18.1 Gli attentati terroristici dell’11 settembre

Per riprendere il filo…

Le “quattro modernizzazioni” nella Cina di Deng, la fine dell’autarchia statalista indiana e poi il crollo del blocco sovietico contribuirono in forme decisive all’affermarsi della globalizzazione tra gli anni Ottanta e Novanta, favorita dalla New Economy del presidente statunitense Bill Clinton, il quale, come il primo ministro britannico Tony Blair, proseguì e insieme temperò le precedenti politiche liberiste e le riforme del Welfare State. La fine della Guerra fredda, tra il 1989 e il 1991, aprì una fase segnata dall’estensione delle politiche di libero mercato nell’Europa orientale ex comunista e dalla costituzione dell’unione monetaria europea, che, dall’iniziale nucleo occidentale, si allargò verso Est. Intanto, l’ascesa dell’integralismo islamico, anzitutto promosso dalla rivoluzione khomeinista in Iran e poi diffusosi soprattutto nel mondo arabo, contribuì a un riassetto complessivo dei rapporti internazionali.

18.1 Gli attentati terroristici dell’11 settembre

L’attacco agli Stati Uniti
Dopo i due mandati del presidente democratico Bill Clinton, alle elezioni del 2000 vinse il repubblicano George W. Bush junior sul candidato democratico Al Gore, al termine di una competizione elettorale incerta, risolta per una differenza di poche centinaia di voti (peraltro contestati), che però furono decisivi per attribuire il seggio della Florida a Bush. Nel giro di pochi mesi il nuovo presidente, sostenuto dall’ala isolazionista del Partito repubblicano, si trovò a cambiare radicalmente politica rispetto a quella del suo predecessore [▶ cap. 15.3].
Gli Stati Uniti erano da tempo nel mirino dell’integralismo islamico, che intendeva punirli per aver guidato la spedizione militare internazionale nella Guerra del Golfo e per il loro sostegno diplomatico e militare a Israele. Tuttavia, nonostante diversi indizi raccolti dall’intelligence, nessuno avrebbe potuto immaginare la scala degli attacchi terroristici che erano in preparazione. La mattina dell’11 settembre 2001 furono dirottati quattro aerei civili americani da parte di un gruppo di terroristi mediorientali: due aerei si schiantarono, uno dopo l’altro, contro le Torri Gemelle del World Trade Center di Manhattan, facendole collassare [ 1]; un aereo colpì il perimetro esterno del Pentagono (la sede del dipartimento della Difesa degli Stati Uniti); un altro, probabilmente diretto a Washington contro la Casa Bianca, precipitò vicino a Pittsburgh, in Pennsylvania, a seguito di una rivolta dei passeggeri. L’attacco terroristico, mostrato in diretta dalle televisioni di tutto il mondo, sembrò portare per la prima volta la guerra sul suolo americano, provocando oltre 3000 morti (di cui 500 stranieri), suscitando nel mondo occidentale una vasta identificazione emotiva con le vittime e aprendo una forte polarizzazione ideologica all’interno del mondo arabo. Infatti, pur senza rivendicarlo apertamente, Osama bin Laden, il capo del gruppo integralista islamico al-Qaeda [▶ cap. 17.5], benedisse gli attacchi in America in nome della “guerra santa” contro i “crociati” e gli “infedeli”.

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Se nei primi mesi della sua presidenza Bush jr. si era espresso in favore di un disimpegno internazionale degli Usa, ora si lanciava con determinazione in una “guerra globale contro il terrorismo” che si caricava di tinte religiose. In un clima di mobilitazione patriottica, il Congresso statunitense varò il Patriot Act [▶ FONTI], un provvedimento che dava mano libera agli organi di sicurezza per perseguire ogni possibile individuo sospettato di terrorismo, aprendo la strada anche a numerosi abusi. La base militare di Guantanamo, situata in una baia dell’isola di Cuba sotto sovranità degli Stati Uniti, fu trasformata in un campo di concentramento in cui erano detenuti tutti gli accusati di terrorismo islamico, senza la tutela delle convenzioni internazionali e delle leggi americane.

