17.1 La modernizzazione cinese

Per riprendere il filo…

La Seconda guerra mondiale non solo trasformò i rapporti tra l’Europa e il mondo, facendo perdere al vecchio continente il suo primato, ma mise anche in moto quel processo di emancipazione delle colonie che portò alla formazione di decine di nuovi Stati indipendenti in Asia e in Africa. Nel contesto della Guerra fredda, però, Stati Uniti e Unione Sovietica intervennero in forma diretta o indiretta nei conflitti locali extraeuropei, sostenendo regimi autoritari in chiave rispettivamente anticomunista e antioccidentale. Al comunismo sovietico, intanto, si affiancò e poi si oppose la Cina di Mao, che con il Grande balzo in avanti e la rivoluzione culturale sperimentò un sistema comunista diverso, mentre l’India costruiva la più grande democrazia del mondo, ispirandosi, però, sempre più apertamente al modello socialista. Da parte sua il Medio Oriente, a causa delle difficoltà di trovare uno stabile assetto nei territori appartenuti all’Impero ottomano e poi affidati alle potenze coloniali (Francia e Regno Unito), continuò a essere al centro di crisi e scontri, che ruotavano soprattutto intorno al conflitto arabo-israeliano.

17.1 La modernizzazione cinese

La successione a Mao e la modernizzazione cinese
Dopo la rivoluzione culturale (1966-69) caratterizzata da gravi tensioni e violenze [▶ cap. 11.8], la Cina di Mao aveva imboccato la via di una, seppure incerta, stabilizzazione. All’esercito, ampiamente dispiegato da Lin Biao nell’ultima fase del processo rivoluzionario, fu ordinato di ritornare nelle caserme. In seguito alla morte di Lin, Deng Xiaoping fu gradualmente riabilitato dopo esser stato “rieducato” per le sue critiche a Mao; nel 1973 fu richiamato a Pechino a svolgere un ruolo attivo nel partito, con l’appoggio di Zhou Enlai, il quale aveva contribuito in modo decisivo a contenere gli effetti destabilizzanti della rivoluzione culturale. A causa della grave malattia di Zhou (morto nel 1976), Deng fu di fatto scelto come successore da Mao e cominciò a selezionare una nuova classe dirigente, privilegiando il criterio della qualificazione tecnica rispetto a quello della fedeltà personale al “Grande Timoniere” (come veniva chiamato Mao) o all’impegno militante nella rivoluzione culturale.
Tuttavia, nel corso del 1975 Mao entrò in contrasto con Deng e, nonostante fosse convinto che questi era la garanzia maggiore per la stabilità cinese, lo rimosse dalle posizioni di vertice nel Partito comunista, sostituendolo con Hua Guofeng. La morte di Mao, nel settembre 1976, cambiò la politica interna cinese, che, sotto il cauto patrocinio di Hua, fu avviata a una campagna di demaoizzazione. In particolare, l’arresto della cosiddetta “banda dei quattro”, tra i quali spiccava la vedova di Mao Jiang Quing, pose fine alla fase del radicalismo maoista, con la rinuncia definitiva all’estremismo ▶ volontarista che aveva animato i decenni precedenti. Poco più di un anno dopo, Deng, riammesso nel Comitato centrale, lanciò le cosiddette “quattro modernizzazioni”, promuovendo una svolta pragmatica e modernizzatrice, che accantonava i progetti di rivoluzione mondiale e promuoveva lo sviluppo dell’agricoltura insieme a quello dell’industria, della ricerca scientifico-tecnologica e della difesa nazionale. Le idee di Deng, che cominciava ad aprirsi a una prospettiva di sviluppo capitalista – ispirata anche dall’ascesa delle “Tigri asiatiche” (Hong Kong, Singapore, Taiwan, Corea del Sud) – furono alla base del quinto piano quinquennale sviluppato tra il 1976 e il 1980 [ 1].

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Durante l’XI Congresso del Partito comunista, nel novembre-dicembre 1978, Deng lanciò con entusiasmo una campagna di “riforma e apertura” della Cina [▶ FONTI]. Perciò si pose il problema di una drastica revisione non solo dei piani industriali, ma anche delle procedure legali che permettessero l’importazione delle tecnologie occidentali e l’accesso delle imprese straniere sul mercato cinese. Al tempo stesso, Deng era convinto che, nonostante le aperture anche in termini di crescente partecipazione degli intellettuali, occorresse imporre limiti all’ampliamento delle libertà, per evitare di imboccare la strada della democrazia o di ritornare all’anarchia, come ai tempi della rivoluzione culturale.

FONTI

La svolta modernizzatrice della Cina comunista

Quello che segue è uno stralcio del discorso che Deng Xiaoping pronunciò il 13 dicembre 1978, durante la Conferenza centrale in vista dell’XI Comitato centrale del Partito comunista cinese. Allora Deng tracciò le linee generali del nuovo programma di modernizzazione economica e amministrativa del paese, ribadendo la centralità della funzione del partito.

La nostra spinta per le quattro modernizzazioni non andrà da nessuna parte a meno che non si distrugga il pensiero rigido e le menti dei quadri1 e delle masse siano completamente emancipate. [...] Quando tutto deve essere fatto secondo le regole, quando il pensiero diventa rigido e la fede cieca è la moda, è impossibile per un partito o per una nazione fare progressi. La sua vita cesserà e quel partito o quella nazione perirà. Il Compagno Mao Zedong lo ha detto più volte durante i movimenti di rettifica.

