4. I partiti politici e la società italiana del dopoguerra

percorso 4

I partiti politici e la società italiana del dopoguerra

Tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta, con la crisi e poi il crollo del sistema dei partiti in Italia, gli storici cercarono di elaborare le prime importanti sintesi intorno a quella che il dibattito giornalistico ha definito la “prima Repubblica”. All’attenzione per le vicende dei partiti e dei cicli politici si è sommata l’analisi per le dinamiche sociali e culturali, che hanno accompagnato il tortuoso ingresso dell’Italia nella modernità. I brani di due storici, l’uno di estrazione cattolica progressista (Pietro Scoppola), l’altro di formazione marxista (Silvio Lanaro), cercano di spiegare quella “grande trasformazione” della società e della cultura italiane tra anni Cinquanta e Sessanta, mettendo in luce critica i processi di “secolarizzazione” e di “snazionalizzazione” attraverso l’avvento della società dei consumi.

testo 1

Pietro Scoppola 

La presenza politica cattolica e l’avvento di una società secolare e consumistica

Mentre la Chiesa e la Democrazia cristiana erano dedite alla lotta contro il comunismo, assicurando la transizione dal fascismo alla democrazia, le masse cattoliche si aprirono sempre più all’avvento di una società secolarizzata, in cui i consumi assumevano un valore fondamentale e trasformavano l’Italia rurale in una società moderna.

Lo sviluppo economico del paese non attende naturalmente la lenta maturazione della cultura e sin dall’inizio degli anni Cinquanta si manifesta con la sua forza dirompente. Alla fase della ricostruzione, iniziata già nella seconda metà degli anni Quaranta, si salda strettamente, senza la possibilità di stabilire confini netti fra le due, la nuova fase dello sviluppo. Il risultato complessivo è quello di una profonda e decisiva trasformazione della società italiana in tutti i suoi aspetti: l’Italia, sia pure con molti squilibri, diventa nel suo insieme un paese industriale; una trasformazione che in altri paesi ha richiesto decenni si concentra nel giro di pochi anni.

[...]

Proprio alla metà degli anni Cinquanta entra in funzione e si diffonde rapidamente la televisione che fa da supporto e da moltiplicatore dei comportamenti consumistici. Il rapporto fra consumismo e televisione è un tema sul quale si è molto scritto e discusso in sede soprattutto sociologica ed anche economica. Le ricerche in questo ambito vanno naturalmente al di là della ovvia constatazione della correlazione fra diffusione del mezzo televisivo e sviluppo dei consumi (dei quali la televisione stessa è del resto un esempio): si tende a valutare gli effetti della televisione nelle diverse aree geografiche, in rapporto ai livelli di sviluppo; si studiano gli effetti di omologazione che essa ha prodotto, si studia l’incidenza della televisione nel tempo e così si parla di prima, seconda o terza generazione di televisori per mettere in risalto il decrescere della efficacia dello strumento.

Non possiamo naturalmente addentrarci in questi aspetti del tema. Quello che è certo, è che non si è capito se non in ritardo e con molte incertezze l’elemento di originalità proprio dello strumento televisivo: quella coincidenza fra mezzo di comunicazione e contenuto che McLuhan1, proprio all’inizio degli anni Cinquanta, aveva intuito e spiegato. Sicché l’attenzione si è concentrata sulla gestione e sul controllo, come elemento di potere, piuttosto che sugli effetti intrinseci alla diffusione del nuovo mezzo.

Dunque abbiamo avuto uno sviluppo guidato dalla spontaneità di un mercato senza regole e da una mentalità (se non vogliamo dire cultura) di tipo consumistico che si è diffusa pacificamente e senza scontri clamorosi in Italia e che finirà, come vedremo, con lo sconfiggere vecchie e nuove culture popolari, la cattolica non meno che la marxista.

[...]

Di fatto, mentre la Chiesa era impegnata nello scontro frontale con il comunismo, il nemico nuovo e più temibile veniva alle spalle nella forma di una scristianizzazione e di una progressiva e diffusa secolarizzazione della società italiana dal punto di vista della mentalità e del costume popolare. Gli anni del più forte esercizio del potere da parte dei cattolici, i «giorni dell’onnipotenza», per riprendere il già citato titolo di Mario Vittorio Rossi2, coincidono così con il periodo di massima secolarizzazione. È un paradosso sul quale vale certo la pena di riflettere.

