioni ed élite hanno perso la garanzia di uno spazio territoriale che permettesse il controllo della vita pubblica. Lo spazio del­l’identità2 è stato separato dallo spazio della decisione3. Non è possibile illustrare qui tutti i mutamenti che ci sono noti con il termine di globalizzazione: l’internazionalizzazione delle corporations4 e la collocazione della fabbrica lontano dal centro direzionale dell’impresa; lo sviluppo della comunicazione non gerarchica su Internet; l’avvento di quella che Foucault avrebbe chiamato una nuova episteme decentrata, che attribuiamo al postmodernismo5; la parziale disintegrazione di barriere sociali che in precedenza demarcavano lo spazio pubblico e privato o ruoli e segni distintivi di gender6. Naturalmente questo processo non si è verificato senza generare un diffuso disorientamento pubblico. La trasformazione in atto ha provocato quello che potrebbe essere il maggiore nuovo impulso dietro la divisione politica, che attraversa i vecchi partiti e incoraggia la formazione di nuovi. Da un lato di questa linea divisoria troviamo in misura crescente coloro che sono disposti ad accettare – o anche a trarne un profitto – i flussi transnazionali di ricchezza e informazioni, convinti che solo seguendo questo flusso globale, per così dire, si permetterà ai benefici del mercato di arricchirci tutti: i democratici di centro e i repubblicani moderati negli Stati Uniti, i laburisti di Tony Blair o i conservatori europeisti in Inghilterra, i malconci bramini del Congresso in India ecc. Dall’altro lato, e in misura crescente, si agitano i fautori di un populismo territoriale, i quali sostengono che, o entro lo Stato-nazione quale ci era un tempo familiare o entro la nuova regione che dobbiamo creare, i popoli devono ricostruire dei confini che abbiano un significato. Philippe Séguin7 sostiene che dobbiamo ripristinare i confini nazionali, Umberto Bossi8 evoca la Padania, Ross Perot9 mette in guardia dalla grande fuga di industrie che migrano al Sud, Haider10 e Le Pen11 dal flusso di immigranti; tutti propongono di riunire lo spazio dell’identità e lo spazio della decisione. Essi rappresentano ciò che a mio avviso si può definire il populismo territoriale. Al di fuori dell’Europa i loro equivalenti, quelli che chiamiamo in modo fuorviante fondamentalisti, auspicano un nuovo o ripristinato ruolo pubblico della religione, agli stessi fini.

In secondo luogo, la base economica della vita pubblica (e l’immaginazione economica dell’epoca contemporanea) ha subito un nuovo orientamento. Le tecnologie di trasformazione non richiedono più i metalli pesanti o gli altiforni, la produzione in serie o il movimento fisico di beni. Il fordismo appare superato nella misura in cui le imprese organizzano la produzione di squadra e producono una gamma più ampia di prodotti personalizzati. I settori che si occupano di trasformazione sembrano essere costruiti in misura crescente sulla trasmissione di dati. Le metafore, o mentalità, stimolate da questa tecnologia non sono più incentrate su «linee» o confini, ma su reti. Certo, il dibattito pubblico su questo cambiamento è molto più avanzato dell’effettivo saggio di trasformazione: l’industria pesante basata sulla lavorazione del metallo e sulla trasformazione fisica, e su fabbriche organizzate gerarchicamente, continua a esistere; proprio come la produzione basata sull’officina artigiana continuò ad avere un ruolo centrale per tutta l’epoca del capitalismo industriale. Nondimeno, gli effetti di trasformazione culturale prodotti dall’innovazione economica sono fondamentali quanto il suo concreto input e output quantitativo12, e hanno raggiunto velocità e dimensioni di una valanga.

