18.5 Le primavere arabe, le guerre civili e l’integralismo

18.5 Le primavere arabe, le guerre civili e l’integralismo

La rivolta nata dai social network
I paesi del Maghreb e del Medio Oriente erano per lo più retti da dittature che cercavano di contenere e reprimere i movimenti integralisti islamici e di garantire gli equilibri complessivi della regione. Tuttavia, a partire dal 2008 un’ondata crescente di scontento popolare cominciò a scuotere quei regimi, mobilitando, anche sotto la pressione della crisi economica, vaste folle contro l’inflazione, la disoccupazione, la corruzione e l’assenza di libertà. Tra gennaio e marzo del 2011, le cosiddette “primavere arabe” (in assonanza con la “primavera dei popoli” nell’Europa del 1848) abbatterono alcune dittature che erano in piedi da decenni: la dittatura di Zine Ben Alì, instaurata in Tunisia nel 1987, quella di Hosni Mubarak, stabilita in Egitto nel 1981, e quella di Muammar Gheddafi, alla guida della Libia addirittura dal 1969 [ 11].
Tra le più significative novità di questo complesso processo rivoluzionario va ricordato il coinvolgimento di un alto numero di donne e l’uso diffuso della tecnologia digitale e comunicativa [▶ fenomeni], le cui risorse (social network, e-mail, smartphone, telecamere personali), essendo sottratte al controllo dei regimi, consentirono ai ribelli di discutere le prospettive politiche, comunicare rapidamente e organizzare le loro azioni con efficacia, pubblicizzandole in tempo reale su scala globale.
La fine dei regimi in Tunisia, Egitto e Libia
La rivolta ebbe inizio in un piccolo villaggio tunisino nel dicembre 2010, quando un giovane venditore ambulante, Mohamed Bouazizi, cui era stato confiscato il carretto di frutta e verdura dall’autorità municipale, si diede fuoco per protesta. In breve tempo le manifestazioni giunsero fino a Tunisi e, nonostante il duro intervento della polizia, scossero il regime di Ben Alì, il quale fu costretto alla fuga a metà gennaio 2011. Per quanto i gruppi integralisti abbiano tentato di assumere il controllo della situazione, la rivoluzione tunisina è stata l’unica tra quelle della primavera araba a concludersi con l’instaurazione di una, sia pur fragile, Repubblica parlamentare.
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L’insurrezione in Egitto contro la dittatura di Hosni Mubarak, che si svolse soprattutto in piazza Tahrir al Cairo dalla fine di gennaio 2011, fu ben più drammatica e incerta di quella tunisina [ 12]. La caduta e il successivo processo a Mubarak in febbraio aprirono un vuoto di potere in cui i Fratelli musulmani, il partito integralista islamico bandito da Nasser nel 1952 [▶ cap. 11.4], conquistarono un crescente favore popolare. Nel maggio 2012, dopo che fu approvata una nuova Costituzione, fu eletto alla presidenza il candidato islamista Mohamed Morsi, il quale tentò di instaurare misure ispirate alla sharia (la legge islamica), trovando però una resistenza sempre più veemente e aprendo una profonda spaccatura nella società egiziana. Nel luglio 2013 il generale al-Sisi guidò un colpo di Stato che mirava a bandire ogni organizzazione islamista e a restaurare un forte potere centrale. Dopo una violenta repressione dell’opposizione, che provocò oltre 600 morti il 14 agosto 2013 in piazza Tahrir, all’inizio dell’anno successivo il governo di al-Sisi varò una nuova Costituzione, che legittimò la stretta autoritaria.

Sulla scia degli eventi in Tunisia ed Egitto, la rivoluzione scoppiò anche in Libia, uno Stato dalle fragili basi, creato a partire dal 1912 dalla dominazione coloniale italiana [▶ cap. 1.7] aggregando territori appartenenti a culture e tradizioni tribali assai diverse, che era soggetto da circa quarant’anni alla dittatura di Gheddafi. Intorno alla metà di febbraio una sommossa nella città marittima di Bengasi fu brutalmente repressa dal regime, ma il movimento di protesta popolare continuò ad allargarsi, fino a coinvolgere la stessa capitale Tripoli. In aprile, quindi, un’operazione militare condotta da una coalizione internazionale guidata da Stati Uniti, Francia, Regno Unito e Italia mirò a neutralizzare il ricorso all’aviazione da parte di Gheddafi per colpire i ribelli. Alla fine di agosto i ribelli conquistarono Tripoli e nell’ottobre successivo uccisero il dittatore ormai destituito. Le gravi condizioni di anarchia, in cui venne così a trovarsi la Libia, rinfocolarono le lacerazioni tribali e lasciarono spazio crescente ai gruppi armati e agli integralisti islamici, precipitando in una nuova guerra civile nel 2014 e rendendo estremamente ardua la formazione di una nuova autorità statale.

  fenomeni

I social network

Il primo decennio degli anni 2000 è stato indubbiamente marcato dall’esplosione dei social network, strumenti di interrelazione e comunicazione telematica fondati sulla rete Internet.

