PERCORSI STORIOGRAFICI

percorsi storiografici

PERCORSO

TESTI

TEMI

1 La fine dell’Unione Sovietica

p. 738

A. Graziosi, Tensioni e contraddizioni dell’ultima stagione sovietica tratto da L’Urss dal trionfo al degrado

– La scomparsa repentina e incruenta dell’Urss

– Il fallimento del socialismo sovietico, modellato dalla guerra-rivoluzione del 1917-22

S. Pons, La crisi del socialismo sovietico e la globalizzazione tratto da La rivoluzione globale

– Il crollo dell’Impero sovietico e le nuove spinte nazionali

– L’irriformabilità della modernità sovietica nel contesto di globalizzazione

2 La globalizzazione e i suoi effetti politici

p. 745

C. Maier, Trionfo e declino dello Stato territoriale e la nuova epoca globale tratto da Secolo corto o epoca lunga?

– Apogeo e crisi dello Stato nazionale territoriale tra 1860 e 1980

– La globalizzazione come momento di radicale revisione dei rapporti tra politica ed economia

A. Tooze, La crisi economica e politica occidentale del 2008-12 tratto da Lo schianto, 2008-2018

– La scala transatlantica della crisi finanziaria ed economica degli Stati Uniti (2007-09) e dell’Europa (2010-12)

– Le ondate di destabilizzazione politica globale (2012-18)

3 Passato e presente di un secolo terribile

p. 755

N. Davies, Le esperienze totalitarie nella memoria del Novecento tratto da Storia d’Europa

– Un’età di guerre catastrofiche e di violenze estreme (1914-45)

– I caratteri comuni del totalitarismo nazista e sovietico

T. Judt, Gli orrori della Shoah nella memoria europea tratto da Il dopoguerra

– La centralità della Shoah nella memoria pubblica europea

– La memoria del totalitarismo in Europa orientale

percorso 1

La fine dell’Unione Sovietica

La crisi e la dissoluzione dell’Unione Sovietica suggellarono la scomparsa di un attore statale e geopolitico fondamentale nel paesaggio del Novecento, nonché l’esaurimento dell’ideologia comunista di matrice leninista. Lo scioglimento dello Stato sovietico ha altresì aperto una fase di intense ricerche archivistiche, che hanno profondamente rinnovato la conoscenza di quell’esperienza storica centrale nel Novecento. Andrea Graziosi valuta le conseguenze di quell’importante passaggio sul terreno della storia russo-sovietica, spiegando come nel 1991 si sia esaurito un ciclo storico inauguratosi con lo scoppio della guerra-rivoluzione del 1914-22. Silvio Pons invece richiama soprattutto la dimensione internazionale che la rivoluzione comunista dispiegò fin dal 1917, contribuendo ad attivare processi di internazionalizzazione a partire da un contesto politico e geopolitico specifico come quello sovietico: a sua volta la globalizzazione, tra gli anni Settanta e Ottanta, ha contribuito a disgregare l’esperienza statuale sovietica.

testo 1
Andrea Graziosi

Tensioni e contraddizioni dell’ultima stagione sovietica

A differenza del contemporaneo crollo della Federazione iugoslava, che scatenò un decennio di guerre sanguinose, la dissoluzione dell’Unione Sovietica fu il prodotto della politica di riforme di Gorbačev, il quale, pur fallendo nell’intento di costruire un socialismo democratico, impedì che le tensioni della fine degli anni Ottanta precipitassero nel caos e nel conflitto aperto.

Secondo Gorbačev, il collasso dell’Urss fu salutato quasi con sollievo da una popolazione che se ne sarebbe presto pentita. Sondaggi di opinione condotti dieci anni dopo dimostrarono in effetti che quasi il 70% degli intervistati rimpiangeva la perdita dell’Unione Sovietica, una percentuale quasi doppia di quella dei nostalgici del sistema sovietico. In realtà la scomparsa repentina di uno stato che aveva a lungo vissuto, che nella guerra aveva trovato il suo riscatto e la sua rinascita e che dalla seconda metà degli anni Cinquanta aveva per qualche tempo generato speranze e aspettative in almeno una parte dei suoi abitanti, molti dei quali avevano legato a esso la loro gioventù e i loro sogni, lasciò subito a molti l’amaro in bocca. Persino Sachraj1, che pure ne aveva architettato la dissoluzione, scrisse poi di essersi allora sentito un po’ depresso, come ai funerali di un parente, e non pochi furono i dissidenti emigrati che ebbero problemi nel tornare in una Russia che non era l’Urss libera e rinnovata che avevano sognato. Anche al generale Lebed’2 la fine dell’Urss dispiacque, persino El’cin3 la rimpiangeva e naturalmente con ben altro astio lo facevano molti dei suoi vecchi dirigenti, che più che della scomparsa dello stato si dolevano per quella del sistema che aveva garantito loro tanto potere per tanti anni.

