18.5 Le primavere arabe, le guerre civili e l’integralismo
La rivolta nata dai social network
I paesi del Maghreb e del Medio Oriente erano per lo più retti da dittature che cercavano di contenere e reprimere i movimenti integralisti islamici e di garantire gli equilibri complessivi della regione. Tuttavia, a partire dal 2008 un’ondata crescente di scontento popolare cominciò a scuotere quei regimi, mobilitando, anche sotto la pressione della crisi economica, vaste folle contro l’inflazione, la disoccupazione, la corruzione e l’assenza di libertà. Tra gennaio e marzo del 2011, le cosiddette “primavere arabe” (in assonanza con la “primavera dei popoli” nell’Europa del 1848) abbatterono alcune dittature che erano in piedi da decenni: la dittatura di Zine Ben Alì, instaurata in Tunisia nel 1987, quella di Hosni Mubarak, stabilita in Egitto nel 1981, e quella di Muammar Gheddafi, alla guida della Libia addirittura dal 1969 [ 11].La fine dei regimi in Tunisia, Egitto e Libia
La rivolta ebbe inizio in un piccolo villaggio tunisino nel dicembre 2010, quando un giovane venditore ambulante, Mohamed Bouazizi, cui era stato confiscato il carretto di frutta e verdura dall’autorità municipale, si diede fuoco per protesta. In breve tempo le manifestazioni giunsero fino a Tunisi e, nonostante il duro intervento della polizia, scossero il regime di Ben Alì, il quale fu costretto alla fuga a metà gennaio 2011. Per quanto i gruppi integralisti abbiano tentato di assumere il controllo della situazione, la rivoluzione tunisina è stata l’unica tra quelle della primavera araba a concludersi con l’instaurazione di una, sia pur fragile, Repubblica parlamentare.L’insurrezione in Egitto contro la dittatura di Hosni Mubarak, che si svolse soprattutto in piazza Tahrir al Cairo dalla fine di gennaio 2011, fu ben più drammatica e incerta di quella tunisina [ 12]. La caduta e il successivo processo a Mubarak in febbraio aprirono un vuoto di potere in cui i Fratelli musulmani, il partito integralista islamico bandito da Nasser nel 1952 [▶ cap. 11.4], conquistarono un crescente favore popolare. Nel maggio 2012, dopo che fu approvata una nuova Costituzione, fu eletto alla presidenza il candidato islamista Mohamed Morsi, il quale tentò di instaurare misure ispirate alla sharia (la legge islamica), trovando però una resistenza sempre più veemente e aprendo una profonda spaccatura nella società egiziana. Nel luglio 2013 il generale al-Sisi guidò un colpo di Stato che mirava a bandire ogni organizzazione islamista e a restaurare un forte potere centrale. Dopo una violenta repressione dell’opposizione, che provocò oltre 600 morti il 14 agosto 2013 in piazza Tahrir, all’inizio dell’anno successivo il governo di al-Sisi varò una nuova Costituzione, che legittimò la stretta autoritaria.
fenomeni
I social network
Il primo decennio degli anni 2000 è stato indubbiamente marcato dall’esplosione dei social network, strumenti di interrelazione e comunicazione telematica fondati sulla rete Internet.
Facebook, fondato nel 2004 da Mark Zuckerberg, è nato come sistema di interazione e comunicazione tra studenti delle università americane, ma è poi diventato il principale social network su scala globale. I suoi utenti attivi sono passati dai 132 milioni alla fine del 2008 agli oltre 2 miliardi all’inizio del 2017. Potente strumento di condivisione di file, foto e messaggi, esso è stato anche discusso per il suo uso disinvolto di dati sensibili, soprattutto in occasione di importanti campagne elettorali.
Twitter è una rete sociale costituita nel 2006, che prende il nome dal verbo tweet (cinguettare) e che fornisce un sistema di scrittura di messaggi brevi (tweet appunto) di 140 caratteri (dal 2017, di 280). Grazie all’uso dell’hashtag (#), anteposto a parole o combinazioni di parole all’interno di un tweet, è possibile creare collegamenti intertestuali tra i tweet di tutti gli utenti, che consentono di moltiplicarne l’impatto e la divulgazione.
