Nel 1979 lo scrittore francese Jean Fourastié1 pubblicò un saggio sulla trasformazione sociale ed economica della Francia nei trent’anni successivi alla Seconda guerra mondiale. Il suo titolo, Les Trente Glorieux, era senza dubbio ben scelto. In Occidente, i tre decenni successivi alla sconfitta di Hitler furono effettivamente «gloriosi». La straordinaria accelerazione della crescita fu accompagnata da un’era di prosperità senza precedenti. Nel giro di una sola generazione, le economie riconquistarono il terreno perduto in quarant’anni di guerra e depressione, e il rendimento economico e i parametri di consumo iniziarono ad assomigliare a quelli degli Usa. Meno di un decennio dopo essersi rialzati barcollando dalle macerie, gli europei entrarono, con loro grande meraviglia e anche un certo smarrimento, nell’era del benessere.
Il modo migliore per comprendere la storia economica dell’Europa occidentale postbellica è concepirla come un’inversione di quella dei decenni immediatamente precedenti. Si rinunciò all’enfasi malthusiana2 su protezionismo e taglio delle spese, e si scelse la liberalizzazione del commercio. Anziché ridurre spese e bilanci, i governi li aumentarono. Quasi ovunque, si presero importanti impegni per investimenti pubblici e privati di lungo termine nel settore delle infrastrutture e delle attrezzature, le fabbriche e i macchinari più antiquati furono modernizzati o sostituiti con immediati vantaggi su efficienza e produttività, si ebbe un considerevole aumento del commercio internazionale e infine una popolazione giovane e con lavoro sicuro desiderava e si poteva finalmente permettere un numero sempre più ampio di merci.
Il boom economico si verificò in momenti diversi a seconda dei luoghi, scoppiando dapprima in Germania e Gran Bretagna e soltanto qualche tempo dopo in Francia e Italia, e fu vissuto in modo diverso a seconda dell’importanza assegnata da ogni singola nazione a tassazione, spesa pubblica e investimenti. Quasi tutti i governi investirono inizialmente per modernizzare le infrastrutture: ammodernamento o costruzione ex novo di strade, ferrovie, case e fabbriche. Talvolta si mise deliberatamente un freno alla spesa dei consumatori, con il risultato – come si è visto – che molti vissero i primi anni del dopoguerra come una continuazione della precedente miseria, anche se con spirito diverso. La portata del mutamento dipendeva anche, come ovvio, dal punto di partenza: quanto più ricco era il paese, tanto meno tale cambiamento appariva immediato e significativo.
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Ciò che distingue tale boom economico, comunque, è l’elevato grado d’integrazione che ha concretamente contribuito a creare. Già prima del Trattato di Roma3, i futuri membri della Cee commerciavano principalmente tra loro: nel 1958, il 29 per cento (per valore) delle esportazioni tedesche era diretto verso Francia, Italia e Benelux4, mentre un ulteriore 30 s’indirizzava verso altri paesi europei. Alla vigilia della firma del Trattato di Roma, il 44 per cento delle esportazioni del Belgio finiva già nei futuri membri della Cee. Persino Austria, Danimarca o Spagna, che vi avrebbero fatto il loro ingresso ufficiale soltanto molto più tardi, erano già integrati nella rete commerciale: nel 1971, vale a dire vent’anni prima di entrare nella futura Ue, oltre il 50 per cento delle importazioni austriache proveniva dagli originari 6 membri della Cee. La Comunità economica (poi Unione) europea non ha posto le basi per l’integrazione: è stata invece l’espressione istituzionale di un processo già in corso.
Altro fattore di cruciale importanza nella rivoluzione economica del dopoguerra fu l’incremento di produttività del singolo lavoratore. Tra il 1950 e il 1980, in Europa occidentale essa aumentò con un ritmo tre volte superiore rispetto a quello dei precedenti ottant’anni: il Pil per ore di lavoro crebbe con una rapidità addirittura maggiore del Pil pro capite. Tenendo conto che il numero dei lavoratori era molto superiore, se ne ricava che vi fu un netto aumento dell’efficienza e, quasi ovunque, anche un significativo miglioramento dei rapporti di lavoro. Anche questa era, in certa misura, la conseguenza di un riuscito recupero: le insurrezioni politiche, la disoccupazione di massa, la scarsità di investimenti e le distruzioni dei precedenti trent’anni avevano ridotto l’Europa a uno dei punti più bassi di tutta la sua storia, dal quale dovette ripartire nel 1945. Anche se non vi fosse stato un reale interesse per la modernizzazione e il miglioramento tecnico, l’economia avrebbe comunque registrato con ogni probabilità un certo sviluppo.