All’interno del rapporto non mediato fra religione e politica – e tuttavia in un quadro democratico e di libertà costituzionali garantite – gli effetti della mobilitazione cattolica e dell’impegno dei cattolici in politica sono stati assai diversi da quelli voluti. Le dinamiche e vorrei dire le categorie del politico hanno avuto il sopravvento sul religioso. Osservando l’evoluzione del nostro paese sorge spontanea una riflessione ed una ipotesi interpretativa che certo esigerebbe un approfondimento maggiore: l’esperienza religiosa può essere vincente sulla politica solo nella condizione di opposizione e di resistenza; si pensi al caso recente della Polonia3. Nel momento del successo, e tanto più in un sistema di libero consenso, il politico se non è legato al religioso in un rapporto mediato da un forte e radicato tessuto morale a livello di coscienze individuali finisce con il prevalere secondo le sue logiche proprie.

I risultati finali della mobilitazione cattolica smentiscono il disegno di papa Pacelli4: è qui appunto che emerge il prevalere del politico. Il successo della dc, dovuto in gran parte alla forte mobilitazione della Chiesa, ha avuto grandi effetti di tipo politico, economico e sociale che non è certo possibile sottovalutare: consolidamento, pur in mezzo a forti tensioni, delle libertà democratiche; contenimento del comunismo; riassorbimento della eredità del fascismo; graduale scomparsa della secolare miseria italiana; sviluppo economico e avvio alla costruzione, anche nel nostro paese, dello Stato sociale.

Ma tutto questo ha avuto ben poco a che fare con il disegno che aveva guidato sul terreno del religioso la mobilitazione cattolica: le grandi energie cattoliche messe in movimento nel secondo dopoguerra, espresse sul piano politico dalla Democrazia cristiana, assicurano in definitiva una forte base di consenso ad uno sviluppo economico neocapitalistico destinato ad incidere profondamente sul volto della società italiana, sulla sua cultura e sulle sue tradizioni cattoliche. La impetuosa trasformazione del paese da agricolo in industriale travolge la religiosità tradizionale legata al mondo contadino e crea le premesse, già negli anni Cinquanta, di quei processi di secolarizzazione che avranno più ampia manifestazione nel periodo successivo. Il fatto che lo sviluppo non sia stato guidato da una coerente politica economica ma affidato, bensì, allo spontaneismo delle forze economiche ha conferito alla secolarizzazione in Italia caratteri suoi propri con effetti particolarmente devastanti.

[...]

Si direbbe, riprendendo il filo del discorso, che quella tendenza che è caratteristica dei processi di secolarizzazione a rivendicare i propri spazi di autonomia investa ormai i singoli comportamenti umani e spinga perciò verso la crisi di ogni riferimento etico. Ancor più in profondità sembra – come ha messo in luce una ricerca del sociologo Calvi5 – che venga meno la coerenza fra valori dichiarati e comportamenti concreti di singoli individui. Certo vi è stato e vi sarà sempre un divario fra principi affermati e atti concreti della vita, un divario riassunto nell’antico verso «video meliora proboque, deteriora sequor»6; ma questo contrasto ha posto sempre un problema, ha creato un conflitto; ora sembra invece che il divario sia accettato come normale, che non crei conflitti, quasi che i singoli atti, in una esasperata radicalizzazione del concetto di secolarizzazione, rivendicassero una loro piena autonomia, sfuggendo al riferimento unitario alla coscienza di un individuo.

Certo questi fenomeni non sono solo italiani: nel ricordato simposio dei vescovi europei è stato proposto il concetto di «personalità narcisista», come fenomeno «onnipresente nella civiltà occidentale», per indicare quei soggetti umani nei quali prevale su ogni altra considerazione quella della esasperata affermazione del proprio io, dei propri interessi e del proprio piacere. Sembra tuttavia che il fenomeno abbia nel nostro paese un particolare spessore proprio come contraccolpo a una trasformazione dell’economia e delle condizioni di vita cui non ha fatto riscontro una adeguata preparazione morale.