Tuttavia, come aggiunse lo stesso Sachraj, nel dicembre 1991 si provò anche una «sensazione di liberazione, di aver trovato una via d’uscita». Molti deputati del soviet supremo russo riunitosi per approvare gli accordi di Belovež4 votarono per esempio con la convinzione «di salvare il paese dalla guerra civile». Visto quello che stava accadendo in Iugoslavia, essi non erano lontani dal vero. Dopo la proclamazione a giugno dell’indipendenza croata e slovena la Serbia, i serbi di Bosnia e Croazia e l’armata iugoslava avevano infatti dato inizio a un conflitto che già a novembre aveva raggiunto un primo culmine con la caduta di Vukovar, le sue migliaia di morti militari e civili e le sue centinaia di esecuzioni. In quattro anni i morti sarebbero stati circa 200 mila.

In Urss, con una popolazione pari a quattordici volte quella iugoslava, la presenza di migliaia di armi nucleari e di tonnellate di aggressivi chimici e biologici, decine di milioni di persone, e in particolare di russi, che vivevano fuori della loro Repubblica e lo sviluppo di gruppi e ideologie nazionaliste e nazionalcomuniste, vi erano i requisiti per un esito di gran lunga peggiore. In molti lo temevano, e osservatori come Alec Nove5 paventarono il caos e i disordini che sarebbero seguiti al collasso dello Stato federale, moltiplicando le poco più di mille vittime provocate dopo il 1988 dalla violenza etnica e politica. In effetti, a partire dal 1992 la situazione peggiorò, specie nel Caucaso e in Asia centrale, e alla fine – tenendo conto della guerra azero-armena del 1992-93 e della prima ma non della seconda guerra cecena – i morti furono nell’ordine delle decine di migliaia, e grandissime furono le sofferenze umane, economiche e psicologiche. È tuttavia possibile sostenere con Steven Kotkin6 che rispetto a quello che sarebbe potuto succedere, nei territori ex sovietici ebbe luogo un miracolo, incarnato per esempio dal mancato conflitto tra Russia e Ucraina per la Crimea e il Donbass7.

Per Mark Kramer8 i miracoli furono in realtà due, visto che al mancato scoppio di conflitti tra le repubbliche principali deve essere aggiunta la pacifica fine del dominio sovietico nella parte orientale del continente. Almeno fino al 1989 Mosca, che malgrado il declino non era sottoposta ad alcun vincolo internazionale, avrebbe infatti potuto ricorrere alla forza. Il non farlo fu una decisione di Gorbačev e del gruppo dirigente sovietico, che si diede da solo dei vincoli politici ed etici.

Malgrado il ruolo positivo giocato dalla pacifica situazione internazionale e dall’inatteso «filosovietismo» delle amministrazioni Reagan e Bush, il doppio miracolo fu quindi in primo luogo il frutto di scelte umane, fatte da persone che, come Milošević9 o Tuðman10, avevano altre opzioni a disposizione. Abbiamo visto come il rifiuto del ricorso alla violenza fosse a suo modo condiviso persino dalla maggior parte dei golpisti di agosto11. Non vi è dubbio, tuttavia, che i suoi principali fautori furono Gorbačev, nonostante i tentennamenti dell’autunno-inverno del 1990-91, e El’cin. Torniamo qui alle affinità e complementarità, in almeno alcune questioni cruciali, di due politici che si detestavano, già notate da Jakovlev12, per il quale essi riuscirono a risolvere, insieme, il «problema fondamentale» del «passaggio del paese verso un regime democratico». Esse furono ribadite dalla comune risposta negativa alle richieste serbe di aiuto. A Milošević, che aveva con­vocato a Mosca, Gorbačev disse per esempio di considerare gli eventi iugoslavi lo «specchio degli orrori» in cui sarebbe potuta cadere l’Urss. Questo mentre nell’entourage di El’cin, dove pure ad agosto si era parlato di revisione dei confini a favore della Russia, si tenevano discussioni che prendevano a modello la ritirata pacifica dall’impero compiuta dalla Gran Bretagna dopo il 1945, positivamente contrapposta alla disastrosa resistenza francese.