FONTI

Il Patriot Act

Questo provvedimento, nominato Unire e rafforzare gli Stati Uniti, offrendo appropriati mezzi richiesti per intercettare e ostacolare atti di terrorismo nel 2001, approvato dal Congresso americano e firmato dal presidente George W. Bush jr. il 26 ottobre 2001, definì gli strumenti con cui «scoraggiare e punire» gli atti terroristici negli Stati Uniti e nel mondo. Di seguito si richiamano due passaggi relativi al reperimento e all’uso di informazioni e ai tempi di detenzione dei sospettati: si tratta di passaggi controversi perché tendono a ledere gravemente i diritti individuali (soprattutto di cittadini non statunitensi e immigrati), in nome dell’emergenza della minaccia terroristica.

Ogni ufficiale investigativo o di polizia, o rappresentante legale del governo, che, in vario modo autorizzato da questo capitolo, ha ottenuto conoscenza dei contenuti di qualsiasi comunicazione per via telefonica, orale, o elettronica, o una prova derivata da questi, può rivelare tali contenuti a qualsiasi altro ufficiale […] nella misura in cui tali contenuti includano informazioni di spionaggio o controspionaggio straniero.

[…] In questa sottosezione, il termine “informazioni dello spionaggio straniero” significa (A) informazioni, che riguardino o meno una persona negli Stati Uniti, che ha a che fare con la capacità degli Stati Uniti di proteggersi contro (I) un reale o potenziale attacco o altri gravi atti ostili di un potere straniero o di un agente di un potere straniero; (II) sabotaggio o terrorismo internazionale da parte di un potere straniero o di un agente di un potere straniero; (III) attività di spionaggio clandestino da parte di un servizio di spionaggio o di una rete di un potere straniero o da parte di un agente di un potere straniero o (B) informazioni, che riguardino o meno una persona negli Stati Uniti, rispetto a un potere straniero o a un territorio straniero che investa (I) la difesa nazionale o la sicurezza degli Stati Uniti; (II) la condotta della politica estera degli Stati Uniti.

[…] L’Avvocato Generale1 può fare accertamenti su uno straniero ai sensi di questo paragrafo se l’Avvocato Generale ha motivi ragionevoli per credere che lo straniero sia impegnato in qualsiasi attività che metta in pericolo la sicurezza nazionale degli Stati Uniti. L’Avvocato Generale avvierà uno straniero detenuto [...] alle procedure di espulsione, o notificherà allo straniero un’incriminazione non più tardi di sette giorni dopo l’inizio di tale detenzione. Se il requisito della sentenza precedente non è soddisfatto, l’Avvocato Generale rilascerà lo straniero. […] Uno straniero detenuto che non è stato espulso e la cui espulsione è improbabile nel futuro ragionevolmente prevedibile, può essere detenuto per periodi aggiuntivi fino a sei mesi solo se il rilascio dello straniero minaccerà la sicurezza nazionale degli Stati Uniti o la salvezza della comunità o di qualunque persona. [...] L’Avvocato Generale rivedrà la convalida ogni sei mesi. Se l’Avvocato Generale determina, a sua discrezione, che la convalida dovrebbe essere revocata, lo straniero può essere rilasciato a tali condizioni che l’Avvocato Generale ritenga appropriate, a meno che diversamente questo rilascio sia proibito dalla legge.

18.2 La guerra al terrorismo e le tensioni in Medio Oriente

La guerra in Afghanistan
L’attenzione dell’amministrazione Bush si rivolse subito verso l’Afghanistan governato dai talebani [▶ cap. 17.8], sospettato di proteggere il regista occulto dell’11 settembre, bin Laden. Con l’autorizzazione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite e con la partecipazione della Nato, il 7 ottobre del 2001 una coalizione internazionale attaccò il regime talebano con bombardamenti aerei e missilistici, volti a colpire i centri di addestramento di al-Qaeda e uccidere il suo capo. La netta superiorità delle forze occidentali, anche grazie all’appoggio di mujahiddin ostili al regime (l’”Alleanza del Nord”), portò a una rapida conquista della capitale Kabul a metà novembre [ 2].