Di recente, Facebook ha anche acquisito due nuovi piattaforme: WhatsApp e Instagram. Il primo, creato nel 2009, consente di inviare messaggi testuali o vocali, fotografie e video. Il secondo, inventato nel 2012, consente di scattare, modificare e condividere fotografie ed è usato soprattutto dalle fasce più giovani della popolazione.
Nel tempo, i social network non solo hanno mutato in profondità il rapporto tra sfera pubblica e privata, ma hanno inciso radicalmente sul modo di comunicare e quindi anche sul modo di fare politica.
La guerra civile siriana
Alla metà di marzo 2011, i manifestanti scesero in piazza anche in Siria – un paese molto frammentato sotto il profilo religioso e culturale – per chiedere riforme democratiche. Ma la repressione governativa, particolarmente violenta a Dara’a nel Sud-Ovest del paese, radicalizzò l’opposizione, che non era più disposta ad accettare l’esistenza del regime di Bashar al-Assad, capo del Partito Baath [▶ cap. 17.7] e rappresentante di una minoranza sciita al governo della Siria (che è a maggioranza sunnita). Ne scaturì una guerra civile devastante, in cui l’opposizione al governo di Damasco si frammentò in gruppi laici e religiosi, a loro volta divisi fra sunniti e sciiti, oltre ai curdi [▶ cap. 2.7] prevalenti nelle regioni settentrionali e orientali del paese [ 13]. Nell’agosto 2013 il governo siriano fu accusato di usare armi chimiche contro l’opposizione, ma la comunità internazionale fu incapace di reagire.Radicalismo e integrazione in Europa
Tra fine Ventesimo e inizio Ventunesimo secolo, la minaccia del terrorismo islamico, in connessione con le crisi mediorientali, è diventata parte integrante della scena politica europea. Già nel 1995 la Francia, a causa del suo sostegno al regime militare instauratosi in Algeria nel 1992, fu colpita da un gruppo terrorista islamico; ma fu soprattutto dopo l’11 settembre 2001 che la minaccia si fece più concreta. Gli attacchi di Madrid dell’11 marzo 2004 [ 14] e di Londra del 7 luglio 2005 furono eseguiti da cellule di al-Qaeda in reazione alla partecipazione di Spagna e Regno Unito nella guerra in Iraq. Dopo una tregua di dieci anni, una nuova ondata di attacchi si dispiegò in concomitanza con l’esperienza dello Stato islamico nel 2015-17, colpendo Francia, Belgio, Germania, Regno Unito e Spagna. Tra questi, ebbe un notevole impatto emotivo quello avvenuto a Parigi il 13 novembre 2015, quando un commando islamista colpì vari luoghi della capitale francese, in particolare il teatro Bataclan, provocando il massacro di 130 persone.
Gli attacchi terroristici in Europa negli anni 2000 |
Rivendicazione |
||
11 marzo 2004 |
Spagna - Madrid |
192 morti, 2050 feriti |
al-Qaeda |
7 luglio 2005 |
Regno Unito - Londra |
56 morti, (inclusi 4 attentatori), 784 feriti |
al-Qaeda |
22 luglio 2011 |
Norvegia - Oslo e Utøya |
77 morti, 319 feriti |
Anders Breivik |
7-9 gennaio 2015 |
Francia - Île-de-France |
20 morti (inclusi 3 attentatori), 22 feriti |
al-Qaeda / Isis |
13 novembre 2015 |
Francia - Parigi |
137 morti (inclusi 7 attentatori), 368 feriti |
Isis |
22 marzo 2016 |
Belgio - Bruxelles |
35 morti (inclusi 3 attentatori), 340 feriti |
Isis |
14 luglio 2016 |
Francia - Nizza |
87 morti (incluso 1 attentatore), 434 feriti |
Isis |
19 dicembre 2016 |
Germania - Berlino |
12 morti, 56 feriti |
Isis |
22 maggio 2017 |
Regno Unito - Manchester |
23 morti (incluso 1 attentatore), 119 feriti |
Isis |
4 giugno 2017 |
Regno Unito - Londra |
11 morti (inclusi 3 attentatori), 48 feriti |
Isis |
17 agosto 2017 |
Spagna - Barcellona |
25 morti (inclusi 8 attentatori), 152 feriti |
Isis |
Di fronte a questi problemi, la Chiesa cattolica è stata caratterizzata da posizioni diverse, legate ai due pontefici che l’hanno governata tra il 2005 e oggi. Benedetto XVI (il teologo tedesco Joseph Ratzinger), tra il 2005 e il 2013, intese ribadire e difendere l’identità della Chiesa, richiamando ai valori cristiani un’Europa sempre più laica e secolarizzata; il suo successore, papa Francesco (il gesuita argentino Jorge Bergoglio), ha invece preferito attuare una politica di apertura al mondo e di evangelizzazione.
