I nodi lasciati dall’eredità della sovietizzazione e dalla fine dell’unità comunista non cessavano di venire al pettine, quanto più la sfida e il confronto con il mondo occidentale si facevano ardui e senza speranza. Il modello imperiale sovietico nell’Europa centrorientale non si era mai riabilitato e aveva anzi propagato i suoi effetti nel lungo periodo, sotto il peso delle repressioni violente, dello stato di polizia, del fallimento economico. I regimi comunisti dell’Est europeo non erano soltanto privi di una legittimità nazionale, ma costituivano una fonte di discredito permanente. Nel contempo, il comunismo internazionale aveva cessato di esistere come soggetto della politica mondiale, riducendosi a una finzione rituale per connotare l’ortodossia filosovietica. La concezione dei «due campi» aveva perso ogni efficacia. La prospettiva stessa di una «modernità alternativa» era stata colpita a morte. Il comunismo cinese si identificava con una forma di nazionalismo che, in quanto tale, non era in grado di egemonizzare un polo a sé stante e poteva al massimo indicare una via di sopravvivenza agli altri regimi comunisti asiatici. Il comunismo sovietico si era affidato allo Stato-potenza globale, con il risultato di sommare un forte over-stretch1 imperiale allo smarrimento della tradizione universalistica. Fu questa la questione principale che si trovò ad affrontare l’ultimo leader dell’Urss, Michail Gorbačev. [...]
Il crollo dell’Unione Sovietica non era inevitabile. Fu Gorbačev a provocarlo involontariamente. Il suo ideale di un «socialismo dal volto umano» lo portò a varare riforme insostenibili per le compatibilità del sistema, che innescarono l’autodissoluzione. La spinta riformatrice nacque dal tentativo di ridefinire una missione che consentisse all’Urss e al comunismo di rientrare nelle dinamiche del mondo globale, dopo esserne stati relegati ai margini. La possibilità di trincerarsi nell’orgoglio imperiale, nelle rivalità di potenza, nella tradizione totalitaria venne esclusa. Una simile strada avrebbe potuto far sopravvivere lo Stato sovietico per un certo tempo, ma non affrontato alla radice la crisi di legittimazione. Gorbacˇev e il suo gruppo dirigente presero la direzione opposta, fino a rinnegare la scissione tra socialismo e democrazia generata dal leninismo. Il loro fallimento mise a nudo le insormontabili contraddizioni insite nel tentativo di riformare il comunismo sovietico e l’impossibilità di rilegittimarlo come progetto universalistico.
La «via cinese» di Deng Xiaoping2, rifiutata dai riformatori sovietici, si configurò invece come una reinvenzione della tradizione totalitaria. Fallito il tentativo di sostituirsi all’Urss rifondando il movimento comunista, la Cina Popolare aveva già da tempo fatto tesoro dell’esperienza compiuta tramite l’imitazione del modello sovietico e imboccato la strada dell’autoritarismo di mercato. La pragmatica riscoperta del nazionalismo, quale strumento di coesione dello Stato, rappresentò una risposta efficace al declino dell’ideologia maoista, che poteva collocarsi nel solco della rivoluzione anticoloniale. L’accesso alla globalizzazione della Cina venne delineato senza l’ambizione di elaborare un messaggio universalistico, che non era necessario alla luce della vicenda storica cinese. Mentre l’Urss collassava assieme all’ordine della Guerra fredda, cedendo il passo alla Russia postsovietica neostatalista e neocapitalistica, la tradizione comunista dello Stato-potenza trasmigrava in Cina, subiva una metamorfosi orientata dalla nozione realista dell’interesse nazionale e gettava le fondamenta per l’ascesa del paese nel mondo postbipolare. Nel contempo, i riflessi del collasso sovietico finirono per consolidare le tendenze opposte a ogni liberalizzazione politica del regime per un’intera epoca storica.
La sopravvivenza dello Stato comunista cinese non fu un’eccezione. I principali regimi comunisti extraeuropei si mantennero in vita dopo la fine del comunismo europeo e dell’Urss, seguendo le strade dell’integrazione economica internazionale, come il Vietnam, o dell’autarchia, come Cuba e la Corea del Nord. In questi paesi, il comunismo aveva trovato un fondamento nel nazionalismo antimperialistico, analogamente a quanto era avvenuto in Cina. In Europa, al contrario, i retaggi nazionali contribuirono all’implosione dei regimi o li precipitarono nel conflitto etnico e nella guerra civile, come nel caso della Iugoslavia. L’eredità dello State-building3 comunista permaneva laddove aveva presieduto alla costruzione di «comunità nazionali», collassava laddove si era impiantata sul corpo preesistente della nazione o ne aveva favorito il consolidamento entro la compagine imperiale, come in Urss. Questi processi misero a nudo i limiti più che le acquisizioni dell’esperienza comunista. La «costruzione del socialismo» sul principio della territorialità implicava sin dalle origini l’idea che lo Stato-nazione ottocentesco fosse un residuo del passato, oltre che un edificio artificiale. [...]
Il progetto dello Stato-potenza sovietico si basò sull’assunto che il futuro appartenesse a una formazione statuale diversa dallo Stato-nazione: un nuovo soggetto capace di imporsi nel mondo globale combinando il principio della territorialità con l’invenzione di una «comunità internazionale» formata da partiti e Stati e basata su un esclusivo sistema di relazioni tra centro e periferia.
Tuttavia, i caratteri monocratici dell’Impero sovietico impedirono la costruzione di una comunità di destino transnazionale. Mentre gli Stati-nazione dell’Europa occidentale liquidavano il proprio passato militarista e imperiale, trasformavano i propri caratteri in una chiave cooperativa e davano vita a nuove forme di sovranazionalità, il progetto dello Stato-potenza entrò in crisi, minato dalle contraddizioni tra le basi politiche, economiche e culturali della potenza e le sue ambizioni globali, tra gli interessi dello Stato e le prospettive del movimento, tra l’imperativo dell’unità assoluta e le crescenti diversità e fratture nel «campo socialista». Il tentativo tardivo di riformarne le basi portò al collasso finale. Fatta eccezione per il regime cubano, soltanto in Asia i regimi comunisti si mantennero in vita collegandosi a una «missione nazionale» e sganciandosi dall’internazionalismo. Ma se il comunismo riformatore produsse la dissoluzione dello Stato sovietico e la fine dell’identità originaria, il comunismo nazionalista svuotò quell’identità di ogni significato riconducibile alla missione rivoluzionaria. In entrambi i casi, il comunismo del xx secolo giunse al capolinea lasciando un’impronta statalista e un’archeologia industriale, ma denunciando soprattutto lo smembramento profondo della sua struttura culturale e il fallimento del suo progetto universalista.
tratto da La rivoluzione globale. Storia del comunismo internazionale, 1917-1991, Einaudi, Torino 2012