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Nei mesi e negli anni seguenti, però, alcune tenaci cellule di resistenza jihadista si ricomposero e riaprirono il fronte contro le truppe d’occupazione, sempre più in difficoltà nel gestire il dopoguerra e un paese in cui le vaste e impervie aree montuose garantivano rifugi naturali alla resistenza talebana. Durante l’occupazione militare fu avviata una vana caccia all’uomo per catturare bin Laden, operata da forze guerrigliere locali e unità speciali americane, soprattutto sui monti di Tora Bora. Il capo di al-Qaeda sarebbe stato infine individuato e ucciso in Pakistan solo nel maggio del 2011, quando aveva ormai perduto il suo effettivo potere sulla galassia jihadista.
La guerra in Iraq
Sulla scia della psicosi seguita all’11 settembre, l’amministrazione Bush cominciò a organizzare una nuova campagna militare contro l’Iraq, dopo quella del 1991 [▶ cap. 17.8], con due diverse giustificazioni: da un lato la prospettiva di esportare la democrazia, abbattendo la dittatura irachena per stabilizzare e pacificare l’intera regione mediorientale; dall’altro la “guerra preventiva” per fermare la produzione delle armi di distruzione di massa che si sospettava Saddam nascondesse e potesse utilizzare per attentati o attacchi diretti contro gli Stati Uniti e i loro alleati, armando gruppi terroristici. In realtà, il tentativo anglo-statunitense di dimostrare la presenza delle armi di distruzione di massa nell’arsenale iracheno suscitò molti dubbi fin da subito, in particolare tra coloro che ritenevano che l’interesse di Washington fosse soprattutto quello di garantirsi il controllo di nuove risorse energetiche, attraverso i pozzi petroliferi iracheni: in effetti le armi di distruzione di massa irachene non furono mai trovate, ma solo nel 2015 si sarebbe ammesso che i sospetti erano infondati. In mancanza del necessario consenso al Consiglio di sicurezza dell’Onu, Bush costruì una “coalizione di volenterosi”, cui aderirono anche Spagna, Italia e molti paesi dell’Europa orientale. Francia e Germania si schierarono invece contro l’intervento armato in Iraq e in tutta Europa si tennero grandi manifestazioni a favore della pace.
La guerra in Iraq scoppiò, senza esplicito mandato dell’Onu, il 19 marzo 2003 e, dopo un mese di bombardamenti ad alta tecnologia e una rapida avanzata delle forze di terra, si concluse con la presa di Baghdad il 9 aprile [ 3]. Il presidente Bush dichiarò la guerra ufficialmente finita il 1° maggio e successivamente iniziò una lunga cac­cia all’uomo nei confronti di Saddam Hussein, che portò alla sua cattura nel dicembre di quell’anno: il dittatore fu poi giustiziato dopo un processo controverso da un tribunale militare iracheno nel 2006.
Tuttavia, il dopoguerra fu di gran lunga più violento e sanguinoso della conquista del paese, provocando tra il 2003 e il 2008 almeno 150 000 vittime. Lo scioglimento immediato dell’esercito iracheno e l’abbattimento della struttura amministrativa statale crearono una vasta massa di sbandati, molti dei quali furono reclutati dai gruppi integralisti islamici (egemonizzati da al-Qaeda) per condurre operazioni di guerriglia contro la presenza americana in Iraq. Una volta conquistato militarmente il paese, le forze di occupazione occidentali miravano a costituire nuove istituzioni democratiche intorno al primo ministro, lo sciita al-Maliki, scatenando però una feroce resa dei conti tra gruppi settari iracheni, specialmente sciiti e sunniti. I contingenti militari internazionali, soprattutto quelli americani, furono impegnati in severe battaglie a Baghdad e a Falluja e commisero abusi contro i prigionieri iracheni, come quelli denunciati nel 2004 nel carcere di Abu Ghraib. In questo contesto di crescente violenza, l’idea di “esportare la democrazia” perse ogni credito, nonostante nel 2005 si fossero tenute le prime elezioni pluripartitiche. Tra il 2008 e il 2011 le forze statunitensi riuscirono in parte a riportare l’ordine, in concomitanza con la decisione del nuovo presidente democratico Barack Obama di iniziare le graduali operazioni di ritiro delle truppe dall’Iraq, completato nel 2011. Con la fine dell’occupazione militare la guerra civile irachena non solo continuò, ma addirittura si inasprì tra il 2012 e il 2014, alimentando una lunga catena di attentati e scontri tra gruppi settari (sunniti e sciiti), che provocò decine di migliaia di morti. A partire dal gennaio 2014 l’insorgenza dell’Isis, che condusse un’offensiva imponente nell’Iraq settentrionale (di cui parleremo in seguito nel capitolo), trasformò la guerra civile irachena in uno degli scenari di una guerra regionale, che si intrecciò con la guerra civile siriana e spinse all’intervento Stati Uniti, Francia, Regno Unito, Iran, Turchia e Russia.