L’etica, identificata nel disegno pacelliano, come si è visto, con il religioso stesso, ha subito il contraccolpo del processo di secolarizzazione: la crisi della religiosità tradizionale è divenuta fatalmente anche crisi dell’etica. Il mondo femminile, che era stato, come si è detto, una sicura riserva di consenso per la presenza cattolica nel paese, ha avuto un ruolo decisivo nei processi di secolarizzazione; le nuove esigenze e i nuovi problemi del mondo femminile non sono stati adeguatamente compresi: «la Chiesa entra nella storia dei moderni diritti femminili – ha notato Paola Gaiotti7 – con una sorta di ottimismo superficiale, senza avere fatto i conti con le spinte oggettive al mu­tamento, senza alcuna rimessa in discussione di una prassi secolare»; la conseguenza è quella di un distacco diffuso del mondo femminile dalla Chiesa. Il fenomeno del progressivo rovesciamento a sinistra del voto femminile è solo una espressione particolare di questa tendenza.

Ma in realtà né la cultura marxista né tanto meno l’elitaria cultura laica sono state in grado di offrire al paese basi alternative al sentimento morale popolare di matrice cristiana. Il risultato è stato appunto quello di un salto in una sorta di vuoto etico del quale si percepisce oggi tutta la drammatica dimensione. Questo risultato verrà intrecciandosi con gli sviluppi del sistema politico, ai quali occorre ormai volgere nuovamente l’attenzione.


tratto da La repubblica dei partiti. Profilo storico della democrazia in Italia (1945-1990), Il Mulino, Bologna 1991

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testo 2
Silvio Lanaro

Ipertrofia dei consumi e crisi dell’identità nazionale

Le profonde trasformazioni sociali e culturali che crearono la moderna società dei consumi contribuirono a realizzare la nazionalizzazione delle masse anzitutto attraverso l’omologazione linguistica e al tempo stesso a mettere in discussione l’identità nazionale, fondata sull’idea tipicamente ottocentesca di patria.

Quasi nessuno, oggi, demonizza più il consumo come espressione di licenza e sfrenatezza – sintomi magari di inconsce frustrazioni – e la società che ne deriva come un congegno perverso che priva gli individui di ogni soggettività e li condanna all’interdizione da ogni progetto personale. Il consumo può rivelarsi benissimo un esercizio di libertà, come può arricchire la vita di esperienze positive e regolare i rapporti sociali secondo modalità tendenzialmente «giuste»: occorre tuttavia, perché ciò possa accadere, che un’educazione e una cultura lo subordinino a valori che in sé e per sé esso non contempla, neutralizzandone o almeno attenuandone la micidiale vocazione dissipatrice. Quando è immune del tutto da presupposti etici – o peggio ancora ambisce a fondare una morale in cui il piacere, la sicurezza e la gioia sono pura funzione del possesso e della performance garantita dalle «cose» – la sua «autosufficienza ideologica» diventa tale da «creare automaticamente un potere che non sa più che farsene di Chiesa, Patria, Famiglia e altre ubbie affini»1.

Ora, nell’Italia degli anni Sessanta il consumo assurge a divinità suprema perché una congiuntura storica assolutamente straordinaria – il fatto che la sua espansione coincida con l’effettiva unificazione sociale e demografica del paese – lo carica di cifre simboliche addizionali svincolandolo da obbedienze, discipline e cautele di qualsiasi natura: in altri termini, perché lo trasforma in un segnale di riconoscimento che permette agli uomini del Nord e del Sud, della città e della campagna, delle classi elevate e dei ceti popolari di accettarsi reciprocamente con una naturalezza che Chiesa, lingua, partiti, istituzioni pubbliche e servizio militare non erano mai riusciti ad assicurare.

[...]

Resta invece valida, s’intende, l’intuizione di una perdita del centro che segmenta la cattolicità di pari passo con la laicizzazione del costume: gli italiani – che dalla fine della Seconda guerra mondiale si comportano come se il loro stesso nome contenesse qualcosa d’infamante – dopo l’unità «di memorie, di sangue, di cor» hanno ormai smarrito anche il senso di una comunanza «d’altare»2.

Ma la snazionalizzazione, negli anni di un «miracolo» privo di ogni senso che non sia il suo stesso fluire, è anche frenata da processi che agiscono in controtendenza. Potentemente favorita dalla mobilità territoriale, dai mezzi di comunicazione di massa e dalle esigenze di designazione di un arsenale della modernità mai comparso all’orizzonte dei dialetti, l’unificazione linguistica del paese pone finalmente termine all’alternanza di eloquio letterario e idiomi vernacolari. Omogeneo e interclassista, il parlato che s’impone nella conversazione privata, nelle pagine dei giornali e sugli schermi televisivi scaturisce dalla sovrapposizione del cosiddetto italiano «regionale» o «popolare» – che s’innesta su varietà fonetiche, lessicali e morfosintattiche preesistenti – a una semplificazione della grammatica, a un restringimento del vocabolario, a una fioritura di neologismi e a un ingresso nell’uso corrente di moduli comunicativi mutuati dai linguaggi settoriali.