Negli ultimi decenni, nel mondo occidentale sono emerse forme di integralismo cristiano che hanno trovato giustificazione e consenso, associando il fenomeno dell’immigrazione con il terrorismo islamista. Appellandosi all’idea di “guerra di civiltà” e intrecciandosi con eredità neofasciste e neonaziste, esso ha alimentato gesti terroristici il cui esempio più clamoroso fu il massacro che il norvegese Anders Breivik compì a Oslo e a Utøya il 22 luglio 2011. In un duplice attentato, volto soprattutto a colpire i giovani iscritti del Partito laburista norvegese (favorevole a politiche di accoglienza e all’integrazione multietnica) che stavano partecipando a un campo politico sull’isola di Utøya, uccise 77 persone.
Tuttavia, un vario mondo del volontariato laico e religioso, profondamente ostile all’idea di una radicale contrapposizione con il mondo musulmano, svolge da tempo attività a favore dell’accoglienza degli immigrati.
18.6 Incerte prospettive europee e nuove gerarchie globali
Allargamento e riforma dell’Ue
Fin dal periodo delle transizioni successive al 1989, le classi dirigenti ex o postcomuniste dell’Est Europa avevano cominciato a coltivare la prospettiva dell’integrazione nell’Unione Europea, quale coronamento della nuova, seppure contrastata, fase di democratizzazione. Ad ostacolare questi progetti vi era la necessità di adeguarsi ai parametri di Maastricht [▶ cap. 15.5]. La Commissione europea, sotto la presidenza di Romano Prodi, avvallò e accelerò questo processo che sancì l’ingresso di Slovenia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Polonia nel 2004, cui seguirono Romania e Bulgaria nel 2007 e infine la Croazia nel 2013.Dal successo alla crisi dell’Eurozona
Alla fine degli anni Novanta, la Germania attraversò una fase di difficoltà dovuta all’integrazione delle più arretrate regioni dell’ex Ddr [▶ cap. 15.2]. Quindi, nel 2003-04 il cancelliere socialdemocratico Gerhard Schröder (al governo fra il 1998 e il 2005) adottò una serie di riforme che, pur comprimendo i salari e i consumi, garantirono nel tempo un notevole sviluppo economico al paese, fondato sulla competizione all’interno dell’area euro e sulla capacità di produzione ed esportazione delle merci tedesche in Asia e negli Stati Uniti, oltre che nei paesi dell’Europa orientale. Di qui scaturì il ruolo centrale e insieme controverso della Germania guidata, a partire dal 2005, dalla cancelliera cristianodemocratica Angela Merkel [ 16]: questa si trovò ad affrontare la lunga fase della crisi europea da una posizione di forza e al tempo stesso a rispondere con crescente riluttanza alla necessità di dare un nuovo assetto politico alla costruzione europea.La crisi migratoria in Europa
Le migrazioni sono un processo epocale, provocato dallo scoppio di guerre e crisi politiche, nonché dalla ricerca di maggior benessere, sollecitata dalla diffusione dei mezzi di comunicazione di massa che consentono un confronto “in tempo reale” tra stili e qualità di vita nel Sud e nel Nord del mondo, rendendo più visibili le differenze tra le zone più povere e arretrate e quelle più ricche e moderne. Oggi si conta che siano circa 60 milioni i rifugiati nel mondo, a seguito di guerre, crisi e carestie [ 17]. In particolare, il Mediterraneo è diventato uno spazio cruciale per le rotte dell’immigrazione dall’Africa verso l’Europa. Alla ricerca di sopravvivenza, sicurezza e maggior benessere, centinaia di migliaia di migranti si sono imbarcati e continuano a imbarcarsi dalle coste tunisine e libiche, talvolta con la mediazione di organizzazioni criminali, per affrontare un