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Le nuove turbolenze mediorientali
Nei primi anni Duemila, il processo di pace cominciato a Oslo nel 1992 [▶ cap. 17.8] finì per scontrarsi contro l’indisponibilità delle due parti, israeliana e palestinese, a definire un assetto territoriale dei due Stati, la cui esistenza sembrava fosse l’unica soluzione del conflitto pluridecennale. Di conseguenza, dal 2000 fino al 2005, in un quadro ulteriormente radicalizzato dagli attentati dell’11 settembre negli Stati Uniti e dalla successiva fase di instabilità internazionale, si scatenò una Seconda intifada, che vide il pieno coinvolgimento dell’Olp – insieme ad Hamas e ad altri gruppi integralisti islamici – nella campagna terroristica, con il ricorso alle “operazioni martirio”, da parte di uomini e donne pronti a farsi esplodere contro obiettivi israeliani. Tuttavia, mentre l’Olp perdeva di influenza, il suo rivale interno, Hamas, guadagnava consensi sempre più vasti tra la popolazione palestinese.
Le autorità israeliane, che facevano sempre più fatica a controllare la striscia di Gaza, decisero di ritirarsi in forma unilaterale. Proprio la striscia di Gaza era diventata una roccaforte di Hamas, che si mostrò capace di rispondere alle esigenze sociali di una delle aree più densamente popolate al mondo. Ciò aumentò notevolmente il consenso del gruppo integralista, tanto che nelle elezioni tenutesi nei territori palestinesi nel 2006 riuscì a vincere, sfruttando anche le difficoltà dell’Olp, dopo la morte di Arafat nel 2004. La vittoria politica di Hamas ridusse notevolmente le possibilità di stringere una pace duratura con Israele, che, da parte sua, negli stessi anni aveva intrapreso una politica intransigente con i governi di Ariel Sharon e di Benjamin Netanyahu, i due leader del partito conservatore Likud: per contenere la minaccia terroristica, essi edificarono un muro di separazione tra Israele e i territori palestinesi, dove peraltro autorizzarono la costruzione di numerose colonie ebraiche [ 4]. In questo clima si ridussero drasticamente anche gli spazi per i negoziati di pace, mettendo in discussione la soluzione fondata sulla prospettiva “due popoli, due Stati”. A confermare l’alto livello di tensione dell’area, basti citare l’operazione militare lanciata da Tel Aviv nell’estate del 2014 per sradicare Hamas da Gaza, che provocò quasi 2000 morti tra i civili palestinesi, alimentando l’odio e l’incomprensione tra le due parti in lotta.