In terzo luogo, anche le fondamentali configurazioni sociali di classe che crearono il vecchio ordine territoriale sono cambiate. Il consolidamento dello spazio territoriale nazionale si fondava sull’alleanza postquarantottesca tra vecchi notabili (oligarchi, agrari, sostenitori del potere locale decentralizzato) e nuove élite borghesi provenienti dalla scienza, dall’insegnamento, dall’industria e dal commercio. Questa élite dovette presto confrontarsi con una classe operaia di massa, concentrata nelle fabbriche o nelle miniere, vista come rivale in una prossima apocalittica lotta. Ma oggi le nostre immagini di classe sono mutate: per noi élite e massa sono disposte in cerchi concentrici, non più in forma di piramidi. Usiamo i termini di centro e periferia: la nuova élite posta al centro gode dei benefici che le vengono dall’essere addetta al controllo transnazionale di informazioni e simboli. Il nuovo proletariato svolge mansioni umili: la pulizia dei corridoi negli ospedali o delle vie cittadine, la cura delle nostre case e dei nostri bambini. La vecchia geografia gerarchica di centro e periferia è cambiata a tal punto che quello che eravamo soliti chiamare Terzo mondo è diventato una metastasi del Primo13: enclaves di sfarzo e miseria in cui boutique e barrios14 coesistono gomito a gomito, a New York come in America Latina. Siamo di fronte a una stratificazione su scala mondiale. Mentre i leninisti e i teorici della dipendenza un tempo definivano lo sviluppo ineguale in termini di imperialismo e di zone segnate geograficamente, l’ineguaglianza persiste o avanza, ma non tanto tra territori nazionali quanto all’interno di essi. Questa tendenza è più avanzata in America settentrionale che nell’Europa continentale, ma anche qui continua a fare progressi. Contestualmente, i movimenti di popolazione hanno di nuovo raggiunto i livelli del decennio precedente la Prima guerra mondiale, sia dai paesi più poveri verso quelli più ricchi che dalle campagne verso le metropoli. Le città sono di nuovo in crescita, ma ora si tratta delle città dell’America Latina, dell’Africa e dell’Asia: negli ultimi trent’anni Città del Messico, San Paolo e Lima, il Cairo e Lagos, Kuala Lumpur e Djakarta.

Quando e come si sono prodotte queste trasformazioni? Io credo che esse siano il frutto di una grande crisi che ancora non abbiamo capito pienamente, ma che, come la Grande depressione degli anni Trenta, ha avuto conseguenze profonde. Alla base della transizione vi è stata l’estensione della produzione fordista in Asia e in America Latina, insieme alla diffusione di una nuova economia basata sull’elettronica e sui servizi in Nord America e in Europa. In due decenni, dalla fine degli anni Sessanta agli anni Ottanta inoltrati, le economie dell’Ocse15 hanno dolorosamente chiuso le loro miniere di carbone, i loro altiforni e i loro cantieri navali. Negli stessi anni, mentre Washington impegnava uomini e ricchezze nella guerra del Vietnam, gli Stati Uniti hanno cambiato il loro ruolo egemonico, passando dalla fornitura di sussidi e investimenti netti all’estero alla riscossione di rendite e al signoraggio, grazie agli incessanti deficit di bilancio e al saldo di conti in dollari inflazionati. La stagflazione16 degli anni Settanta, unita alla quadruplicazione dei prezzi dell’energia, ha cancellato il consenso sulle politiche di alta occupazione e di generoso welfare che erano state adottate dopo il 1945. In tutto l’Occidente essa ha portato ai tentativi di negoziazione del contenimento salariale che definiamo neocorporatisti17, ma alla fine degli anni Settanta anche al rifiuto della democrazia sociale nel Nord Europa e (con altre etichette) negli Stati Uniti; all’abbandono di politiche socialdemocratiche da parte dei socialisti francesi e spagnoli, e al ritorno della regolazione di mercato anche in Italia. La congiuntura inflazionistica internazionale, iniziata a metà degli anni Sessanta, seguiva il suo corso, esasperando gli elettori che punivano i partiti sostenitori di politiche neokeynesiane18.