[...] Una condizione importante per spingere il popolo a emancipare la propria mente e ad usare la propria testa è la pratica genuina del sistema proletario del centralismo democratico2. Abbiamo bisogno di una direzione unificata e centralizzata, ma il centralismo può essere corretto solo quando c’è una piena misura di democrazia.

[…] Per compiere le quattro modernizzazioni e spostare la base tecnologica della nostra intera economia socialista a quella di produzione di larga scala, è essenziale superare i mali della burocrazia. La nostra presente gestione economica è segnata da soprannumero di personale, sovrapposizione organizzativa, procedure complicate ed efficienza estremamente bassa.

[...] Dobbiamo imparare a gestire l’economia con mezzi economici. Se noi stessi non conosciamo avanzati metodi di gestione, dovremmo imparare da coloro che li conoscono, all’interno o all’estero. Questi metodi dovrebbero applicarsi non solo in operazioni di imprese con tecnologia e attrezzatura appena importate, ma anche nella trasformazione tecnica delle imprese esistenti. In attesa dell’introduzione di un programma nazionale unificato di gestione moderna, possiamo cominciare con sfere limitate, diciamo, con una particolare regione o un certo commercio, e poi diffondere i metodi gradualmente ad altri.

[...] In teoria, c’è la responsabilità collettiva. Di fatto, questo significa che nessuno è responsabile. Quando un compito è assegnato, nessuno verifica se è realizzato adeguatamente o si interessa se il risultato è soddisfacente. Perciò c’è un urgente bisogno di stabilire un severo sistema di responsabilità.

[...] In breve, rafforzando il sistema di responsabilità e assegnando onestamente premi e punizioni, dovremmo creare un’atmosfera di amichevole emulazione attraverso la quale le persone competono tra loro per diventare elementi avanzati, che lavorano duro e mirano in alto.

I conflitti nel Sudest asiatico

Un banco di prova per la politica estera cinese fu l’evoluzione dei conflitti in Indocina. Gli americani erano intervenuti in Vietnam[▶ cap. 12.3-14.2], tra il 1964 e il 1973, con l’intento di contenere l’espansione del comunismo. Ciononostante, il temuto “effetto domino” sembrò realizzarsi quando, nel 1975, prima la Cambogia e poi il Laos caddero sotto dittature comuniste. La conclusione della guerra in Vietnam, successiva all’ingresso dei vietcong a Saigon nell’aprile 1975, aprì tuttavia una fase di gravi conflitti interni al comunismo, che esasperavano la rivalità tra il modello sovietico e quello cinese: il comune riferimento al modello comunista non impedì che si scatenassero guerre per l’egemonia sulla regione sudorientale asiatica [ 2].

In particolare, con l’intento di contrastare il Vietnam filosovietico, le autorità cinesi offrirono appoggio alla Cambogia dei khmer rossi”, i guerriglieri comunisti cambogiani guidati da Pol Pot, che si era formato alla Sorbona di Parigi e che aveva elaborato una personale sintesi di comunismo rurale e nazionalismo. I comunisti cambogiani cercarono di realizzare una radicale riforma agraria in senso collettivistico, che condusse il paese alla carestia, e si resero responsabili di un vero e proprio sterminio a danno di ogni potenziale oppositore. Particolarmente sanguinosa fu la campagna contro i cosiddetti “intellettuali”, una categoria quanto mai ampia in cui si rispecchiava l’ostilità del regime verso il mondo urbano e acculturato, che doveva essere distrutto: si calcola che i khmer rossi abbiano provocato fino a due milioni di vittime, ossia circa il 25% della popolazione.
Nell’aprile 1978, forte del sostegno da parte della Cina, la Cambogia invase il Vietnam, che a sua volta rispose con una controffensiva al termine della quale nel gennaio 1979 conquistò Phnom Penh, la capitale cambogiana, ponendo fine al regime di Pol Pot e favorendo la formazione della Repubblica popolare di Cambogia. Proprio durante l’avanza vietnamita furono scoperti i numerosi campi di prigionia e le fosse comuni con i cadaveri degli oppositori dei khmer rossi [ 3].

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Lo sviluppo economico cinese
Il 1978 fu un anno decisivo per la modernizzazione cinese. In primo luogo, fu adottata la politica del figlio unico, con una serie di incentivi volti a porre sotto controllo la crescita demografica, limitandola a 1 miliardo e 200 milioni di abitanti entro il 2000 (il miliardo fu superato nel 1982).
In secondo luogo, per aprire la Cina al mercato, furono create “zone economiche speciali” [ 4], nel Guangdong (vicino a Hong Kong) e nel Fujian, dove erano già formalmente consentite attività di esportazione e importazione e dove furono costruiti centri industriali, commerciali, spazi turistici e residenziali. In queste zone furono adottati moderni metodi di gestione manageriale, incentivi fiscali e semplificazioni normative. In questo modo si intensificarono le relazioni finanziarie, tecnologiche e commerciali con Hong Kong, allora sotto sovranità del Regno Unito, facendo affluire in Cina investimenti di capitali, imprenditori specializzati e aprendo al tempo stesso alle aziende della metropoli britannica un vasto mercato di manodopera a basso costo. Il successo dell’esperimento spinse Deng, nel 1984, a espandere le politiche in atto a Guangdong e a Fujian ad altre quattordici città lungo la costa.
Nel 1978, nonostante la massiccia introduzione di fertilizzanti chimici e di tecniche produttive ispirate alla “rivoluzione verde” [▶ cap. 11.5], la produzione di grano della Cina era ancora insufficiente per il fabbisogno interno. Deng cercò quindi di migliorare il sistema agricolo, dopo le prove estreme e fallimentari della collettivizzazione che portarono alle successive carestie tra il 1959 e il 1961 [▶ cap. 11.7]. Fu permesso ai contadini di decentrare il proprio lavoro in unità produttive più piccole, ma occorsero molti anni prima che la decollettivizzazione e l’introduzione dell’agricoltura famigliare aumentassero la produzione, finché nel 1984 fu realizzato un raccolto di grano senza precedenti.