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18.3 Tensioni e conflitti nell’ex blocco sovietico

La continua instabilità dello spazio ex sovietico
Nella Federazione russa degli anni Novanta, il peso dell’eredità sovietica si aggiunse alle gravi difficoltà della transizione, promuovendo l’ascesa di Vladimir Putin, che prometteva di restaurare legge e ordine nel paese e di recuperare il prestigio a livello internazionale. Tra il 2000 e il 2008 la Federazione russa restò ben integrata nell’alleanza con l’Occidente, consolidata dalla politica della “guerra al terrorismo” che legittimava l’intervento militare in Cecenia contro le forze integraliste islamiche [▶ cap. 15.4].
Tuttavia, i punti di attrito tra Mosca e l’Occidente si fecero più acuti, data la volontà della Nato di voler estendere verso est la propria area di influenza, mentre la Federazione russa era ancora legata all’idea di difendere un ruolo egemone nello spazio ex sovietico. L’apice di queste tensioni si raggiunse con le cosiddette “rivoluzioni colorate” – la “rivoluzione delle rose” in Georgia (2003), la “rivoluzione arancione” in Ucraina (2004), la “rivoluzione dei tulipani” in Kirghizistan (2005) –, durante le quali, a seguito di elezioni contestate, moti di piazza sostenuti dall’Occidente avevano scalzato dal potere figure autoritarie e corrotte vicine a Mosca.

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Nonostante le innumerevoli risorse naturali della Russia, la crisi demografica, il declino industriale e lo scarto tecnologico con l’Occidente tendevano a minare le ambizioni di grande potenza di Putin, soprattutto dopo la caduta verticale dei prezzi del petrolio, a seguito della crisi economica del 2008, con la conseguente riduzione delle entrate russe. Le contestate elezioni politiche del 2012, in cui Putin vinse tra le proteste per brogli, inasprirono la repressione dell’opposizione interna, per timore che una “rivoluzione colorata” potesse svolgersi anche a Mosca. Di qui scaturì una nuova ondata nazionalista, attraverso la quale Putin raffreddò i rapporti con l’Occidente, destabilizzò gli Stati vicini

[ 5] e ne contrastò la volontà di stringere legami con l’Unione Europea e con la Nato (ricorrendo anche all’uso della forza).

I conflitti in Georgia e Ucraina
Fin dall’indipendenza (1991), la Georgia era stata al centro di scontri violenti tra il governo centrale e la comunità abkhaza (concentrata nei territori nordoccidentali, al confine con la Russia, sul Mar Nero). Grazie al sostegno politico-militare che Mosca fornì ai ribelli dell’Abkhazia, tutta la popolazione georgiana della regione subì il trasferimento coatto. Dopo un crescendo di tensioni, dovute in parte alla volontà del governo georgiano di aderire alla Nato e in parte alla volontà russa di mantenere la repubblica caucasica sotto la propria sfera d’influenza, nell’agosto 2008 scoppiò la breve ma sanguinosa guerra per il controllo delle autoproclamate repubbliche filorusse di Abkhazia e Ossezia del Sud. Le truppe di Mosca, con il pretesto di difendere la popolazione osseta, penetrarono in territorio georgiano allo scopo di occuparlo. Una fragile tregua, che congelò il conflitto senza risolverlo, fu raggiunta in settembre, grazie all’intervento del presidente francese Nicolas Sarkozy; i territori occupati dai russi sono però tuttora sotto il loro controllo.

