3. Un’età dell’oro?

percorso 3

Un’età dell’oro?

La storiografia emersa dopo la svolta del 1989-91, ha identificato nel periodo post 1945 il vero inizio del dopoguerra in Europa, in contrasto con una fase di crisi e conflitti militari, politici e sociali, corrispondente con il periodo 1914-45. Uno sviluppo economico eccezionale, accompagnato e stimolato da un’espansione demografica senza precedenti, nonché da un vasto impegno delle autorità statali per la ridistribuzione delle ricchezze, la nazionalizzazione delle risorse e la pianificazione della produzione, ha segnato l’avvento di quella che retrospettivamente è apparsa come “un’età dell’oro”. Mark Mazower, specialista di storia della Grecia e dell’Europa, ricostruisce la varietà di esperienze e influenze che contribuirono a plasmare l’intervento pubblico nell’economia, ritrovandone le radici nei fascismi interbellici e nelle esperienze di guerra. Tony Judt, studioso di storia del socialismo e autore del principale libro sul periodo post 1945, offre un quadro sociale di questa inedita “età del benessere” nell’Europa che era sortita dalla guerra, per poi soffermarsi sulla specifica capacità dei socialdemocratici di interpretare la politica degli anni Sessanta.

testo 1
Mark Mazower 

Il nuovo Stato sociale e i suoi limiti

L’intervento statale in economia e i sistemi di sicurezza sociale, dopo esser stati promossi dai fascisti tra le due guerre mondiali, si conciliarono con la democrazia nel dopoguerra e contribuirono a consolidarla, creando un nuovo senso di cittadinanza: al tempo stesso, però, i Welfare State non incisero sulla struttura economica e non eliminarono le diseguaglianza.

Questa rinascita «inaspettatamente vertiginosa» del capitalismo ebbe luogo, ovviamente, in un mondo nel quale l’ampliamento del potere statale era accettato non solo in campo economico ma anche nella sfera del welfare. Per molti commentatori dell’epoca, i due fenomeni – un’economia in forte espansione e un forte Stato sociale – apparivano strettamente connessi. «Senza il sostegno di politiche previdenziali», sostenne il riformista della Spd Karl Schiller1, «forse il sistema economico del libero mercato sarebbe già crollato... Stato sociale e dinamica economia di mercato sono reciprocamente indispensabili».

[...]

Poiché nel dopoguerra l’adesione degli Stati ai princìpi della sicurezza sociale coincise con il consolidamento della democrazia europea, qualcuno ha sostenuto la natura eminentemente democratica di tale fenomeno. L’espressione «Stato sociale» era stata in fin dei conti coniata in contrapposizione a Hitler. Nel 1950 Attlee2 proclamò che il proprio governo aveva gettato «le fondamenta dello Stato sociale», e nell’arco di pochi anni l’espressione era entrata nel linguaggio comune. Sembrò segnare uno spartiacque nei rapporti tra Stato e individuo e forse anche, come sostenne il sociologo T. H. Marshall3, inaugurare una nuova interpretazione della nozione di cittadinanza in una democrazia, con l’aggiunta dei diritti sociali ed economici a quelli politici.

Ma il nesso individuato da Marshall tra democrazia e welfare riflette le specifiche esperienze di Gran Bretagna e Svezia. Altrove le politiche assistenziali postbelliche mantennero forti continuità con i regimi prebellici fascisti e conservatori, mentre in Europa orientale videro la luce sotto il comunismo. È utile ricordare che l’espressione «Stato assicuratore», introdotta in Germania occidentale dallo studioso di diritto costituzionale Ernst Forsthoff4, era stata introdotta per la prima volta – con un’accezione positiva – nel 1938 nel Terzo Reich. Anche i servizi sociali dell’Italia postbellica operarono fondamentalmente attraverso la rete di enti semiautonomi istituita da Mussolini.