Cambiamenti non minori riguardarono la produzione manifatturiera. Nel 1982, strutture collettiviste come le comuni furono abolite, i laboratori industriali e i negozi passarono sotto la giurisdizione dei villaggi e si moltiplicarono così le iniziative individuali e famigliari, che alimentarono la straordinaria crescita economica cinese. Tuttavia, proprio la crescita portò con sé un innalzamento dei prezzi, ulteriormente aggravato dal progressivo abbandono dei controlli statali sul mercato. Intorno al 1988, nonostante l’intervento delle autorità per fronteggiare le difficoltà emerse dopo la concessione di una maggiore libertà d’impresa, l’inflazione, insieme all’aumento della disoccupazione, crearono tensioni nelle città.

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La repressione di Tienanmen
A differenza dell’Unione Sovietica di Gorbačev [▶ cap. 15.1], che puntava a rinnovare il sistema politico, la Cina di Deng intendeva aprire l’economia al mercato senza incrinare il monopolio del potere da parte del Partito comunista. Tuttavia, a partire dall’inizio dell’aprile 1989, Pechino e altre grandi città furono attraversate da un movimento di protesta di massa, sostenuto soprattutto dai giovani, in particolare studenti. Inizialmente rispettoso delle prerogative del partito, il movimento di piazza Tienanmen (dal nome della principale piazza di Pechino, dove avevano luogo i raduni dei manifestanti) assunse forme sempre più radicali, mettendo in discussione il monopolio politico del Partito comunista, invocando riforme economiche e aperture alla democrazia. Però, nessun leader, né movimento sindacale, dopo decenni di inquadramento all’interno del regime comunista, era in grado di rappresentare il disagio degli studenti e di costituirsi come interlocutore credibile di fronte al partito.
D’altro canto, le incertezze dei vertici del Pcc, al cui interno si mostravano i primi segni di divisioni profonde, finivano per alimentare lo scontento nella classe media urbana, tra gli studenti e gli intellettuali. Per questo motivo, Deng decise di imporre la legge marziale, con l’intento di evitare alla Cina le scosse che stavano destabilizzando l’Europa orientale e l’Unione Sovietica [▶ cap. 15.2]. Nella notte tra il 3 e il 4 giugno 1989 l’esercito intervenne per riportare la situazione sotto controllo: nonostante la resistenza popolare che le forze armate incontrarono già nelle periferie di Pechino, i militari riuscirono a sgomberare piazza Tienanmen, con una violenta repressione dei manifestanti disarmati che provocò centinaia di morti [ 5].

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La spaccatura nel paese era profonda, il morale di un esercito usato contro il proprio popolo era basso, le aspettative di rinnovamento erano ormai tramontate. La condanna internazionale fu pressoché unanime, anche se le pressanti richieste di rispetto dei diritti umani si scontrarono ben presto con le esigenze altrettanto impellenti del mercato, che imponevano di mantenere i contatti commerciali con un partner dalle enormi potenzialità economiche come la Cina.

Nonostante si fosse formalmente ritirato dalla scena politica nel 1992, Deng continuò a essere il punto di riferimento della Cina e a promuovere con i suoi viaggi la crescita economica fino alla morte, nel 1997. Il suo successore Jiang Zemin si mosse sul solco delle politiche di sviluppo di Deng, garantendo al contempo la stabilità del sistema politico comunista, mentre le politiche di controllo demografico basate sull’obbligo di un solo figlio mostravano la loro efficacia sul breve periodo.

17.2 Crisi e sviluppo della democrazia indiana

Le contraddizioni di una potenza regionale
L’altra grande potenza asiatica in ascesa, insieme alla Cina, era l’India, la quale seguì però un percorso ben diverso. Nel corso degli anni Sessanta e Settanta, come la Cina, l’India conobbe una straordinaria espansione demografica (dai circa 450 milioni dei primi anni Sessanta si passò ai circa 550 milioni all’inizio degli anni Settanta), ma la “rivoluzione verde” offrì anche qui gli strumenti per migliorare e aumentare la produzione agricola di molte regioni [▶ cap. 11.5]. Tuttavia, almeno 200 milioni di persone vivevano ancora sotto la soglia di povertà.
Malgrado le acute contraddizioni del suo sviluppo, negli anni Settanta l’India si distinse per una politica estera attiva, riuscendo ad affermarsi come potenza regionale e dotandosi inoltre di armamenti nucleari dal 1974. Dopo la separazione, India e Pakistan si erano scontrati in due conflitti per il controllo della regione del Kashmir (divisa tra i due Stati) nel 1947 e nel 1965, che, tuttavia, avevano lasciato irrisolta la questione; durante questi scontri, nella parte indiana della regione contesa guadagnò sempre maggiori consensi e adesioni il movimento separatista di ispirazione islamica. D’altro canto, nel 1971, una nuova guerra coinvolse il governo centrale di Islamabad (capitale del Pakistan occidentale) contro gli indipendentisti bengalesi presenti nel Pakistan orientale: l’intervento delle truppe indiane a sostegno degli indipendentisti bengalesi pose fine al conflitto e appoggiò la costituzione della Repubblica popolare del Bangladesh [ 6].