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Il vero terreno di contesa con l’Occidente diventò presto l’Ucraina, che era legata da rapporti intensi e controversi con la Federazione russa e che nel novembre 2013 si apprestava a entrare in associazione speciale con l’Unione Europea. L’improvvisa cancellazione di questo impegno, su pressione russa, portò a un’ondata di proteste che trovarono il loro teatro principale in piazza Indipendenza a Kiev (cosiddetta “Maidan”) e in cui si mescolarono tendenze europeiste e spinte nazionaliste antirusse [ 6]. Il 20 febbraio 2014 la repressione delle forze di polizia provocò un centinaio di morti tra i manifestanti e scatenò un’ondata di indignazione e di rivolta che indusse il presidente ucraino filorusso Viktor Yanukovich a fuggire in Russia.
Tra febbraio e marzo, Putin, con l’intervento di truppe russe senza insegne regolari, ma dirette da Mosca (i cosiddetti “uomini verdi”), e attraverso la ratifica di un referendum manipolato ad hoc, organizzò l’annessione della penisola di Crimea, dove era d’istanza la flotta militare russa del Mar Nero e la maggioranza della popolazione era di lingua russa. Nel frattempo, in tutto il territorio centrorientale dell’Ucraina, dalla regione di Odessa al Donbass (ricco di giacimenti minerari), insorgevano gruppi paramilitari filorussi che, con il concorso di Putin, miravano a destabilizzare e smembrare l’Ucraina, realizzando di fatto la secessione delle autoproclamate repubbliche di Donetsk e Lugansk. Le operazioni militari del governo di Kiev per recuperare il controllo dell’area ribelle, avviate nel luglio-agosto 2014, furono contrastate e interrotte dall’intervento militare diretto di truppe russe; queste costrinsero l’Ucraina a firmare un cessate il fuoco più volte violato e ad accettare il congelamento del conflitto. Finora nel conflitto russo-ucraino si contano oltre 10 000 vittime, tra cui i 300 passeggeri di un volo civile abbattuto dai ribelli filorussi sui cieli ucraini nel luglio 2014.

18.4 Trionfo e crisi della globalizzazione

Un nuovo scenario globale
Nel decennio successivo alla fine della Guerra fredda, con la dissoluzione sovietica [▶ cap. 15.2] e il ripiegamento cinese dopo le proteste e il massacro di piazza Tienanmen [▶ cap. 17.1], gli Stati Uniti rappresentarono il solo polo geopolitico intorno al quale tentare di costruire un nuovo ordine mondiale [▶ cap. 15.3]. Tuttavia, fin dai primi anni 2000, l’ascesa del potere cinese, sotto la spinta di una imponente crescita economica, e la rivendicazione di un nuovo ruolo regionale della Russia cominciarono a limitare il potere globale unipolare degli Stati Uniti, a loro volta colpiti dalla pur modesta recessione di inizio secolo, amplificata dai contraccolpi degli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001. Sul prestigio politico degli Stati Uniti e sul loro primato all’interno dell’Occidente pesavano inoltre i costi umani ed economici derivanti dalle gravi difficoltà politico-militari nelle guerre in Afghanistan e in Iraq.
Dopo la fase di tensione e chiusura seguita alla repressione di piazza Tienanmen nel 1989, le autorità cinesi ripresero progressivamente i rapporti diplomatici e gli scambi commerciali con l’Occidente. Nel dicembre 2001 la Cina fu ammessa nell’Organizzazione mondiale del commercio (Wto), con una decisione che mutò gli assetti economici globali, aprendo all’enorme mercato cinese. I tassi di crescita economica del paese asiatico aumentarono grazie all’intensificazione degli scambi commerciali, i cui proventi furono in parte investiti nell’acquisizione di nuove tecnologie, in parte destinati all’acquisto del debito pubblico americano: la Cina fornì la liquidità necessaria agli Stati Uniti per effettuare investimenti necessari a mantenere alta la crescita economica statunitense, ricavandone un profitto derivante dagli interessi del prestito.

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Nel frattempo, la globalizzazione, criticata come espressione del progetto neoliberista, suscitava movimenti radicali di contestazione, i quali a loro volta tendevano a modularsi in forme organizzative globali come il “Forum sociale mondiale”. Le riunioni del G7 e di altri consessi internazionali cominciarono a essere l’occasione per mettere in scena un vasto dissenso, motivato dalla percezione di persistenti disparità tra Nord e Sud del mondo, che invece andavano drasticamente diminuendo, e ispirato al pensiero politico-economico della “▶ decrescita” che iniziava a diffondersi nel mondo occidentale. In particolare, la riunione del G8 (ai 7 Grandi si aggiunse anche la Russia dal 1997 fino al 2014), che si tenne a Genova nel luglio 2001, diventò teatro di vaste manifestazioni di protesta no global, represse da un imponente apparato di forza pubblica, che provocò un morto e centinaia di feriti. Nel 2015 la Corte europea per i diritti umani condannò l’Italia per il ricorso alla tortura e per il trattamento inumano e degradante riservato nei confronti dei manifestanti [ 7]

Un altro volto della globalizzazione che emerse in quegli anni fu quello di una solidarietà sociale che attraversava i confini nazionali e si concretizzò soprattutto in occasione di disastri, come il catastrofico tsunami che colpì i paesi dell’Oceano Indiano nel dicembre 2004 [▶ eventi].