Facebook, fondato nel 2004 da Mark Zuckerberg, è nato come sistema di interazione e comunicazione tra studenti delle università americane, ma è poi diventato il principale social network su scala globale. I suoi utenti attivi sono passati dai 132 milioni alla fine del 2008 agli oltre 2 miliardi all’inizio del 2017. Potente strumento di condivisione di file, foto e messaggi, esso è stato anche discusso per il suo uso disinvolto di dati sensibili, soprattutto in occasione di importanti campagne elettorali.

Twitter è una rete sociale costituita nel 2006, che prende il nome dal verbo tweet (cinguettare) e che fornisce un sistema di scrittura di messaggi brevi (tweet appunto) di 140 caratteri (dal 2017, di 280). Grazie all’uso dell’hashtag (#), anteposto a parole o combinazioni di parole all’interno di un tweet, è possibile creare collegamenti intertestuali tra i tweet di tutti gli utenti, che consentono di moltiplicarne l’impatto e la divulgazione.

Di recente, Facebook ha anche acquisito due nuovi piattaforme: WhatsApp e Instagram. Il primo, creato nel 2009, consente di inviare messaggi testuali o vocali, fotografie e video. Il secondo, inventato nel 2012, consente di scattare, modificare e condividere fotografie ed è usato soprattutto dalle fasce più giovani della popolazione.

Nel tempo, i social network non solo hanno mutato in profondità il rapporto tra sfera pubblica e privata, ma hanno inciso radicalmente sul modo di comunicare e quindi anche sul modo di fare politica.

La guerra civile siriana
Alla metà di marzo 2011, i manifestanti scesero in piazza anche in Siria – un paese molto frammentato sotto il profilo religioso e culturale – per chiedere riforme democratiche. Ma la repressione governativa, particolarmente violenta a Dara’a nel Sud-Ovest del paese, radicalizzò l’opposizione, che non era più disposta ad accettare l’esistenza del regime di Bashar al-Assad, capo del Partito Baath [▶ cap. 17.7] e rappresentante di una minoranza sciita al governo della Siria (che è a maggioranza sunnita). Ne scaturì una guerra civile devastante, in cui l’opposizione al governo di Damasco si frammentò in gruppi laici e religiosi, a loro volta divisi fra sunniti e sciiti, oltre ai curdi [▶ cap. 2.7] prevalenti nelle regioni settentrionali e orientali del paese [ 13]. Nell’agosto 2013 il governo siriano fu accusato di usare armi chimiche contro l’opposizione, ma la comunità internazionale fu incapace di reagire.

Dopo l’occupazione statunitense dell’Iraq nel 2003, aveva cominciato a prendere forma il cosiddetto Stato islamico (o Isis: Islamic State of Iraq and Syria), un movimento di orientamento sunnita, vicino ad al-Qaeda, che partecipò alla guerra civile seguita alla caduta di Saddam Hussein e si rafforzò grazie ai soldati, agli ufficiali e alle armi dell’ex esercito iracheno. Con il ritiro americano del 2011, l’Isis guadagnò terreno in Iraq nordoccidentale e in Siria orientale, conquistando prima Mosul (Iraq), poi Raqqa (Siria) e raggiungendo il culmine della sua forza nel 2014 con la proclamazione del nuovo Califfato, sotto il califfo Abu Bakr al-Baghdadi. L’Isis, nel corso degli anni, aveva raccolto un vasto consenso grazie a una propaganda efficace e pervasiva su Internet, in cui ostentava la sua feroce campagna contro gli “infedeli”. Stimolando e sfruttando una crescita del radicalismo islamico nelle comunità musulmane di tutto mondo, attrasse numerosi combattenti stranieri, anche dall’Occidente, che decisero di andare a combattere in Siria o in Iraq.
Tra il 2015 e il 2016 la lotta contro l’Isis diventò quindi il principale obiettivo del regime di al-Assad, che poteva contare sul massiccio sostegno militare di Russia e Iran. A colpire le forze integraliste di al-Baghdadi contribuirono anche una campagna di bombardamenti aerei statunitensi e la guerriglia curda, la quale a sua volta era impegnata a respingere gli attacchi delle truppe turche che avevano occupato ampie parti della Siria settentrionale. Entro la metà del 2017, con la riconquista governativa dei territori tra Mosul e Raqqa, lo Stato islamico venne smantellato, anche se i suoi combattenti continuavano (e continuano ancora oggi) ad animare cellule di resistenza. Nel frattempo, a fine dicembre 2016, le forze di al-Assad espugnavano Aleppo, una delle principali roccaforti dei ribelli, al termine di una lunga e sanguinosa battaglia di posizione. Nella lotta totale contro le opposizioni, il regime di al-Assad fu accusato ripetutamente di aver utilizzato armi chimiche, colpendo anche la popolazione civile. La guerra civile siriana, che coinvolse direttamente le principali potenze regionali, oltre alla Russia e agli Stati Uniti, provocò quasi 500 000 morti e oltre sette milioni di rifugiati.