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Il potere di Indira Gandhi
Indira Gandhi, figlia di Nehru, salita al potere nel 1966, varò dapprima un insieme di misure sociali per estendere l’educazione, l’assistenza, la protezione della salute e per ridurre le diseguaglianze, sia quelle tra uomini e donne sia quelle dovute alla divisione in caste della società indiana, che, nonostante fosse stata formalmente abolita, di fatto continuava a sopravvivere. Negli anni successivi, tuttavia, la leader indiana subì la crescente influenza dell’esempio sovietico e affrontò con estrema determinazione le difficoltà del paese che le sue stesse politiche avevano aggravato. In particolare, per fronteggiare la disoccupazione e l’inflazione e procedere al varo del quinto piano quinquennale, fra il 1975 e il 1977 Indira Gandhi impose lo stato d’emergenza, dichiarato tra l’altro senza il consenso del parlamento.
Il governo autoritario di Indira Gandhi, insieme alla corruzione diffusa nell’amministrazione dello Stato, alimentò lo scontento dell’opinione pubblica e suscitò vaste proteste nei confronti del primo ministro: le elezioni del 1977 sancirono pertanto la prima sconfitta dell’Indian National Congress, che aveva governato fin dal 1947, e l’affermazione della coalizione Janata (Partito del popolo), costituita da un fronte eterogeneo di forze di opposizione. Tra le mosse più significative del nuovo governo figurarono l’abolizione dello stato di emergenza e il ripristino delle libertà fondamentali, prima che Indira venisse rieletta nel 1980, grazie al suo carisma e alla frammentarietà della coalizione Janata.

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Il quadro culturale e religioso estremamente frammentato e stratificato del subcontinente indiano alimentava periodiche esplosioni di tensione e violenza tra le diverse comunità (hindu, musulmana, sikh, cristiana). In particolare, fin dall’indipendenza, la popolazione sikh rivendicava uno statuto speciale per il Punjab, la propria regione storica, ma la richiesta incontrò la netta opposizione di Indira Gandhi. La situazione si deteriorò a tal punto che nel 1983 fu sospesa ogni forma di autogoverno, alimentando tensioni che sfociarono nell’assassinio di Indira, nell’ottobre 1984, da parte di due guardie del corpo di origine sikh [ 7]. Nelle settimane successive, folle di hindu scatenarono la caccia contro i sikh nelle strade di Nuova Delhi e di altre grandi città indiane, provocando il massacro di almeno 3000 sikh.
Rajiv Gandhi al potere
Nel dicembre 1984 divenne primo ministro il figlio di Indira, Rajiv Gandhi, che impose una svolta significativa alla linea dell’Indian National Congress. Egli promosse una forte politica di liberalizzazione del sistema economico, incoraggiando l’iniziativa privata e aprendo il paese agli investimenti stra­nieri. Questa politica incentivò il libero commercio, che consentì di ripagare in parte il debito pubblico. I tassi di crescita indiani conobbero un’ascesa notevole, anche se interessarono solo alcune regioni del paese e alcuni settori produttivi come i servizi, in particolare quelli ad alta tecnologia informatica. La classe media abbandonò la tradizionale austerità e cominciò a familiarizzarsi con i moderni beni di consumo, mentre si riduceva il numero dei poveri, anche se persistevano forti diseguaglianze. Intanto, nonostante i tentativi di adottare politiche di controllo demografico, la popolazione indiana superò il miliardo intorno al 2000, raddoppiando rispetto agli anni Settanta e apprestandosi a raggiungere e superare il livello demografico cinese.

Fino al 1989, malgrado la breve parentesi tra il 1977 e il 1980, il sistema politico indiano fu dominato dall’Indian National Congress. A sconvolgere nuovamente la politica indiana fu l’assassinio di Rajiv, avvenuto nel 1991 per opera del gruppo radicale d’ispirazione comunista e nazionalista srilankese delle Tigri Tamil; i motivi dell’assassinio furono legati al mancato sostegno da parte di Rajiv Gandhi all’insurrezione in Sri Lanka promossa dalle milizie Tamil. In seguito alla morte di Gandhi, nella scena politica indiana si fece strada una frammentazione dei partiti, che fu il prodotto di una crescente partecipazione democratica, la quale favorì il successo del radicalismo hindu.

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Gli anni Novanta furono segnati da una crescente animosità tra hindu e musulmani, che sfociò in sollevazioni violente, spesso provocate dalla costruzione di un nuovo tempio o di una nuova moschea. La maggior parte delle vittime di questi scontri furono musulmani, appartenenti agli strati meno abbienti e meno alfabetizzati della popolazione. Su di essi aveva una presa crescente il fondamentalismo: in particolare nella valle del Kashmir, aumentò la presenza di guerriglieri ▶ jihadisti [ 8] finanziati e supportati dalle autorità pakistane, che si resero responsabili di gravi attentati contro obiettivi governativi (caserme di polizia, basi militari ecc.), ma anche contro la popolazione hindu.