viaggio rischioso e costoso su mezzi di fortuna: secondo le stime più recenti, tra il 2002 e il 2017 circa 35 000 persone sono morte per naufragio nel Mediterraneo. Nel 2008 il premier italiano Berlusconi e il dittatore libico Gheddafi siglarono un accordo che affidava alle autorità di Tripoli il controllo dell’emigrazione, contenendo così il numero di imbarchi verso le coste italiane, ma non il numero di migranti, che venivano bloccati in Libia, spesso in condizioni degradanti. Dopo il collasso del regime di Gheddafi nel 2011 i flussi di migranti provenienti dall’Africa centrale e settentrionale ripresero a ritmi crescenti e la tragedia maggiore si verificò nell’aprile 2015 col rovesciamento di un barcone nel Canale di Sicilia, in cui morirono oltre 800 persone.La crisi politica dell’Europa: i populismi
La crisi dell’Eurozona a partire dal 2010, la crisi dei rifugiati del 2015, gli attentati terroristici del 2015-17 contribuirono a delegittimare il quadro delle forze politiche che avevano governato tra gli anni Novanta e i Duemila. Sono quindi emersi ampi spazi per movimenti politici diversi tra loro ma animati da una comune e radicale volontà di rovesciare le classi politiche esistenti (percepite come élite rispondenti più ai mercati finanziari globali che alla sovranità popolare), di ristrutturare l’Unione Europea, di riaffermare le logiche della sovranità e dell’identità nazionale, di contrastare e bloccare il fenomeno epocale delle migrazioni. Alcuni movimenti, come il Front National di Marine Le Pen in Francia, la Lega (ex Lega Nord) di Matteo Salvini in Italia o l’UK Independence Party (Ukip) di Nigel Farage, risalgono agli anni Settanta e Ottanta, ma si sono ridefiniti sulla base delle nuove urgenze politiche in chiave nazionalista; proprio facendo leva su sentimenti nazionalisti, l’Ukip promosse un referendum sull’appartenenza del Regno Unito all’Unione Europea, che si svolse il 23 giugno 2016 e vide la vittoria della Brexit [ 18], cioè dei sostenitori dell’uscita dall’Ue. Altri, del tutto nuovi, come il Movimento 5 stelle in Italia o Podemos in Spagna, sono caratterizzati dalla volontà di rappresentare coloro che si sono considerati esclusi dal sistema, rispecchiandone integralmente aspirazioni e pregiudizi antipolitici. Altre esperienze, infine, come quella del primo ministro ungherese Viktor Orban e del suo Partito Fidesz interpretano tendenze (particolarmente diffuse nell’Est Europa) alla chiusura antidemocratica e al rifiuto dei principi e dei trattati dell’Ue, finendo così per rovesciare la spinta alla democratizzazione dei paesi ex comunisti nei due decenni precedenti. Un tratto comune a questi diversi movimenti e governi è stato identificato nel“populismo”, in quanto essi si presentano come gli unici in grado di dar voce a un “popolo” che si considera inascoltato e ininfluente; questa pretesa è l’espressione di una profonda sfiducia verso i tradizionali istituti della democrazia costituzionale e rappresentativa, che a sua volta tende a incrinare lo Stato di diritto.Questione femminile e questione ecologica