[...]

In conclusione, si parla di più l’italiano e nel contempo lo si parla peggio, com’è logico succeda a un amalgama linguistico che non è governato in alcun modo e procede per agglutinazioni cellulari assolutamente spontanee, sottratte al controllo e alla selezione di un «centro» di orientamento pedagogico – che può essere soltanto la scuola, conviene ribadirlo – preposto alla disciplina sistematica di qualcosa che dev’essere comunque «insegnato».

[...]

Correlativamente, a una maggiore ricchezza potenziale di mezzi espressivi – e ciò che più conta di mezzi espressivi per la prima volta comuni a un’intera popolazione – corrisponde l’impoverimento dell’universo simbolico collettivo: non un’idea dell’Italia, non un’immagine della modernità, non un’attribuzione di senso alle trasformazioni sociali sorreggono la nazionalizzazione delle parole e dei segni. Può sembrare un’assurdità, ma tale non è: il termine «patria» esce definitivamente dal dizionario, sostituito dal più anonimo e topografico «paese», come se la patria non fosse più «l’ambito territoriale, tradizionale e culturale, cui si riferiscono le esperienze affettive, morali e politiche dell’individuo in quanto appartenente a un popolo»; e qualche frammento di «nazione», del pari, sopravvive solo negli aggettivi che servono a quantificare i fenomeni economici (reddito nazionale, prodotto nazionale lordo) e nelle sostantivazioni brachilogiche3 proprie del linguaggio sportivo (la nazionale di calcio, la nazionale di nuoto), mentre nessuno si azzarda certo a parlar di nazione come della «unità etnica cosciente di una propria peculiarità ed autonomia culturale, specialmente in quanto premessa di unità e sovranità politica».

In relazione a una più vasta gamma di comportamenti, se si vuole si possono usare termini meno desueti di «patria» e di «nazione», come per esempio «interesse generale», o «solidarietà collettiva», o «patto sociale»: la realtà è comunque la stessa, cioè quella di un paese in cui tutti – dalla classe politica ai cittadini comuni – appaiono incapaci di compiere scelte che non siano dettate da convenienze di gruppo e di categoria. Ciò che fa difetto – e lo si noterà dopo il fallimento della «programmazione», ossia dei due piani economici quinquennali predisposti per il 1966-70 e per il 1971-75 – è un «civismo» che non rientra in alcun modo fra i requisiti dell’homo oeconomicus4 ma può soltanto correggere dall’esterno i meccanismi spontanei dello sviluppo: l’aspirazione a una società che cresce in modo ragionevolmente simmetrico, si potrebbe dire, e insieme un codice di condotta in grado di circoscrivere e delimitare conflitti, egoismi, spartizioni, evitando lo sgretolamento corporativo e il bellum omnium contra omnes5.

Durante il lungo dopoguerra, l’alleanza «democratica» che fungeva da argine anticomunista si era retta anche su un rapporto di mutuo soccorso fra borghesia imprenditoriale, burocrazia pubblica, ceti intermedi e lavoratori precari (dell’edilizia, del commercio, dei trasporti, della piccola industria) allo scopo di isolare una classe operaia irreggimentata quasi del tutto dai partiti «rivoluzionari». Pur piantando radici in propensioni antiche delle élite italiane, infatti, abituate a viaggiare a cavalcioni della congiuntura piuttosto che a rischiare in investimenti a reddito differito, lo stesso «miracolo» era figlio di una politica economica eminentemente preoccupata del «consenso» [...].