17.3 Ascesa e declino del Giappone e delle Tigri asiatiche

Culmine e crisi del ciclo postbellico giapponese
Se la Cina e l’India avevano seguito vie del tutto particolari alla modernizzazione, il Giappone si era conformato al modello occidentale di sviluppo [▶ cap. 10.3]. Infatti, esso conobbe un eccezionale progresso tra gli anni Cinquanta e Sessanta, grazie soprattutto al premier Hayato Ikeda, il quale combinò radicali politiche di liberalizzazione del commercio con un vasto programma di intervento pubblico, per costruire infrastrutture e incentivare i consumi.

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L’economia nipponica, come in tutto il mondo occidentale, subì un rallentamento nel decennio successivo, seppure meno drastico rispetto a quanto avvenne in Europa o in America. Infatti, nonostante il serio impatto delle due crisi energetiche del 1973 e del 1979 [▶ cap. 14.1-14.4], che decuplicò il prezzo del petrolio e di conseguenza i costi della produzione industriale, l’economia giapponese mostrò una notevole capacità di riconvertirsi agli investimenti nell’alta tecnologia [ 9]. Il nuovo slancio economico accentuò la competizione con gli Stati Uniti, ma a causa della forte rivalutazione dello yen, si creò un’anomala espansione del mercato finanziario giapponese che alimentò una ▶ bolla speculativa.
Tra il 1989 e il 1991, in coincidenza con la fine della Guerra fredda e con la dissoluzione dell’Urss, l’improvviso crollo dello yen segnò l’esaurimento del grande ciclo di espansione postbellica, mentre il Giappone entrava in una fase di relativa stagnazione, particolarmente forte in campo demografico, che si sarebbe acuita nei decenni seguenti.
Il “miracolo asiatico”
Seguendo un percorso per molti versi simile a quello giapponese, fin dagli anni Sessanta cominciarono a emergere le cosiddette “Tigri asiatiche”: Corea del Sud, Singapore, Taiwan e Hong Kong. Le capacità produttive e commerciali di queste economie ascendenti, caratterizzate dallo sviluppo di alte tecnologie, furono potenziate da un vigoroso intervento dello Stato, che però si basava su un sistema di sicurezza sociale ridotto al minimo e su una rigida disciplina sindacale, mirata alla compressione dei salari. Tra anni Ottanta e Novanta, le esperienze delle Tigri asiatiche applicarono in forma più conseguente le misure liberiste [▶ cap. 14.4], tese a incrementarne la competitività sui mercati internazionali. Corea del Sud e Taiwan si specializzarono nella produzione di alta tecnologia informatica, mentre Singapore e Hong Kong (rimasta sotto sovranità britannica fino al 1997) diventarono due grandi centri finanziari [ 10]. La crisi finanziaria asiatica del 1997, provocata dal forte indebitamento del settore privato (banche e imprese) e dal conseguente improvviso ritiro di investimenti stranieri, colpì gravemente le Tigri asiatiche, provocando enormi perdite sui mercati finanziari, ma senza comprometterne l’efficienza produttiva.

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17.4 Dittature, crisi finanziarie e rivolte in America Latina

Regimi autoritari e liberisti
Pur senza dare luogo a esperienze del tutto originali, i paesi dell’America Latina elaborarono risposte particolari in ambito socio-economico alle sollecitazioni provenienti dagli sviluppi globali, mediati dall’esempio e dal­l’intervento diretto o indiretto degli Stati Uniti. Gli anni Sessanta erano stati animati da una forte tensione rivoluzionaria in tutta l’America Latina, che aveva alimentato lotte politiche e sociali [▶ cap. 11.9]. Tuttavia, all’inizio del decennio successivo si affermarono nuovi regimi autoritari, spesso attraverso colpi di Stato orditi da generali dell’esercito, come Augusto Pinochet in Cile, Jorge Rafael Videla in Argentina, Alfredo Strossnoer in Paraguay, Hugo Banzer Suarez in Bolivia, che si aggiunsero al governo militare già al potere in Brasile dal 1964 e quello in Uruguay dal 1973. Queste diverse dittature militari organizzarono la cosiddetta “Operazione Condor”, che consisteva nella collaborazione e nel coordinamento fra servizi segreti (spesso con l’aiuto della Cia) per reprimere i nemici interni, identificati nei movimenti socialisti, comunisti o sindacali.
A differenza dei regimi populisti che tra gli anni Quaranta e Sessanta avevano praticato varie forme di corporativismo e di statalismo, le dittature degli anni Settanta puntarono sull’adozione di politiche liberiste, tese a stroncare l’inflazione, a liberalizzare il mercato e a eliminare ogni ostacolo alla loro realizzazione, a partire dai movimenti sindacali. I nuovi autoritarismi, che si ispiravano quindi alle teorie neoliberiste e monetariste della scuola di Chicago [▶ cap.14.1], raccoglievano il consenso dei grandi possidenti, dei settori borghesi intermedi e dei nuovi ceti intellettuali di formazione tecnocratica, poiché privilegiavano l’integrazione nel mercato globale. Così facendo, si intensificarono sempre più gli scambi commerciali, a danno dello sviluppo industriale e del mercato interno. Questo nuovo modello autoritario e liberista fu applicato soprattutto in Cile e Argentina, anche se con maggior consequenzialità nel primo caso che nel secondo.