Nonostante tali continuità di tradizione, tuttavia, la Seconda guerra mondiale costituì indubbiamente uno spartiacque tra due mondi completamente diversi. Quello dello Stato sociale postbellico era un mondo di piena occupazione, di forte crescita demografica e di relativa pace in tutta Europa. Le politiche sociali del periodo interbellico, viceversa, poggiarono su uno sfondo di disoccupazione di massa, di paure di declino demografico, di rivoluzione, di estremismo politico e di guerra. In entrambi i casi, lo Stato ne assunse la direzione, ma se prima del 1940 puntò ad assicurare la salute della collettività, della famiglia e, soprattutto, della nazione, dopo la guerra agì principalmente al fine di ampliare la gamma di scelte e opportunità del singolo cittadino. Entrambe furono una reazione all’epoca che l’aveva preceduta: quella post 1918 contro l’individualismo del liberalismo di metà Ottocento; quella post 1945 contro il collettivismo del periodo interbellico. Sotto tale aspetto, l’accento sul concetto di cittadinanza posto da Marshall colpisce nel segno.

Lo Stato sociale postbellico rifletté alcune reali differenze istituzionali e filosofiche in Europa occidentale. La Germania occidentale, ad esempio, come anche la Gran Bretagna, promosse un’ambiziosa politica di edilizia abitativa e costruì ogni anno centinaia di migliaia di case popolari, mentre il «sacco di Roma» postbellico e la giungla di cemento che circonda Atene testimoniano l’indifferenza al riguardo degli Stati sudeuropei. Il sistema assistenziale britannico era gratuito, finanziato mediante un’imposta nazionale e basato sul principio di offrire un minimo di assistenza a tutti i cittadini. In Francia, Belgio e Germania, d’altro canto, il governo promosse programmi assicurativi volontari i cui contributi erano legati al reddito. In tali sistemi, l’organizzazione previdenziale perpetuava le differenze di reddito e di status esistenti, il loro impatto era dunque di stampo fondamentalmente conservatore, mentre in Svezia, viceversa, lo Stato intervenne attivamente al fine di ridurre le sperequazioni di reddito5. Così, secondo uno studioso, in Europa occidentale esistevano almeno «tre mondi» o modelli di capitalismo assistenziale: uno cattolico conservatore, uno liberale e uno socialdemocratico.

[...]

Volendo generalizzare, si ha l’impressione che la guerra avesse generato – o intensificato – una domanda di solidarietà sociale, mentre il boom economico creò le risorse per sostenere tale cambiamento. Non va ovviamente dimenticato che il mutato atteggiamento toccò tanto le entrate quanto le uscite dello Stato: in altre parole, dopo il 1945 la gente, sentendosi protetta dalla situazione di piena occupazione, accettò livelli di imposizione fiscale che sarebbero apparsi impensabili dieci o venti anni prima. Perché ciò accadde resta un quesito ancora totalmente ignorato dagli storici (la storia dell’imposizione fiscale non è certo il più interessante degli argomenti), e tuttavia è un elemento fondamentale dell’evoluzione postbel­lica dell’Europa occidentale, che differenzia la propria esperienza del capitalismo da quella degli Stati Uniti o dell’Asia.

Cosa forse strana, l’espansione delle responsabilità dello Stato negli anni ’50 e ’60 fu accompagnata da un crescente senso di disillusione. «Tutti gli impulsi e gli ideali degli anni ’40 volti a ricreare, ricostruire e ripianificare sono ormai crollati», lamentò il filosofo sociale britannico Richard Titmuss6. Le maggiori aspettative avevano certo alimentato speranze e richieste e spostato in alto la soglia della povertà, ma né la «riscoperta della povertà» dei primi anni ’60 né i più generali timori sulla natura dei programmi assistenziali possono essere interamente attribuiti alla crescita delle aspettative. I limiti della nuova democrazia sociale stavano diventando chiari.