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Radicalismo e integrazione in Europa
Tra fine Ventesimo e inizio Ventunesimo secolo, la minaccia del terrorismo islamico, in connessione con le crisi mediorientali, è diventata parte integrante della scena politica europea. Già nel 1995 la Francia, a causa del suo sostegno al regime militare instauratosi in Algeria nel 1992, fu colpita da un gruppo terrorista islamico; ma fu soprattutto dopo l’11 settembre 2001 che la minaccia si fece più concreta. Gli attacchi di Madrid dell’11 marzo 2004 [ 14] e di Londra del 7 luglio 2005 furono eseguiti da cellule di al-Qaeda in reazione alla partecipazione di Spagna e Regno Unito nella guerra in Iraq. Dopo una tregua di dieci anni, una nuova ondata di attacchi si dispiegò in concomitanza con l’esperienza dello Stato islamico nel 2015-17, colpendo Francia, Belgio, Germania, Regno Unito e Spagna. Tra questi, ebbe un notevole impatto emotivo quello avvenuto a Parigi il 13 novembre 2015, quando un commando islamista colpì vari luoghi della capitale francese, in particolare il teatro Bataclan, provocando il massacro di 130 persone.
La radicalizzazione religiosa, all’interno delle comunità musulmane in Europa, ha coinvolto soprattutto i giovani, esasperando il conflitto con la generazione dei propri padri, che erano emigrati dalle colonie e si erano almeno in parte integrati; questo ha contribuito a mettere in discussione i modelli di integrazione multiculturale (fino ad allora considerati di successo) in Regno Unito, Belgio, Olanda e Svezia e a incrinare il principio repubblicano di eguaglianza tra cittadini in Francia. D’altro canto, nelle periferie francesi, come in quelle belghe, olandesi, inglesi e svedesi, la propaganda integralista islamica, spesso veicolata attraverso Internet, ha fatto leva sulla frustrazione e sul disagio dei giovani, spingendoli alla scelta della lotta armata contro l’Occidente quale unica via di riscatto sociale e culturale. Con gli anni si è sempre più aggravata la situazione nelle periferie disagiate (banlieues) delle grandi città francesi, dove sono tutt’ora concentrate le popolazioni di origine maghrebina e il tasso di disoccupazione è altissimo. Nell’autunno del 2005 la morte accidentale di due giovani, inseguiti dalla polizia per reati comuni, attizzò una rivolta che mise a ferro e fuoco le periferie di Parigi, facendo emergere il profondo malcontento nei confronti delle istituzioni, accusate di discriminazioni razziste [ 15]. Su questo stato di disagio si è innestata la radicalizzazione islamica, promossa dalla propaganda integralista, la quale, sfruttando anche il pretesto delle ricorrenti crisi mediorientali, ha creato le premesse per la deriva verso il terrorismo.

Gli attacchi terroristici in Europa negli anni 2000

Rivendicazione

11 marzo 2004

Spagna - Madrid

192 morti, 2050 feriti

al-Qaeda

7 luglio 2005

Regno Unito - Londra

56 morti, (inclusi 4 attentatori), 784 feriti

al-Qaeda

22 luglio 2011

Norvegia - Oslo e Utøya

77 morti, 319 feriti

Anders Breivik

7-9 gennaio 2015

Francia - Île-de-France

20 morti (inclusi 3 attentatori), 22 feriti

al-Qaeda / Isis

13 novembre 2015

Francia - Parigi

137 morti (inclusi 7 attentatori), 368 feriti

Isis

22 marzo 2016

Belgio - Bruxelles

35 morti (inclusi 3 attentatori), 340 feriti

Isis

14 luglio 2016

Francia - Nizza

87 morti (incluso 1 attentatore), 434 feriti

Isis

19 dicembre 2016

Germania - Berlino

12 morti, 56 feriti

Isis

22 maggio 2017

Regno Unito - Manchester

23 morti (incluso 1 attentatore), 119 feriti

Isis

4 giugno 2017

Regno Unito - Londra

11 morti (inclusi 3 attentatori), 48 feriti

Isis

17 agosto 2017

Spagna - Barcellona

25 morti (inclusi 8 attentatori), 152 feriti

Isis

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Di fronte a questi problemi, la Chiesa cattolica è stata caratterizzata da posizioni diverse, legate ai due pontefici che l’hanno governata tra il 2005 e oggi. Benedetto XVI (il teologo tedesco Joseph Ratzinger), tra il 2005 e il 2013, intese ribadire e difendere l’identità della Chiesa, richiamando ai valori cristiani un’Europa sempre più laica e secolarizzata; il suo successore, papa Francesco (il gesuita argentino Jorge Bergoglio), ha invece preferito attuare una politica di apertura al mondo e di evan­gelizzazione.