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Le dittature in Cile e Argentina
In Cile, nel 1970, una coalizione di sinistra (Unidad Popular), che era guidata dal socialista Salvador Allende e che comprendeva anche il Partito comunista cileno, vinse le elezioni e avviò una politica di nazionalizzazione delle imprese, volta allo sfruttamento delle risorse naturali più importanti del paese, estromettendo di fatto le multinazionali. Nonostante Allende dichiarasse di voler instaurare il socialismo attraverso metodi democratici, la crescente opposizione dei settori conservatori, sotto la spinta di violente agitazioni sociali, fu usata come pretesto dai vertici militari per guidare un colpo di Stato. L’11 settembre 1973, sotto il comando del generale Augusto Pinochet, l’esercito dichiarò decaduto il governo in carica e non esitò a bombardare il palazzo presidenziale La Moneda [ 11], nella capitale Santiago del Cile, dove Allende si era rifugiato e dove si uccise dopo un vano tentativo di resistenza armata. Il nuovo regime dittatoriale, che poneva fine a una solida tradizione democratica in Cile, scatenò una plateale e brutale repressione degli oppositori, che furono spesso detenuti all’interno di campi di concentramento e sottoposti a tortura.

In Argentina i generali dell’esercito, tra cui spiccavano Jorge Rafael Videla e Leopoldo Galtieri, presero il potere nel 1976 con un colpo di Stato incruento, destituendo la moglie di Juan Domingo Perón, Isabelita, succedutagli alla presidenza del paese alla morte di lui, nel 1974. La giunta militare inaugurò una politica di repressione che portò alla scomparsa di 11 000 oppositori (secondo le stime ufficiali, ma altre fonti parlano di 30 000 desaparecidos), prelevati nottetempo da casa, incarcerati in prigioni segrete, torturati e spesso gettati da aerei in volo sull’oceano. Il regime, che si legittimava attraverso il richiamo alla difesa dell’Occidente cristiano dalla diffusione del comunismo, godeva di un vasto appoggio della Chiesa. Nonostante le violenze, la sua credibilità internazionale non fu discussa; anzi, nel 1978, nel pieno della repressione, in Argentina si tennero i Mondiali di calcio e la vittoria della nazionale ospitante segnò la consacrazione della dittatura [ 12].

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Progressi politici e incertezze economiche negli anni Ottanta
In concomitanza con la crisi del blocco sovietico e con l’allentamento delle tensioni della Guerra fredda, molti paesi dell’America Latina imboccarono varie transizioni alla democrazia, senza però liberarsi, almeno in una prima fase, del peso dei militari nella vita pubblica. In Argentina, nel 1983, dopo la fallimentare impresa militare delle Falkand/Malvinas [▶ cap. 14.4], la giunta dei generali si dimise e subì un processo per i propri misfatti [ 13], mentre le elezioni aprivano la strada a un, pur stentato, corso democratico. In Brasile, dopo una fase di straordinaria crescita economica, la dittatura militare cercò di gestire la crisi degli anni Settanta con un ampio intervento statale, ma nel decennio successivo aumentarono a dismisura l’inflazione e il debito pubblico. Il regime fu abbattuto dalle manifestazioni di piazza, ma il varo della Costituzione democratica, nel 1988, non ridusse il potere decisivo dei militari. In Cile, fin dai primi anni Ottanta, le drastiche misure economiche di risanamento dei conti pubblici, di cessione della gestione delle principali risorse a multinazionali e di liberalizzazione degli scambi migliorarono le condizioni economiche del paese. Intanto, si avviò un percorso di graduale superamento del regime autoritario di Pinochet, che portò alla sconfitta del dittatore in un referendum nel 1988 e alle elezioni democratiche nel 1989.
Al contrario di quanto accadeva nel resto dell’America Latina, dove soluzioni dittatoriali e pratiche violente tendevano a diminuire, negli anni Ottanta il Nicaragua, il Guatemala e il Salvador furono dilaniati da guerre civili che nel corso dei primi anni del decennio provocarono centinaia di migliaia di morti. La linea della polarizzazione ideologica passava ancora una volta tra comunismo e anticomunismo e l’intervento più o meno coperto degli Stati Uniti contribuì a radicalizzare lo scontro interno.
Sulla vita economica del continente cominciarono a pesare il rallentamento della produttività e l’aumento smisurato dei debiti, al punto che gli anni Ottanta furono ribattezzati “il decennio perduto”. Infatti, negli anni Settanta, i paesi esportatori di petrolio del Medio Oriente, arricchitisi grazie all’innalzamento del prezzo del greggio, avevano depositato le loro ricchezze in banche che avevano fornito ingenti prestiti ai paesi in via di sviluppo. Tuttavia, a causa della stagnazione economica, della diminuzione degli scambi commerciali, aumentarono gli interessi e i debiti finirono per schiacciare le finanze pubbliche di questi paesi, come avvenne in Messico nel 1983 [ 14] e in Argentina nel 1989, acutizzando così l’inflazione e la disoccupazione.
Il “cortile di casa” statunitense
Nelle dinamiche politiche ed economiche dell’America Latina, un ruolo attivo fu giocato dagli Stati Uniti che tendevano a considerare le altre due Americhe come il “cortile di casa”. L’amministrazione Nixon (1969-74), ispirata dall’approccio realista di Kissinger, non esitò ad appoggiare i governi usciti da colpi di Stato come quello in Cile nel 1973, che garantivano l’esclusione di governi ostili agli Stati Uniti. Una svolta parziale si realizzò con il presidente democratico Carter, eletto nel 1977, il quale cercò di imporre il rispetto dei diritti umani.
Le amministrazioni repubblicane del decennio successivo, con Ronald Reagan e George Bush, furono caratterizzate da una nuova fase di intervento militare statunitense. Nell’ottobre 1983 i marines sbarcarono a Grenada, con l’obiettivo di rovesciare un governo rivoluzionario filocubano. Nel dicembre 1989 un corpo di spedizione statunitense invase Panama per deporre e catturare il dittatore Manuel Noriega, coinvolto nel traffico internazionale di droga, e per garantirsi il controllo del canale, restituito dieci anni più tardi all’autorità panamense [ 15].