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  eventi

Lo tsunami del 2004: una tragedia globale

Il terremoto che coinvolse una vastissima area dell’Asia sudorientale la notte del 26 dicembre 2004, da cui poi scaturì un violentissimo maremoto, costituì uno dei disastri naturali più gravi nella storia moderna. Le vittime furono almeno 230 000 (di cui circa un terzo bambini), ma si stima che possano essere state fino a 300 000, mentre gli sfollati raggiunsero la cifra di cinque milioni. Tra le vittime vi furono anche molti turisti europei e americani (quasi 2000) che, sotto Natale, erano in vacanza sull’Oceano Indiano.

Il terremoto, di magnitudo 9,1 della scala Richter, ebbe il proprio epicentro al largo della costa nordoccidentale dell’isola di Sumatra (Indonesia) e colpì in prima battuta Indonesia, Malesia e Thailandia. Il movimento tellurico provocò quindi ondate anomale alte fino a 51 metri che si rovesciarono con enorme violenza sulle coste, travolgendo i villaggi dislocati sul litorale dell’Oceano Indiano. La mancanza di un sistema di allarme coordinato impedì di mettere in salvo le persone anche sulle coste orientali dell’India, dello Sri Lanka, della Birmania, del Bangladesh e delle Maldive, dove si ebbero oltre 50 000 vittime.

La natura globale della tragedia attirò l’attenzione dei media di tutto il mondo e attivò una corsa alla solidarietà per aiutare le popolazioni colpite.

La crisi finanziaria del 2007-08
Nei primi anni del nuovo millennio si verificò una notevole crescita del debito pubblico statunitense, che venne finanziato soprattutto dalla Cina e dalle altre economie asiatiche, le quali continuavano ad esportare in tutto il mondo. D’altro canto, a seguito delle crisi degli anni Novanta in Asia e in Russia, che avevano portato a imponenti fughe di capitali, le banche statunitensi, anche attraverso la collaborazione di quelle europee, ottennero flussi di credito supplementare che prestarono spregiudicatamente sotto forma di mutui vantaggiosi ai clienti meno abbienti, soprattutto nel settore edilizio. Il mercato immobiliare americano e la borsa di Wall Street conobbero quindi una straordinaria espansione, raggiungendo il picco tra il2006 e il2007. Banche statunitensi ed europee spezzettarono questi prestiti, difficili da riscuotere, e li misero in vendita in pacchetti di ▶ mutui sub-prime, aggirando i controlli del governo americano, della Federal Reserve Banke delle agenzie governative addette al controllo del mercato finanziario.

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Allora cominciò a diffondersi la sfiducia di risparmiatori e investitori nella capacità da parte delle banche europee di garantire la sicurezza dei mutui sub-prime: il conseguente ritiro della liquidità dai depositi bancari provocò difficoltà crescenti che culminarono con la bancarotta, nel settembre del 2007, della banca britannica Northern Rock. Poi, dall’inizio del 2008, sull’onda del panico, l’esplosione della bolla immobiliare investì le banche britanniche e americane, alcune delle quali dichiararono il fallimento, mentre altre furono rifinanziate e ristrutturate dai governi di Londra e di Washington: il 15 settembre 2008, il fallimento di una delle più antiche e importanti banche di investimento, la Lehman Brothers, con sede a Manhattan, fece presagire il possibile collasso del sistema finanziario mondiale

[ 8]. Nei mesi successivi il governo americano, con un’operazione senza precedenti della Federal Reserve, cominciò a iniettare ingenti quantità di dollari per rispondere alla sempre più drammatica carenza di liquidità nel sistema bancario americano ed europeo e per evitare così il rischio di ulteriori bancarotte.