Negli ultimi decenni, nel mondo occidentale sono emerse forme di integralismo cristiano che hanno trovato giustificazione e consenso, associando il fenomeno dell’immigrazione con il terrorismo islamista. Appellandosi all’idea di “guerra di civiltà” e intrecciandosi con eredità neofasciste e neonaziste, esso ha alimentato gesti terroristici il cui esempio più clamoroso fu il massacro che il norvegese Anders Breivik compì a Oslo e a Utøya il 22 luglio 2011. In un duplice attentato, volto soprattutto a colpire i giovani iscritti del Partito laburista norvegese (favorevole a politiche di accoglienza e all’integrazione multietnica) che stavano partecipando a un campo politico sull’isola di Utøya, uccise 77 persone.

Tuttavia, un vario mondo del volontariato laico e religioso, profondamente ostile all’idea di una radicale contrapposizione con il mondo musulmano, svolge da tempo attività a favore dell’accoglienza degli immigrati.

18.6 Incerte prospettive europee e nuove gerarchie globali

Allargamento e riforma dell’Ue
Fin dal periodo delle transizioni successive al 1989, le classi dirigenti ex o postcomuniste dell’Est Europa avevano cominciato a coltivare la prospettiva dell’integrazione nell’Unione Europea, quale coronamento della nuova, seppure contrastata, fase di democratizzazione. Ad ostacolare questi progetti vi era la necessità di adeguarsi ai parametri di Maastricht [▶ cap. 15.5]. La Commissione europea, sotto la presidenza di Romano Prodi, avvallò e accelerò questo processo che sancì l’ingresso di Slovenia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Polonia nel 2004, cui seguirono Romania e Bulgaria nel 2007 e infine la Croazia nel 2013.
Proprio nel sessantesimo anniversario della fine della Seconda guerra mondiale, l’Europa sembrava aver trovato un ordine basato sulla pace e sulla stabilità, capace di superare le vecchie divisioni tra Est e Ovest. Tuttavia, le memorie del Novecento e delle catastrofi che avevano segnato la prima metà del secolo continuavano a tenere distanti i due ex blocchi, seguendo la linea delle precedenti divisioni geopolitiche e ideologiche. In Europa occidentale, mentre l’antifascismo quale chiave di legittimazione democratica entrava in una fase di crisi, la memoria pubblica coltivava la centralità della Shoah quale “male assoluto” e perciò fonte duratura di una lezione etica fondata sul primato dei diritti umani. In Europa orientale, invece, la memoria pubblica tendeva ad assimilare il nazismo e il comunismo nella comune prospettiva del totalitarismo, enfatizzando il ruolo della “doppia occupazione” da parte della Germania di Hitler prima e dell’Unione Sovietica di Stalin poi, al fine di attenuare le responsabilità nazionali nel sostegno a questi regimi e alle loro politiche omicide e oppressive.
A causa del fallimento del processo costituzionale dell’Unione Europea, bocciato dai referendum del 2005 in Francia e in Olanda [▶ cap. 15.5], venne meno la possibilità di dare un quadro politico coerente all’Europa; con il Trattato di Lisbona del 2007 si cercò però di consolidare l’impianto istituzionale dell’Unione Europea. Furono ridefinite le competenze degli Stati membri, fu creata la figura del presidente del Consiglio europeo come legale rappresentante dell’Ue, furono rafforzate le prerogative dell’Alto rappresentante per la Politica estera e la Sicurezza e fu inoltre prevista una procedura di recesso dall’Unione stessa. Nel 2012 all’Unione Europea è stato conferito il premio Nobel per aver assicurato oltre cinquant’anni di pace, democrazia e rispetto dei diritti umani in Europa.