La condizione della donna nel mondo occidentale, a partire dagli anni Settanta, conobbe importanti progressi che contribuirono alla sua emancipazione in campo sessuale, sociale e professionale. Nonostante un quadro legislativo favorevole in molti paesi europei, dove sono riconosciuti il diritto all’aborto, le pari opportunità e la tutela della maternità, continuano di fatto a riproporsi gravi forme di discriminazione e di violazione dei diritti fondamentali, come una persistente disparità nella remunerazione lavorativa e le frequenti violenze contro le donne, soprattutto all’interno delle mura domestiche. Al di fuori del mondo occidentale la questione femminile si manifesta tuttora in forme particolarmente gravi. Nelle società musulmane, soprattutto dove è instaurato il dominio della sharia, ma non solo, la donna è costretta a indossare i copricapi tradizionali (hidjab, velo e burkha) e a condurre una vita segregata. In Cina e in India la donna è relegata in una posizione di netta subalternità all’uomo. Lo stupro resta uno dei più frequenti crimini commessi nelle società contemporanee ed è spesso praticato come arma di guerra con il fine di colpire la comunità nemica nella sua componente più fragile.Vecchio e nuovo mondo
Ben radicata nelle critiche trasformazioni degli anni Settanta, la globalizzazione dei tre decenni successivi fu promossa e vissuta come il trionfo dell’Occidente. Tuttavia, la crisi finanziaria del 2007-08 minò la legittimità delle classi dirigenti occidentali e rivelò le loro crescenti difficoltà di fronte a una globalizzazione che ora sanciva una graduale perdita del peso economico e dello status politico degli Stati Uniti e dell’Europa. Si avviò quindi una fase di reazione politica alla globalizzazione, per certi versi una fase di deglobalizzazione, che è avvenuta (e sta avvenendo) in nome del “recupero della sovranità nazionale”. I suoi contraccolpi furono particolarmente visibili sulle maggiori potenze atlantiche, nel 2016, con la vittoria della Brexit nel Regno Unito e con l’elezione di Donald Trump, il candidato del Partito repubblicano, alla presidenza degli Stati Uniti [ 20]. Questi eventi inattesi destabilizzarono i due sistemi politici democratici più solidi nel mondo occidentale, visto che nel Novecento non avevano conosciuto dittature o occupazioni militari. Oggi, da un lato il Regno Unito ha imboccato la strada di un difficile negoziato con l’Ue, che rischia di comprometterne la prosperità e la stabilità, spingendo il paese all’isolamento internazionale e alla frammentazione interna. Dall’altro, la presidenza di Trump ha accelerato la corsa degli Stati Uniti verso un’inedita polarizzazione politica e sociale che ne mina la credibilità internazionale. Infatti l’avvento al governo della superpotenza americana di un miliardario, inesperto di politica e incline alla pretesa di dar voce al “popolo americano” (bianco e maschile), ha aperto una fase nuova in cui il ruolo di guida globale degli Usa sembra meno indiscusso, così come risulta più incerta la loro capacità di identificarsi con la “causa della democrazia”.I processi di globalizzazione avviati negli anni Ottanta [▶ cap. 14.4] determinarono una sensibile riduzione della mobilità sociale all’interno delle società occidentali, invertendo la precedente tendenza verso una maggiore uguaglianza e irrigidendo le differenze economiche in nuove forme di stratificazione sociale. La percezione delle crescenti disparità economiche è stata resa più acuta e perciò meno tollerabile dal recente sviluppo delle tecnologie comunicative e dei social network. Soprattutto a partire dagli anni Novanta, però, l’apertura dei mercati consentì un’imponente redistribuzione del reddito verso i paesi meno sviluppati e una significativa riduzione delle disuguaglianze economiche su scala globale. Perciò, la crisi economica del 2007-08, che colpì Stati Uniti ed Europa (inclusa la Russia), lasciò invece indenni gran parte dei paesi dell’Asia, in particolare Cina e India, le quali hanno cominciato a darsi organizzazioni e agende politiche autonome rispetto alle potenze occidentali.