L’ipertrofia di un aggregato senza identità né collocazione – la caratteristica precipua del ceto medio italiano, secondo Paolo Sylos Labini6, è appunto quella di essere «ubiquitario»7, cioè di annidarsi in tutti i settori dell’attività economica scavandosi nicchie di privilegio come un «topo nel formaggio» – si ripercuote negativamente sulla mentalità, sulla cultura, sul costume: l’«in­centivazione inegualitaria» connessa al rapporto clientelare fa «preferire il progetto di miglioramento individuale a quello di miglioramento collettivo», degradando la concorrenza a competizione per l’ingresso nell’area dei benefici; la dipendenza del destino sociale dalla protezione dei partiti politici – o addirittura delle correnti e dei singoli notabili – deprime il senso di responsabilità verso le istituzioni pubbliche sostituendolo con la devozione agli uomini che le dirigono pro tempore8 o che ne condizionano la sorte dai santuari del potere «reale»; «la creazione, o per lo meno l’ampliamento, in gran parte al di fuori del settore moderno dell’economia, di una fascia di ceti medi la cui presenza è funzionale al settore moderno stesso in termini di consumo»9 scatena invidie e gelosie che sottraggono a ogni misura di razionalità le rivendicazioni di aumento del reddito; il fatto infine che circa la metà della popolazione attiva – con l’eccezione dei coltivatori diretti e di una quota modesta del pubblico impiego – non possieda né rappresentanza né organizzazione sindacale e di rincalzo non sia in grado di influenzare autonomamente gli indirizzi politici fondamentali, la induce ad assumere atteggiamenti ricattatori e ad alzare enormemente il prezzo della stabilità che le si chiede di assicurare tramite il voto di scambio10.

Oggetto di blandizie innumerevoli e di corteggiamenti serrati, tanto poco «visibile» quanto fisicamente onnipresente, garante dell’equilibrio elettorale e del legame consociativo fra maggioranza e opposizione – perché il Pci di Palmiro Togliatti e poi di Luigi Longo non rinuncia mai alla sua vecchia politica delle alleanze, contendendo alla Dc l’adesione ideologica dei piccoli borghesi e finendo per rimanere vittima di un ingranaggio di cui non può azionare i comandi – la «non classe» abituata a disprezzare tutte le bandiere (salvo rifugiarvisi dietro all’occorrenza) diventa l’alveo materiale di un’unità della nazione rinnegata sotto il profilo dei valori. Democristiano nel Veneto e comunista in Emilia o in Toscana, il «topo nel formaggio» diventa infatti l’«italiano» per antonomasia: i suoi gusti e le sue viltà dettano legge, la stampa e la televisione ne soddisfano anche gli umori più capricciosi, il cinema e la letteratura ne esportano in tutto il mondo un ritratto beffardo ma di cui sotto sotto egli vagamente si compiace.


tratto da Storia dell’Italia repubblicana. L’economia, la politica, la cultura, la società dal dopoguerra agli anni ‘90, Marsilio, Venezia 1993

 >> pagina 577 
Il LINGUAGGIO della storiografia

Riconduci ciascuna delle seguenti espressioni allo storico che l’ha utilizzata e contestualizzala rispetto alla tesi sostenuta nei testi che hai letto (massimo 5 righe).


a) Le dinamiche e […] le categorie del politico hanno avuto il sopravvento sul religioso.

b) Nell’Italia degli anni Sessanta il consumo assurge a divinità suprema.

c) Gli effetti della mobilitazione cattolica in politica sono stati diversi da quelli voluti.

d) A una maggiore ricchezza potenziale di mezzi espressivi corrisponde l’impoverimento dell’universo simbolico collettivo.

Storie A CONFRONTO

Individua la tesi di fondo dei due saggi proposti aiutandoti con lo schema di inizio sezione e compila la seguente scheda di sintesi e comparazione dei documenti.


 

La presenza politica cattolica e l’avvento di una società secolare e consumistica

Ipertrofia dei consumi e crisi dell’identità nazionale

TESI

   

ARGOMENTAZIONI

   

PAROLE CHIAVE

   
Dal dibattito storiografico all’ARGOMENTAZIONE INDIVIDUALE

L’Enciclopedia Treccani definisce il lemma “Consumismo” come segue: «Fenomeno economico-sociale, tipico dei paesi a reddito elevato ma presente anche nei paesi in via di sviluppo, consistente nell’aumento dei consumi per soddisfare i bisogni indotti dalla pressione della pubblicità e da fenomeni d’imitazione sociale diffusi tra ampi strati della popolazione». (www.treccani.it/enciclopedia/consumismo)


Uno dei motori più propulsivi della società dei consumi è stata certamente la televisione. Quando arriva la televisione nelle case degli italiani? Quali spazi sono dedicati alla pubblicità nelle prime programmazioni? Quali sono i primi programmi di successo e quali abitudini introduce il mezzo televisivo nelle famiglie? Utilizza queste domande come scaletta per costruire una presentazione dedicata a questo tema in classe. Tempo di relazione alla classe: massimo 15 minuti.

Storie. Il passato nel presente - volume 3
Storie. Il passato nel presente - volume 3
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