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Dal successo alla crisi dell’Eurozona
Alla fine degli anni Novanta, la Germania attraversò una fase di difficoltà dovuta all’integrazione delle più arretrate regioni dell’ex Ddr [▶ cap. 15.2]. Quindi, nel 2003-04 il cancelliere socialdemocratico Gerhard Schröder (al governo fra il 1998 e il 2005) adottò una serie di riforme che, pur comprimendo i salari e i consumi, garantirono nel tempo un notevole sviluppo economico al paese, fondato sulla competizione all’interno dell’area euro e sulla capacità di produzione ed esportazione delle merci tedesche in Asia e negli Stati Uniti, oltre che nei paesi dell’Europa orientale. Di qui scaturì il ruolo centrale e insieme controverso della Germania guidata, a partire dal 2005, dalla cancelliera cristianodemocratica Angela Merkel [ 16]: questa si trovò ad affrontare la lunga fase della crisi europea da una posizione di forza e al tempo stesso a rispondere con crescente riluttanza alla necessità di dare un nuovo assetto politico alla costruzione europea.
In Europa gli effetti della recessione cominciarono a manifestarsi tra il 2009 e il 2010, colpendo soprattutto i paesi dalle finanze pubbliche più fragili come Grecia, Portogallo, Irlanda, Cipro, Spagna e Italia, dove scoppiò la crisi dei debiti sovrani, cioè dei singoli Stati che componevano l’Unione. La crisi era complicata dall’esistenza di un’area monetaria comune priva di una politica fiscale unitaria (dunque con differenti regimi di tassazione, sistemi pensionistici ecc.). Per rispondere alla crisi fu adottata una politica di austerità che imponeva un rigido controllo delle finanze pubbliche e dell’inflazione, comprimendo la crescita e i consumi per salvaguardare la stabilità della moneta e dunque il valore degli stipendi e delle pensioni futuri. Al tempo stesso, la Banca centrale europea, dal 2012 sotto la direzione dell’italiano Mario Draghi, si distinse nell’acquisto dei titoli di Stato dei paesi più a rischio (come l’Italia) al fine di stabilizzarne il debito, abbassando il costo sugli interessi e garantendo così la sopravvivenza dell’euro. Però, dopo un decennio di politiche di austerità, il maggior problema dell’Eurozona resta la bassa crescita economica.

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Tra il 2009 e il 2010 si aprì la più acuta delle crisi, quando il governo greco rivelò le reali dimensioni del debito pubblico, ben superiori a quelle consentite dai parametri di Maastricht, ma a lungo tenute nascoste per consentire l’accesso del paese all’euro. Peraltro, a causa della crisi finanziaria del 2008, che piegò le principali risorse economiche del paese (turismo e commercio marittimo), il debito pubblico greco era cresciuto al di fuori di ogni controllo. Per evitare la bancarotta, il governo di Atene dovette perciò far fronte alle richieste sempre più impellenti del Fondo monetario internazionale e degli altri paesi europei, i quali miravano a imporre il varo di riforme strutturali per ridurre la spesa pubblica, in cambio di prestiti che però finivano con aumentare il debito greco. Tra il 2010 e il 2015 i negoziati tra le parti si fecero sempre più aspri, mentre le condizioni dell’economia greca si aggravavano: il rapido impoverimento colpiva vasti strati di popolazione e favoriva l’emergere del malcontento sociale e della violenza politica, tanto nazionalista quanto anarchica. Per la sua radicale opposizione a riforme quanto mai impopolari, il Partito Syriza di Alexis Tsipras, salito al governo nel 2015, cercò invano di rinegoziare i termini degli accordi con l’Unione Europea e l’Fmi. Tuttavia, all’inizio del luglio 2015, pur avendo vinto un referendum che rigettava il programma delle istituzioni europee, il governo greco fu costretto ad accettare un piano di severe riforme in cambio di un nuovo finanziamento del debito, che evitò una drammatica uscita della Grecia dall’Eurozona.
La crisi migratoria in Europa
Le migrazioni sono un processo epocale, provocato dallo scoppio di guerre e crisi politiche, nonché dalla ricerca di maggior benessere, sollecitata dalla diffusione dei mezzi di comunicazione di massa che consentono un confronto “in tempo reale” tra stili e qualità di vita nel Sud e nel Nord del mondo, rendendo più visibili le differenze tra le zone più povere e arretrate e quelle più ricche e moderne. Oggi si conta che siano circa 60 milioni i rifugiati nel mondo, a seguito di guerre, crisi e carestie [ 17]. In particolare, il Mediterraneo è diventato uno spazio cruciale per le rotte dell’immigrazione dall’Africa verso l’Europa. Alla ricerca di sopravvivenza, sicurezza e maggior benessere, centinaia di migliaia di migranti si sono imbarcati e continuano a imbarcarsi dalle coste tunisine e libiche, talvolta con la mediazione di organizzazioni criminali, per affrontare un viaggio rischioso e costoso su mezzi di fortuna: secondo le stime più recenti, tra il 2002 e il 2017 circa 35 000 persone sono morte per naufragio nel Mediterraneo. Nel 2008 il premier italiano Berlusconi e il dittatore libico Gheddafi siglarono un accordo che affidava alle autorità di Tripoli il controllo dell’emigrazione, contenendo così il numero di imbarchi verso le coste italiane, ma non il numero di migranti, che venivano bloccati in Libia, spesso in condizioni degradanti. Dopo il collasso del regime di Gheddafi nel 2011 i flussi di migranti provenienti dall’Africa centrale e settentrionale ripresero a ritmi crescenti e la tragedia maggiore si verificò nell’aprile 2015 col rovesciamento di un barcone nel Canale di Sicilia, in cui morirono oltre 800 persone.