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Il grave declino dell’agricoltura basterebbe da solo a spiegare quasi completamente la crescita dell’Europa, proprio come il passaggio dalle campagne alle città, e dall’agricoltura all’industria, aveva accompagnato, un secolo prima, l’ascesa dell’Inghilterra. Anzi, proprio il fatto che in Inghilterra non ci fosse eccesso di popolazione agricola che potesse essere trasferito in impieghi a basso salario nel settore manifatturiero o dei servizi, e quindi nessun guadagno in efficienza da ottenere attraverso una rapida uscita dall’arretratezza, contribuisce a spiegare il rendimento relativamente mediocre del Regno Unito in questi anni, con tassi di crescita nettamente inferiori rispetto a quelli di Francia o Italia (o persino Romania). Per la stessa ragione, l’Olanda ebbe in questi decenni un rendimento superiore a quello del vicino Belgio, paese nettamente più industrializzato, traendo vantaggio da un trasferimento di manodopera agricola in eccesso nei settori industriali e dei servizi, che erano rimasti fino ad allora sottosviluppati.
Il ruolo svolto dai governi e dalla pianificazione nel miracolo economico europeo risulta più difficile da stabilire. In alcuni paesi sembrava del tutto superfluo. La «nuova» economia dell’Italia settentrionale, per esempio, trasse gran parte delle proprie energie da migliaia di piccole imprese – a conduzione familiare, e sovente con parte dei propri dipendenti che stagionalmente lavorava anche come bracciante agricolo – con bassi costi di gestione e investimento, e che pagavano poche tasse, o addirittura nessuna. Nel 1971, l’80 per cento della forza lavoro del paese era impiegato in aziende con meno (spesso molto meno) di cento impiegati. A parte il chiudere gli occhi sulle violazioni fiscali, leggi su azzonamento5, edilizia e di altro genere, il ruolo delle autorità statali nel sostenere lo sviluppo economico di queste imprese rimane controverso.
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Differenze dottrinali sui presunti obiettivi potevano opporre in accese dispute destra e sinistra, democristiani e comunisti, socialisti e conservatori, ma praticamente tutti avevano da guadagnare dalla opportunità di reddito e influenza. La fiducia nello Stato – come pianificatore, coordinatore, aiutante, arbitro, fornitore, custode e guardiano – era ampiamente diffusa e travalicava quasi tutte le divisioni politiche. Lo Stato assistenziale era dichiaratamente sociale, ma non per questo socialista. Sotto questo punto di vista, il capitalismo del welfare, nei modi in cui si sviluppò in Europa occidentale, era autenticamente postideologico.
Ciononostante, all’interno del generale consenso, c’era una visione caratteristica, quella dei socialdemocratici. La democrazia sociale era sempre stata un ibrido: anzi, proprio questo le veniva rimproverato dagli avversari, di destra quanto di sinistra. Pratica concreta alla costante ricerca di una teoria, era frutto dell’intuizione avuta da una generazione di socialisti europei nei primi anni del ventesimo secolo: una radicale rivoluzione sociale nel cuore della moderna Europa (come era stata profetizzata e pianificata dai visionari socialisti del diciannovesimo secolo) era una cosa del passato e non del futuro. Come soluzione all’ingiustizia e all’inefficienza del capitalismo industriale, il paradigma ottocentesco di una violenta sollevazione urbana era non soltanto indesiderabile e quasi sicuramente incapace di raggiungere i propri obiettivi, ma anche superfluo. Autentici miglioramenti nella condizione di tutte le classi sociali potevano essere ottenuti in modi pacifici e graduali.
Questo non significava affatto che le concezioni fondamentali del socialismo ottocentesco dovessero essere abbandonate. La stragrande maggioranza dei socialdemocratici europei della metà del ventesimo secolo, pur tenendosi a debita distanza da Marx e dai suoi presunti eredi, continuavano a credere, come a un vero e proprio articolo di fede, che il capitalismo fosse per sua stessa natura disfunzionale e che il socialismo fosse superiore sia moralmente sia economicamente.
Ciò che li distingueva dai comunisti era la non disponibilità a credere nell’imminente crollo del capitalismo e a impegnarsi attivamente per affrettarlo con la propria attività politica. Il loro compito, quale si era delineato nel corso di decenni di depressione, divisione e dittatura, era usare le risorse dello Stato per eliminare le patologie sociali connesse alle forme capitalistiche di produzione e agli effetti non controllati di un’economia di mercato; in altre parole, costruire non utopie economiche ma buone società.
tratto da Dopoguerra. Come è cambiata l’Europa dal 1945 a oggi, Mondadori, Milano 2007