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Nonostante la caduta del comunismo in Europa orientale, Cuba non riformò il sistema politico a partito unico, centrato sul ruolo carismatico del lider maximo Fidel Castro, né abbandonò l’economia collettivista, che pur mostrava tutte le sue croniche disfunzioni. Tuttavia, a seguito della dissoluzione dell’Unione Sovietica, Cuba dovette far fronte a un nuovo isolamento economico e diplomatico, oltreché al proseguimento dell’embargo americano, che peggiorò gravemente le condizioni sociali ed economiche della popolazione.
Le crisi finanziarie degli anni Novanta
Le recessioni economiche degli anni Ottanta si aggravarono nel decennio successivo. Non mancarono eccezioni come il Cile, che riuscì a mantenere, con il consolidamento delle nuove istituzioni democratiche, il tasso di sviluppo e l’ordine della finanza pubblica che erano stati impostati in precedenza dalla dittatura di Pinochet.
Su incentivo dell’amministrazione Bush, in accordo con la Banca mondiale e il Fondo monetario internazionale [▶ cap. 10.1], i debiti dei paesi latinoamericani, strutturalmente incapaci di pagare i propri creditori, furono ridotti. Al tempo stesso furono incoraggiate ulteriori politiche di riforma volte a porre sotto controllo l’inflazione e favorire sia la competizione economica sia l’apertura dei mercati ai capitali stranieri. Questo insieme di misure liberiste, che erano già state sperimentate in Cile e che costituivano l’essenza del “consenso di Washington” [▶ cap. 15.3], fu in seguito adottato dai paesi dell’Europa ex comunista.

La moderata ripresa economica degli anni Novanta consentì una notevole riduzione delle diseguaglianze sociali in molti paesi latinoamericani, anche se la globalizzazione finanziaria creò le premesse per l’instabilità degli Stati che avevano contratto maggiori debiti pubblici, scatenando vere e proprie crisi finanziarie in Messico nel 1994 e in Brasile nel 1998. Fu però l’Argentina a conoscere la bancarotta nel 2001, dopo che il pesos (la moneta nazionale) era stato pareggiato al dollaro, portando a una sua eccessiva rivalutazione. La fuga dei grandi capitali e dei piccoli risparmi fu bloccata con la chiusura delle banche, che suscitò una vasta rivolta sociale, paralizzando il sistema politico argentino.

Nonostante la realizzazione di politiche liberiste, che favorivano sia la crescita economica sia l’instabilità finanziaria, le democrazie dell’America Latina non arretrarono, anche se rimasero fragili. Al loro fianco emersero nuovi regimi populisti, come quello di Hugo Chavez in Venezuela (1999-2013), che, facendo leva sulle risorse naturali nazionali come il petrolio, cercavano di chiudersi alla globalizzazione [ 16].

17.5 Guerre civili e crisi in Africa

I regimi postcoloniali
Anche dopo la fine dei processi di decolonizzazione [▶ cap. 11.3], l’Africa continuò a essere soggetta a forti influenze esterne, che in vario modo riecheggiavano i conflitti della Guerra fredda e da cui dipendeva la legittimazione delle nuove classi dirigenti. Fin dagli anni Sessanta, l’Africa postcoloniale fu segnata da sanguinosi conflitti, che scaturivano più da precari equilibri interni tra le diverse comunità culturali e religiose, che dalle rivalità interstatali. Nondimeno, soprattutto negli anni Settanta, le dittature che si erano affermate dopo la crisi dei regimi democratici istituiti al momento della decolonizzazione cercarono di promuovere la modernizzazione, seguendo spesso il modello sovietico e beneficiando così del trasferimento di risorse e tecnologie, nonché dell’afflusso di consiglieri da Mosca.

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Con la fine della Guerra fredda, a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta, crollarono alcune delle più stabili fra queste dittature, come quella di Menghistu in Etiopia (1974-91) e quella di Siad Barre in Somalia (1961-91), aprendo spesso la strada alla disgregazione di ogni forma di autorità statale.