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A questi si aggiunsero, dalla tarda primavera del 2015, i profughi della guerra civile siriana, irachena e afghana, i quali si incamminarono lungo la “rotta balcanica”, dalla Turchia (che comunque ne ospitava più di tre milioni), attraverso la Grecia, la Macedonia, la Bulgaria e la Serbia, verso l’Europa centrale. L’arrivo di oltre un milione di profughi, tra i quali era difficile distinguere l’▶ emigrante economico dal ▶ richiedente asilo politico, destabilizzò il quadro politico europeo. I paesi dell’Europa centrorientale appartenenti all’Ue (a partire dall’Ungheria, guidata dal nazionalista Viktor Orban) chiusero le frontiere; infatti questi paesi, afflitti da una cronica emigrazione delle fasce più giovani della popolazione verso l’Europa occidentale, temevano di perdere la propria identità e omogeneità culturale, conquistata dopo il 1945 con drammatici spostamenti di popolazione. La Germania, su spinta della cancelliera Merkel, si aprì ai profughi con l’intenzione di integrarli nel proprio mondo del lavoro, suscitando forti tensioni. In ogni caso, la questione della gestione dei flussi migratori resta una delle più controverse, in quanto investe i rapporti tra i diversi paesi dell’Ue e i rapporti di questi con i paesi dell’altra sponda del Mediterraneo.
La crisi politica dell’Europa: i populismi
La crisi dell’Eurozona a partire dal 2010, la crisi dei rifugiati del 2015, gli attentati terroristici del 2015-17 contribuirono a delegittimare il quadro delle forze politiche che avevano governato tra gli anni Novanta e i Duemila. Sono quindi emersi ampi spazi per movimenti politici diversi tra loro ma animati da una comune e radicale volontà di rovesciare le classi politiche esistenti (percepite come élite rispondenti più ai mercati finanziari globali che alla sovranità popolare), di ristrutturare l’Unione Europea, di riaffermare le logiche della sovranità e dell’identità nazionale, di contrastare e bloccare il fenomeno epocale delle migrazioni. Alcuni movimenti, come il Front National di Marine Le Pen in Francia, la Lega (ex Lega Nord) di Matteo Salvini in Italia o l’UK Independence Party (Ukip) di Nigel Farage, risalgono agli anni Settanta e Ottanta, ma si sono ridefiniti sulla base delle nuove urgenze politiche in chiave nazionalista; proprio facendo leva su sentimenti nazionalisti, l’Ukip promosse un referendum sull’appartenenza del Regno Unito all’Unione Europea, che si svolse il 23 giugno 2016 e vide la vittoria della Brexit [ 18], cioè dei sostenitori dell’uscita dall’Ue. Altri, del tutto nuovi, come il Movimento 5 stelle in Italia o Podemos in Spagna, sono caratterizzati dalla volontà di rappresentare coloro che si sono considerati esclusi dal sistema, rispecchiandone integralmente aspirazioni e pregiudizi antipolitici. Altre esperienze, infine, come quella del primo ministro ungherese Viktor Orban e del suo Partito Fidesz interpretano tendenze (particolarmente diffuse nell’Est Europa) alla chiusura antidemocratica e al rifiuto dei principi e dei trattati dell’Ue, finendo così per rovesciare la spinta alla democratizzazione dei paesi ex comunisti nei due decenni precedenti. Un tratto comune a questi diversi movimenti e governi è stato identificato nel“populismo”, in quanto essi si presentano come gli unici in grado di dar voce a un “popolo” che si considera inascoltato e ininfluente; questa pretesa è l’espressione di una profonda sfiducia verso i tradizionali istituti della democrazia costituzionale e rappresentativa, che a sua volta tende a incrinare lo Stato di diritto.
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Questione femminile e questione ecologica
La condizione della donna nel mondo occidentale, a partire dagli anni Settanta, conobbe importanti progressi che contribuirono alla sua emancipazione in campo sessuale, sociale e professionale. Nonostante un quadro legislativo favorevole in molti paesi europei, dove sono riconosciuti il diritto all’aborto, le pari opportunità e la tutela della maternità, continuano di fatto a riproporsi gravi forme di discriminazione e di violazione dei diritti fondamentali, come una persistente disparità nella remunerazione lavorativa e le frequenti violenze contro le donne, soprattutto all’interno delle mura domestiche. Al di fuori del mondo occidentale la questione femminile si manifesta tuttora in forme particolarmente gravi. Nelle società musulmane, soprattutto dove è instaurato il dominio della sharia, ma non solo, la donna è costretta a indossare i copricapi tradizionali (hidjab, velo e burkha) e a condurre una vita segregata. In Cina e in India la donna è relegata in una posizione di netta subalternità all’uomo. Lo stupro resta uno dei più frequenti crimini commessi nelle società contemporanee ed è spesso praticato come arma di guerra con il fine di colpire la comunità nemica nella sua componente più fragile.
Un’altra grande problematica contemporanea è lo stato dell’ambiente. L’estensione continua delle aree di produzione industriale su scala globale, il conseguente aumento dei consumi e il ricorso sistematico alla deforestazione provocarono, fin dagli anni Ottanta, una moltiplicazione delle emissioni di gas serra nell’atmosfera [ 19], contribuendo in maniera decisiva al surriscaldamento del pianeta (un aumento di 0,76 °C nell’ultimo secolo, destinato a crescere nei prossimi decenni). L’innalzamento della temperatura, a sua volta, sta conducendo a un rapido scioglimento dei ghiacciai, all’inaridimento di molte zone della Terra e all’ innalzamento del livello delle acque. L’insieme di questi fenomeni, fin dalla Conferenza di Rio de Janeiro nel 1992, impose ai maggiori paesi industrializzati l’urgenza di trovare e adottare contromisure che preservino l’ecosistema, come previsto nel Protocollo di Kyoto, siglato nel 1997 da oltre 180 paesi. A rendere poco efficaci queste contromisure contribuì il fatto che paesi come la Cina e gli Stati Uniti, con le eccezioni delle presidenze democratiche di Clinton e Obama, si sono dimostrati spesso riluttanti, se non contrari (come nel caso di Donald Trump), ad assumere impegni in questo senso. La difesa dell’ambiente, connessa a una programmazione che garantisca l’equilibrio tra popolazione e risorse mondiali, è forse la sfida più importante che la generazione presente si trova ad affrontare di fronte alle generazioni future [▶ FONTI].