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La recessione e l’elezione di Obama
Mentre gli interventi delle autorità pubbliche, anche mediante il rifinanziamento o la nazionalizzazione di importanti banche commerciali e di investimento, riuscirono a contenere la crisi finanziaria, cominciava però a emergere la ▶ recessione economica, che negli Usa durò per larga parte del 2009. La stretta creditizia (periodo in cui calano drasticamente i crediti elargiti, in questo caso dovuto alla crisi delle banche che sono i maggiori enti creditori) che ridusse gravemente la quantità di investimenti nel settore edilizio, ma non solo, negli Stati Uniti determinò anche una caduta dei prezzi delle case del 30% e un incremento dei disoccupati da 7 a 15 milioni nel giro di un anno. La crisi si tradusse in un’ulteriore concentrazione della ricchezza in mano a segmenti ristretti della società americana a svantaggio soprattutto dei redditi delle classi medie e delle generazioni più giovani.
Nel momento più grave della crisi, nell’autunno del 2008, la politica americana conobbe una svolta con l’elezione di Barack Obama, il primo afroamericano a diventare presidente degli Stati Uniti [ 9]. Le enormi attese suscitate dalla sua elezione in tutto il mondo e amplificate dalla prematura assegnazione del premio Nobel per la pace nel 2009, furono duramente contrastate dall’ala più radicale dei conservatori statunitensi, raccolta nel movimento del Tea Party, il cui nome celebrava il Boston Tea Party, l’episodio che segnò l’inizio della rivoluzione americana nel 1773 [ 10]. Le aperture di Obama al mondo musulmano consentirono di chiudere la fase della “guerra al terrore”, anche se la sua azione non riuscì a risolvere i conflitti in atto in Medio Oriente. Tra le misure più significative di politica interna figurarono l’estensione della copertura sanitaria alle fasce più deboli della popolazione (Obamacare), l’adozione di stimoli per il rilancio della produzione e la creazione di nuovi posti di lavoro, l’estensione dei diritti civili per le minoranze sessuali e razziali [▶ idee], l’impegno a ridurre l’emissione dei ▶ gas serra e a contenere la vendita delle armi.

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  idee

I Gay pride

Il movimento dell’“orgoglio gay”, che coinvolge lesbiche, omosessuali, bisessuali, transessuali (Lgbt), nacque nel contesto delle lotte per l’emancipazione e la diffusione dei diritti civili che presero piede nell’America degli anni Sessanta. Il 28 giugno 1969, dopo che la polizia aveva assaltato il bar gay Stonewall Inn a New York, si scatenò un’ondata spontanea di proteste e rivolte che il 2 novembre successivo sfociò nell’organizzazione della prima manifestazione di “orgoglio omosessuale”. A un anno dalla sollevazione per lo Stonewall Inn, il 28 giugno 1970, gli attivisti Lgbt realizzarono la prima marcia autorizzata del “Gay pride”.

Da allora, tra ostinate resistenze e opposizioni, frutto dei pregiudizi circolanti, si affermò la consuetudine di tenere nel mese di giugno, con cadenza annuale, marce per promuove la lotta contro la discriminazione e la violenza nei confronti di Lgbt. Nel corso degli anni Ottanta e Novanta queste manifestazioni abbandonarono in parte le spinte più radicali, tese alla rivendicazione dell’identità Lgbt, con l’intenzione di coinvolgere nella battaglia per i diritti civili una più ampia fascia di militanti anche del mondo eterosessuale. Sotto la bandiera arcobaleno, esse si sono così diffuse in tutto il mondo, anche se tuttora in molti paesi sono accolte con ostilità, che a volte sfocia in aperta violenza, o addirittura non vengono proprio autorizzate.

Storie. Il passato nel presente - volume 3
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