Negli anni Novanta cominciò a diffondersi l’integralismo islamico in varie zone del continente africano, come in Sudan, dove si stabilì una dittatura militare di tipo ▶ islamista, o in Somalia, dove si insediarono le prime cellule jihadiste legate ad al-Qaeda, il gruppo di Osama bin Laden [▶ idee, p. 702].

Fin dal 1948 nell’Unione sudafricana (poi Repubblica sudafricana dal 1961) era in vigore un sistema di segregazione razziale, denominato apartheid, che imponeva la discriminazione sistematica delle popolazioni di colore e la loro esclusione dai diritti dei bianchi. L’apartheid fu oggetto di opposizioni crescenti, che trovarono il principale rappresentante in Nelson Mandela, capo dell’African National Congress, detenuto in carcere dal 1963 [▶ cap. 11.3]. Dopo la sua liberazione nel febbraio 1990, seguirono una serie di negoziati tra lo stesso leader dell’Anc e il governo sudafricano che stabilirono la fine dell’apartheid, sancita, nel 1994, dalle prime elezioni a suffragio universale [ 17]. L’anno successivo fu stabilita la “Commissione verità e riconciliazione” per fondare su nuove basi la convivenza tra la comunità nera e quella bianca, nonostante forme persistenti di discriminazione e intolleranza.

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Crescita demografica e debito
Grazie alla “rivoluzione verde”, tra gli anni Settanta e Ottanta l’Africa conobbe un’eccezionale crescita demografica [▶ fenomeni], che portò la popolazione complessiva dai 257 milioni del 1963 ai 482 del 1983 e che fornì un forte impulso all’urbanizzazione. Ampie zone del continente, in particolare il Corno d’Africa (Etiopia, Eritrea e Somalia), continuavano a essere afflitte dalla piaga della fame, spesso accompagnata da vere e proprie carestie, come quella avvenuta in Etiopia nel 1984-85. La siccità e i conseguenti cattivi raccolti furono tra le cause naturali della carestia etiope che determinò fino a 800 000 vittime; ad aggravare la situazione contribuirono sanguinose guerre civili, che a loro volta provocarono oltre 150 000 morti, coinvolgendo soprattutto civili. Dagli anni Ottanta, la pandemia dell’Aids aggravò la situazione sanitaria del continente, causando oltre dieci milioni di vittime nell’Africa subsahariana [▶ cap. 14.4].
Molti paesi africani, come quelli dell’America Latina, ottennero un’enorme quantità di crediti da parte di banche private e del Fondo monetario internazionale nel corso degli anni Settanta. Tuttavia, l’irresponsabilità e la corruzione delle classi dirigenti locali, la cronica assenza di infrastrutture nel continente africano, la recessione dell’economia globale, dipendente dalle politiche volte a contenere l’inflazione nel mondo occidentale, e la conseguente riduzione dei consumi fecero esplodere, nel 1982, il problema dell’insostenibilità dei debiti dei paesi africani, i quali da allora continuarono ad aumentare. L’opinione pubblica occidentale diventò più sensibile alla questione africana durante gli anni Ottanta, ma i governi occidentali e le imprese multinazionali, interessati allo sfruttamento delle risorse locali, tendevano ad appoggiare i governi africani corrotti ed inefficienti. Durante gli anni Novanta, per ridurre il peso sempre più grave del debito o ottenere nuovi crediti, questi governi furono spesso spinti ad adottare misure liberiste che tagliavano la già limitata spesa per scuole e sanità. Tuttavia, la cancellazione del debito era vista sempre più come la premessa per una vera crescita economica del continente africano.
Il genocidio in Ruanda
Fin dall’epoca dell’emancipazione coloniale dal Belgio (1962), il Ruanda aveva conosciuto un conflitto tra i due gruppi tribali prevalenti, gli hutu (dediti all’agricoltura) e i tutsi (dediti alla pastorizia). Le tensioni ripresero dal 1991, quando il Fronte patriottico ruandese (gruppo armato dei tutsi) cominciò a resistere al potere centrale degli hutu, mentre questi ultimi avviavano la pianificazione di uno sterminio nei confronti dei primi. Il 6 aprile 1994 l’uccisione del presidente ruandese Juvenal Habyarimana, espressione della maggioranza hutu, che si era impegnato in un tentativo di pacificazione, creò un enorme vuoto di potere. Scoppiò quindi una guerra civile, che diventò in poche ore un vero e proprio genocidio compiuto dagli hutu ai danni dei tutsi. Tra l’inizio di aprile e la metà di luglio, in circa cento giorni, furono uccisi tra 800 000 e un milione di ruandesi (su un totale di circa 7 milioni), riducendo del 70% la popolazione tutsi. Nonostante la violenza genocida contro i tutsi, le truppe del Fronte patriottico ruandese avanzarono fino a circondare la capitale Kigali, che fu conquistata all’inizio di luglio. A seguito della vittoria dei tutsi, quasi due milioni di persone (per lo più hutu) si rifugiarono in campi profughi fuori dal paese, soprattutto in Zaire (l’attuale Repubblica democratica del Congo). La comunità internazionale assistette con senso di impotenza al genocidio ruandese e alle sue conseguenze; l’intervento delle forze francesi di pacificazione fu tardivo e parzialmente screditato dalle accuse di voler garantire l’impunità e l’incolumità degli alleati hutu.

Storie. Il passato nel presente - volume 3
Storie. Il passato nel presente - volume 3
Dal 1900 a oggi