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Vecchio e nuovo mondo
 Ben radicata nelle critiche trasformazioni degli anni Settanta, la globalizzazione dei tre decenni successivi fu promossa e vissuta come il trionfo dell’Occidente. Tuttavia, la crisi finanziaria del 2007-08 minò la legittimità delle classi dirigenti occidentali e rivelò le loro crescenti difficoltà di fronte a una globalizzazione che ora sanciva una graduale perdita del peso economico e dello status politico degli Stati Uniti e dell’Europa. Si avviò quindi una fase di reazione politica alla globalizzazione, per certi versi una fase di deglobalizzazione, che è avvenuta (e sta avvenendo) in nome del “recupero della sovranità nazionale”. I suoi contraccolpi furono particolarmente visibili sulle maggiori potenze atlantiche, nel 2016, con la vittoria della Brexit nel Regno Unito e con l’elezione di Donald Trump, il candidato del Partito repubblicano, alla presidenza degli Stati Uniti [ 20]. Questi eventi inattesi destabilizzarono i due sistemi politici democratici più solidi nel mondo occidentale, visto che nel Novecento non avevano conosciuto dittature o occupazioni militari. Oggi, da un lato il Regno Unito ha imboccato la strada di un difficile negoziato con l’Ue, che rischia di comprometterne la prosperità e la stabilità, spingendo il paese all’isolamento internazionale e alla frammentazione interna. Dall’altro, la presidenza di Trump ha accelerato la corsa degli Stati Uniti verso un’inedita polarizzazione politica e sociale che ne mina la credibilità internazionale. Infatti l’avvento al governo della superpotenza americana di un miliardario, inesperto di politica e incline alla pretesa di dar voce al “popolo americano” (bianco e maschile), ha aperto una fase nuova in cui il ruolo di guida globale degli Usa sembra meno indiscusso, così come risulta più incerta la loro capacità di identificarsi con la “causa della democrazia”.

I processi di globalizzazione avviati negli anni Ottanta [▶ cap. 14.4] determinarono una sensibile riduzione della mobilità sociale all’interno delle società occidentali, invertendo la precedente tendenza verso una maggiore uguaglianza e irrigidendo le differenze economiche in nuove forme di stratificazione sociale. La percezione delle crescenti disparità economiche è stata resa più acuta e perciò meno tollerabile dal recente sviluppo delle tecnologie comunicative e dei social network. Soprattutto a partire dagli anni Novanta, però, l’apertura dei mercati consentì un’imponente redistribuzione del reddito verso i paesi meno sviluppati e una significativa riduzione delle disuguaglianze economiche su scala globale. Perciò, la crisi economica del 2007-08, che colpì Stati Uniti ed Europa (inclusa la Russia), lasciò invece indenni gran parte dei paesi dell’Asia, in particolare Cina e India, le quali hanno cominciato a darsi organizzazioni e agende politiche autonome rispetto alle potenze occidentali.