Le convulsioni politiche transatlantiche, le tensioni interne all’Unione Europea e l’ascesa di fenomeni nazionalisti e populisti sono sempre più percepite come aspetti di una più complessiva crisi dell’Occidente. Come abbiamo visto, però, le origini più lontane di questa crisi rimontano all’inizio del Ventesimo secolo. In particolar modo furono le catastrofi delle due guerre mondiali che, nella prima metà del Novecento, dilaniarono le società europee, incrinandone il primato globale che fu poi travolto dalla decolonizzazione. Solo l’alleanza con gli Stati Uniti, che assicurò, insieme all’Unione Sovietica, la sconfitta del fascismo e del nazismo nella Seconda guerra mondiale, contribuì a rinsaldare il senso della superiorità occidentale, che trovò un suo coronamento apparentemente trionfale nella dissoluzione del blocco sovietico e nella fine della Guerra fredda. Tuttavia, fin dagli anni Settanta, i rapporti dell’Occidente con il resto del mondo cominciarono a mutare a seguito della globalizzazione e, nei decenni successivi, finirono col rovesciarsi, spegnendo l’entusiasmo seguito alle transizioni del 1989-91 in Europa orientale e nell’ex Unione Sovietica, alimentando l’emergere dell’integralismo islamico (con le sue correnti terroristiche) e portando in primo piano nuovi attori economici e politici come la Cina e l’India. La recente crisi economica e politica ha imposto all’Occidente, e soprattutto all’Europa, di fare i conti con questo radicale mutamento, che è tuttora in corso e di cui è impossibile scorgere l’esito.
FONTI
La Conferenza di Parigi sul clima
Dal 30 novembre al 12 dicembre 2015 si ritrovarono a Parigi le delegazioni di 195 paesi per aggiornare il Protocollo di Kyoto firmato nel 1997, discutere del cambiamento climatico e adottare misure conseguenti e vincolanti. Di seguito vengono presentati alcuni brani dell’accordo conclusivo della conferenza, che diventerà operativo entro il 2020 se sarà ratificato dal 55% dei paesi responsabili del 55% delle complessive emissioni di gas nell’atmosfera.
Articolo 2 1. Questo accordo [...] mira a rafforzare la risposta globale alla minaccia del cambiamento climatico, nel contesto dello sviluppo sostenibile e degli sforzi di sradicare la povertà, includendo: a) mantenere l’aumento della temperatura media globale ben sotto i 2 °C al di sopra dei livelli preindustriali e perseguire sforzi per limitare l’aumento della temperatura a 1.5 °C, al di sopra dei livelli preindustriali, riconoscendo che questo ridurrebbe significativamente i rischi e gli impatti del cambiamento climatico; (b) incrementare la capacità di adattarsi agli impatti avversi del cambiamento climatico e stimolare lo sviluppo della resistenza climatica e basse emissioni di gas serra, in modo che non minacci la produzione di cibo; [...].
Articolo 4 1. Al fine di realizzare l’obiettivo di lungo termine della temperatura illustrato nell’Articolo 2, le Parti mirano a raggiungere il tetto globale delle emissioni di gas serra quanto prima, riconoscendo che raggiungere il tetto richiederà più tempo per le Parti dei paesi in via di sviluppo, e ad intraprendere rapide riduzioni in seguito in accordo con la miglior scienza disponibile, così da realizzare un bilanciamento tra emissioni di origine umana e rimozioni attraverso assorbitori di gas serra1 nella seconda metà di questo secolo, sulla base dell’equità, e nel contesto dello sviluppo sostenibile e degli sforzi per sradicare la povertà. 2. Ogni Parte preparerà, comunicherà e manterrà contributi successivi nazionalmente determinati che intende realizzare. Le Parti perseguiranno misure di mitigazione domestica, con lo scopo di realizzare gli obiettivi di tali contributi. […]
Articolo 5 1. Le Parti dovrebbero assumere l’iniziativa di conservare e incrementare, quando necessari, assorbitori e serbatoi di gas serra, incluse le foreste. 2. Le Parti sono incoraggiate ad assumere azioni per implementare e sostenere, anche attraverso pagamenti basati sui risultati, lo schema esistente come illustrato nella relativa guida e le decisioni accettate sotto la Convenzione: gli approcci politici e gli incentivi positivi per le attività relative alla riduzione di emissioni dalla deforestazione e dal degrado delle foreste, e il ruolo della conservazione, della gestione sostenibile delle foreste e l’incremento delle riserve di carbone forestale nei paesi in via di sviluppo: […] mentre si riafferma l’importanza di incentivare, come necessario, i benefici del non-carbone con tali approcci. […]
Storie. Il passato nel presente - volume 3
Dal 1900 a oggi