Contarono anche elementi storici e istituzionali: la coscienza che accomunava la maggioranza tanto dei russi quanto, per esempio, degli ucraini di essere stati vittime dello stesso sistema e non di un’oppressione nazionale, il ricordo della lotta comune contro i tedeschi e il fatto che l’Urss non fosse un impero, la cui caduta produce anarchia e competizione per la successione ma una federazione di Stati, certo in larga parte fittizi ma già definiti e muniti del diritto alla secessione. Quest’ultimo fattore rese tutto più semplice. Tuttavia, come dimostra ancora una volta il caso della Iugoslavia, costruita a imitazione dell’Urss, ciò non bastava, specie in presenza di un atteggiamento aggressivo da parte della nazionalità dominante. Questo fu l’altro fattore velenoso che mancò in Urss, e anche la sua assenza fu la conseguenza di scelte politiche, culturali e umane: del disprezzo per il nazionalismo che accomunava larga parte della vecchia élite sovietica, compresi ancora una volta molti golpisti, dell’insofferenza della maggioranza dei russi per l’«impero», e soprattutto della scelta, operata allora dalla maggior parte di quegli stessi russi, a favore di un’identificazione del concetto di patria con quelli di libertà e democrazia. Questa scelta, incarnata dall’alleanza tra El’cin e i democratici, e dalle ripetute, inattese sconfitte elettorali dei nazionalisti, fu rafforzata dal comportamento delle grandi minoranze russe, che in generale, lungi dal richiedere il soccorso di Mosca, votarono, nel Baltico come in Ucraina, a favore dell’indipendenza delle repubbliche in cui vivevano. «Tutti», insomma, volevano sbarazzarsi del vecchio sistema e la giudicavano la cosa più importante, anche a costo di perdere, nel farlo, lo stato federale. E tutti, o quasi, erano ostili alla violenza, forse anche per le straordinarie dosi di brutalità che il paese aveva sopportato tra il 1914 e il 1953.

Contò anche il miraggio di raggiungere in fretta, semplicemente cambiando strada, più che il benessere occidentale, il suo mito. Contò meno, invece, la mobilitazione popolare: scioperi dei minatori a parte, i russi che sostennero attivamente la scelta democratica furono pochi. Persino nei giorni del golpe, a Mosca, una città con più di dieci milioni di abitanti, scese in piazza a favore di El’cin solo qualche decina di migliaia di persone, nulla a che vedere con le centinaia di migliaia di cechi che sfilarono a Praga, una città quasi dieci volte più piccola, nel novembre 1989. Hough13 ha avuto quindi ragione nell’osservare che «raramente una rivoluzione o un processo di democratizzazione furono accompagnati da una così piccola pressione proveniente dalla società», i cui elementi più giovani e attivi si erano già buttati a capofitto nella ricerca del desiderato benessere personale e familiare. Ciò rimanda ai possibili effetti del sistema sovietico nel rallentare e distorcere la formazione di una «società civile», ma ribadisce al tempo stesso il ruolo decisivo delle élite sovietiche, russe, ucraine ecc. nel determinare lo scioglimento pacifico degli eventi, uno scioglimento che nel Caucaso, dove la mobilitazione popolare fu enormemente superiore, non vi fu.

Contarono, infine, anche il già ricordato ruolo dei militari, abituati anche da massicce dosi di repressione alla subordinazione all’autorità civile, nonché cresciuti con un’ideologia che aveva nella difesa del popolo uno dei suoi principi chiave, e l’interesse personale di tanti alti, medi e bassi dirigenti di uno Stato che controllava quasi tutta l’economia, a profittare del suo crollo per appropriarsi dei pezzi che avevano fino ad allora gestito in suo nome. Anche la ricerca del profitto personale e la corruzione giocarono insomma un ruolo mandevillianamente14 positivo.

Naturalmente le scelte del 1991 non furono definitive, ed ebbero anzi vita molto più breve dell’opzione socialista del 1917. Le grandi speranze erano destinate a naufragare, i nuovi Stati, su cui pesava il passato sovietico, erano molto fragili, le loro élite molto corrotte, la questione delle minoranze, e quindi quella dei rapporti tra le repubbliche e dei loro confini, non fu risolta, la crisi demografica si sarebbe aggravata e la distruzione, ancorché «creatrice», del vecchio apparato economico sovietico impose alla popolazione un prezzo altissimo. Resta però il fatto che per merito di un gruppo non troppo grande di individui l’Urss nel suo complesso non prese allora la via iugoslava, salvando probabilmente l’Europa.

In quello che fu in un certo senso l’ultimo riflesso del mito sovietico, almeno una parte dell’opinione pubblica e della stampa occidentale giudicò invece quanto stava accadendo attraverso le categorie elaborate da nazionalcomunisti come Prochanov15, che dipingevano la perestrojka16 come una tragedia e la nuova Russia come un paese criminale, controllato dalla «mafia» e dal capitale internazionale, contrapponendone l’immagine a quella idealizzata dell’Urss, come se alcolismo, corruzione, crisi economica, degrado demografico ecc. non fossero l’eredità lasciata dal sistema sovietico ai suoi successori.


tratto da L’Urss dal trionfo al degrado. Storia dell’Unione Sovietica. 1945-1991, Il Mulino, Bologna 2008

Storie. Il passato nel presente - volume 3
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