Il rifiuto dell’intervento a livello macroeconomico, tuttavia, non era che una parte di una più generale perdita di fiducia in quello che si potrebbe chiamare il progetto modernista. Intellettuali occidentali svilupparono una critica della razionalità illuministica che ci è oggi del tutto familiare; una parte di questa critica comportò dapprima un rifiuto dell’umanesimo marxista degli anni Sessanta, e in seguito, nell’arco di un decennio, del marxismo di qualsiasi genere. Milan Kundera19 aveva descritto la sinistra come una grande parata; ora la parata era finita, si dissolveva nella stagflazione, nel terrorismo o in imprese militari senza speranza nel Terzo mondo. Guardando indietro a partire dal 1995, gli analisti politici hanno attribuito questo disorientamento al crollo dei regimi comunisti e alla fine della Guerra fredda. In realtà, lo stesso crollo del mondo comunista era parte della generale perdita di fiducia nel controllo politico del mutamento sociale. Gli Stati a partito unico si arresero senza opporre una resistenza significativa perché i loro dirigenti non avevano risposte da offrire al loro ritardo economico, e ancor meno alle nuove istanze incentrate su questioni come ambiente, genere, identità e libera espressione di sé, che l’ideologia marxista ufficiale (anche se non singoli intellettuali) non si era mai data la pena di teorizzare.

Una parte del crollo senza precedenti della politica riformista in Occidente ha comportato il progressivo indebolimento della territorialità. Il territorio in quanto tale è stato di rado una posta in gioco nel conflitto: la guerra delle Falkland, la Guerra del Golfo, il coinvolgimento russo in Cecenia, la prolungata guerra negli Stati dell’ex Iugoslavia. Dopotutto, il territorio era meno importante: data la speranza di entrare nell’Unione europea, cechi e slovacchi hanno potuto tentare di seguire vie politiche separate. I canadesi hanno discusso per più di un decennio su come avrebbero potuto mantenere unite o meno le loro province, mentre laboriosi compromessi continuavano a essere respinti. Nel 1861 dei volontari erano arrivati dal Michigan, dal Minnesota e dal Massachusetts per impedire alla Virginia e alla Georgia di dissolvere gli Stati Uniti: se la California o il Texas dovessero attuare la secessione nel 2001, i nordamericani si limiterebbero a spiegare perché la frattura era diventata inevitabile.

Mentre gli europei e i nordamericani perdevano fiducia nella territorialità, essi, paradossalmente, investivano energie emotive in un senso del paesaggio e del luogo, inteso ora come risorsa elegiaca20, come rifugio per la memoria collettiva storicizzata. Il lieu de mémoire21 è diventato un sostituto delle arene geografiche destinate alla competizione e alla costruzione istituzionale. L’evocazione, sentimentale o ironica, della storia da parte di brillanti autori postcoloniali che vivono nella metropoli, nei film di Merchant e Ivory22, nell’architettura postmoderna americana ecc. rappresentavano un surrogato del momento territoriale del tardo XIX secolo, vibrante di energie economiche che reclutavano avidamente forza-lavoro. Oggi l’ingegnosità economica ha dissolto il territorio e ha disperso il personale.

[...]