Le convulsioni politiche transatlantiche, le tensioni interne all’Unione Europea e l’ascesa di fenomeni nazionalisti e populisti sono sempre più percepite come aspetti di una più complessiva crisi dell’Occidente. Come abbiamo visto, però, le origini più lontane di questa crisi rimontano all’inizio del Ventesimo secolo. In particolar modo furono le catastrofi delle due guerre mondiali che, nella prima metà del Novecento, dilaniarono le società europee, incrinandone il primato globale che fu poi travolto dalla decolonizzazione. Solo l’alleanza con gli Stati Uniti, che assicurò, insieme all’Unione Sovietica, la sconfitta del fascismo e del nazismo nella Seconda guerra mondiale, contribuì a rinsaldare il senso della superiorità occidentale, che trovò un suo coronamento apparentemente trionfale nella dissoluzione del blocco sovietico e nella fine della Guerra fredda. Tuttavia, fin dagli anni Settanta, i rapporti dell’Occidente con il resto del mondo cominciarono a mutare a seguito della globalizzazione e, nei decenni successivi, finirono col rovesciarsi, spegnendo l’entusiasmo seguito alle transizioni del 1989-91 in Europa orientale e nell’ex Unione Sovietica, alimentando l’emergere dell’integralismo islamico (con le sue correnti terroristiche) e portando in primo piano nuovi attori economici e politici come la Cina e l’India. La recente crisi economica e politica ha imposto all’Occidente, e soprattutto all’Europa, di fare i conti con questo radicale mutamento, che è tuttora in corso e di cui è impossibile scorgere l’esito.

FONTI

La Conferenza di Parigi sul clima

Dal 30 novembre al 12 dicembre 2015 si ritrovarono a Parigi le delegazioni di 195 paesi per aggiornare il Protocollo di Kyoto firmato nel 1997, discutere del cambiamento climatico e adottare misure conseguenti e vincolanti. Di seguito vengono presentati alcuni brani dell’accordo conclusivo della conferenza, che diventerà operativo entro il 2020 se sarà ratificato dal 55% dei paesi responsabili del 55% delle complessive emissioni di gas nell’atmosfera.

Articolo 2 1. Questo accordo [...] mira a rafforzare la risposta globale alla minaccia del cambiamento climatico, nel contesto dello sviluppo sostenibile e degli sforzi di sradicare la povertà, includendo: a) mantenere l’aumento della temperatura media globale ben sotto i 2 °C al di sopra dei livelli preindustriali e perseguire sforzi per limitare l’aumento della temperatura a 1.5 °C, al di sopra dei livelli preindustriali, riconoscendo che questo ridurrebbe significativamente i rischi e gli impatti del cambiamento climatico; (b) incrementare la capacità di adattarsi agli impatti avversi del cambiamento climatico e stimolare lo sviluppo della resistenza climatica e basse emissioni di gas serra, in modo che non minacci la produzione di cibo; [...].


Articolo 4 1. Al fine di realizzare l’obiettivo di lungo termine della temperatura illustrato nell’Articolo 2, le Parti mirano a raggiungere il tetto globale delle emissioni di gas serra quanto prima, riconoscendo che raggiungere il tetto richiederà più tempo per le Parti dei paesi in via di sviluppo, e ad intraprendere rapide riduzioni in seguito in accordo con la miglior scienza disponibile, così da realizzare un bilanciamento tra emissioni di origine umana e rimozioni attraverso assorbitori di gas serra1 nella seconda metà di questo secolo, sulla base dell’equità, e nel contesto dello sviluppo sostenibile e degli sforzi per sradicare la povertà. 2. Ogni Parte preparerà, comunicherà e manterrà contributi successivi nazionalmente determinati che intende realizzare. Le Parti perseguiranno misure di mitigazione domestica, con lo scopo di realizzare gli obiettivi di tali contributi. […]


Articolo 5 1. Le Parti dovrebbero assumere l’iniziativa di conservare e incrementare, quando necessari, assorbitori e serbatoi di gas serra, incluse le foreste. 2. Le Parti sono incoraggiate ad assumere azioni per implementare e sostenere, anche attraverso pagamenti basati sui risultati, lo schema esistente come illustrato nella relativa guida e le decisioni accettate sotto la Convenzione: gli approcci politici e gli incentivi positivi per le attività relative alla riduzione di emissioni dalla deforestazione e dal degrado delle foreste, e il ruolo della conservazione, della gestione sostenibile delle foreste e l’incremento delle riserve di carbone forestale nei paesi in via di sviluppo: […] mentre si riafferma l’importanza di incentivare, come necessario, i benefici del non-carbone con tali approcci. […]

Storie. Il passato nel presente - volume 3
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