È ovvio, tuttavia, che gli anni Settanta non sono nati senza legami sostanziali con la storia precedente. Anzi, se torniamo sulla periodizzazione, mi pare si possa dire che l’epoca del primato della territorialità apertasi negli anni Sessanta dell’Ottocento generò la sua prima grande crisi, dovuta alle rivalità imperialistiche, alla fine degli anni Novanta. Da questa intensificazione della competizione internazionale, culminata nella Prima guerra mondiale, emerse un precario tentativo di ricostruire un ordine politico ed economico internazionale, che fu però ostacolato dalle contraddizioni insite nella riaffermazione della territorialità proprio nel momento in cui le forze eco­nomiche e finanziarie diventavano più transnazionali. La Grande depressione ebbe origine da queste contraddizioni: fu una plausibile conseguenza dell’instabile miscela di politiche nazionali e transnazionali messa in atto dopo il 1918. Nondimeno, la crisi economica mondiale portò infine (almeno al di fuori dell’Inghilterra) a più risoluti tentativi di controllo politico dei deboli mercati nazionali, a operazioni di salvataggio dell’industria su scala nazionale e a grandi riforme dei sistemi bancari nazionali. Il mondo occidentale attraversò la Grande depressione rafforzando, e non rovesciando, i principi del governo territoriale; la Seconda guerra mondiale e la Guerra fredda che la seguì non fecero che consolidare questo atteggiamento. Le energie territoriali furono rinvigorite dai conflitti suscitati indirettamente dalla crisi economica mondiale degli anni Trenta. Le concezioni territoriali, gli interventi statali nei mercati nazionali acquisirono nuove prospettive di vita grazie alle risposte alla depressione e all’organizzazione per la guerra e per la Guerra fredda. Gli Stati Uniti, che dopo il 1948 aiutarono a sostenere il capitalismo mondiale, non cercarono di indebolire questo mondo della territorialità, fino a che ciò non accadde inavvertitamente alla fine degli anni Sessanta. Ma a quell’epoca la territorialità era superata da quella che si potrebbe chiamare l’irresponsabilità dell’impero23, e dalle trasformazioni della tecnologia. Nel complesso, dunque, i seguenti periodi appaiono rilevanti: 1860-95: un’epoca di formazione degli Stati-nazione e di creazione di organizzazioni territoriali; 1895-1931/32: un periodo in cui le rivalità nazionali e imperiali da un lato, e i tentativi di stabilizzazione economica transnazionale dall’altro, portano alla guerra e al fallimento della stabilizzazione; 1933-70: una lunga epoca in cui gli Stati nazionali, guidati dagli Stati Uniti (e per breve tempo dalla Germania) sfruttano la crisi mondiale e la guerra per rinegoziare le soluzioni territoriali e la ripresa di economie industriali fondate sull’alta occupazione; infine, la crisi degli anni Settanta e Ottanta, unita a una nuova tecnologia di trasformazione, che annulla lentamente ma irrevocabilmente le premesse territoriali dell’organizzazione politica ed economica.

Quando, tra qualche decennio, i nostri studenti guarderanno alla fine del nostro secolo, che cosa diranno ai loro giovani studenti o ai loro figli sulla fine del secondo millennio? Che gli anni dalla metà del XIX secolo agli ultimi decenni del XX erano stati un’epoca ragguardevole in cui i destini dei popoli sembravano dipendere dai loro Stati nazionali, che la scienza e la tecnologia si erano concentrate sulla produzione in serie di macchine standardizzate e sulla conquista del movimento, che il controllo del proprio territorio era il valore superiore a tutti gli altri; e che tutto ciò era stato trasformato nell’ultimo terzo del XX secolo. Che questi mutamenti decisivi si erano prodotti non durante le grandi guerre della prima metà del XX secolo, ma nel corso della crisi sismica degli anni Settanta, quando la maggiore potenza capitalistica non riusciva più a dominare l’economia mondiale, quando le grandi industrie dei precedenti cento anni sembravano sovrabbondanti, quando le economie dell’Ocse trovavano sempre più difficile unire remuneratività e lavoro ma non intendevano neppure separarli completamente, e quando l’unica organizzazione sembrava poter essere fornita dai mercati, il che, alla fine del secolo, era considerato in misura crescente ben piccola cosa. In definitiva, che il mondo dei loro nonni era durato un lungo secolo (non il XX secolo, ma l’epoca dagli anni Sessanta dell’Ottocento ai Settanta o anche Ottanta del Novecento, ma non oltre), un lungo secolo di nazionalismo eroico, di produzione industriale di massa e di fiducia nel controllo dei luoghi territoriali delle scelte di vita. E infine… che tutto ciò è finito.


tratto da Secolo corto o epoca lunga? L’unità storica dell’età industriale e le trasformazioni della territorialità, in C. Pavone (a cura di), ‘900. I tempi della storia, Donzelli, Roma 1997

Storie. Il passato nel presente - volume 3
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