Con il graduale estinguersi negli anni ’40 delle speranze egalitarie, la gente iniziò lentamente a capire che la nascita dello Stato sociale aveva inciso ben poco sulle ineguaglianze economiche. La distribuzione del reddito non registrò mutamenti significativi (eccezion fatta per la Scandinavia) dal momento che furono scarsi i tentativi di impiegare il fisco o il sistema di indennità per più generali scopi redistributivi. Per chi era nato, allora, il sistema sociale? Sembrava sempre più che la risposta non fosse per i poveri, ma piuttosto per i più abbienti, le classi medie e quel segmento della vecchia classe operaia che godeva i frutti della piena occupazione. Questo sospetto è all’origine di una nuova interpretazione sulle origini dello Stato sociale, che oggi tende a essere visto come il risultato non tanto dell’eroica lotta della classe operaia, quanto dell’intervento dei gruppi di interesse dei ceti medi, di intellettuali paternalistici e degli elementi meno intraprendenti di tutti gli strati sociali.

Che cosa c’era di tanto sorprendente in tutto ciò? Si trattava semplicemente di un ulteriore esempio del modo in cui le classi medie avevano stabilizzato la democrazia europea postbellica volgendo programmi radicali ai propri fini. «A prima vista potrebbe sembrare che la bourgeoisie7 avesse come al solito rubato quanto sarebbe invece dovuto spettare agli operai», scrisse Marshall. «Ma nelle circostanze date, tutto ciò era destinato a succedere in una libera democrazia ed è destinato a continuare a succedere nello Stato sociale. Perché lo Stato sociale non è la dittatura del proletariato e suo compito non è liquidare la bourgeoisie».


tratto da Le ombre dell’Europa. Democrazie e totalitarismi nel XX secolo, Garzanti, Milano 2000

 >> pagina 567 
testo 2
Tony Judt 

L’età del benessere e il momento socialdemocratico

Le economie post 1945 dell’Europa occidentale furono caratterizzate da una prosperità eccezionale, che contribuì a una rapida ricostruzione materiale e insieme una profonda rivoluzione dei rapporti tra città e campagne, nonché tra individui e autorità statali: più di tutti i socialdemocratici furono capaci di interpretare l’esigenza di correggere l’economia di mercato con l’intervento pubblico per creare consenso sociale.

Nel 1979 lo scrittore francese Jean Fourastié1 pubblicò un saggio sulla trasformazione sociale ed economica della Francia nei trent’anni successivi alla Seconda guerra mondiale. Il suo titolo, Les Trente Glorieux, era senza dubbio ben scelto. In Occidente, i tre decenni successivi alla sconfitta di Hitler furono effettivamente «gloriosi». La straordinaria accelerazione della crescita fu accompagnata da un’era di prosperità senza precedenti. Nel giro di una sola generazione, le economie riconquistarono il terreno perduto in quarant’anni di guerra e depressione, e il rendimento economico e i parametri di consumo iniziarono ad assomigliare a quelli degli Usa. Meno di un decennio dopo essersi rialzati barcollando dalle macerie, gli europei entrarono, con loro grande meraviglia e anche un certo smarrimento, nell’era del benessere.

Il modo migliore per comprendere la storia economica dell’Europa occidentale postbellica è concepirla come un’inversione di quella dei decenni immediatamente precedenti. Si rinunciò all’enfasi malthusiana2 su protezionismo e taglio delle spese, e si scelse la liberalizzazione del commercio. Anziché ridurre spese e bilanci, i governi li aumentarono. Quasi ovunque, si presero importanti impegni per investimenti pubblici e privati di lungo termine nel settore delle infrastrutture e delle attrezzature, le fabbriche e i macchinari più antiquati furono modernizzati o sostituiti con immediati vantaggi su efficienza e produttività, si ebbe un considerevole aumento del commercio internazionale e infine una popolazione giovane e con lavoro sicuro desiderava e si poteva finalmente permettere un numero sempre più ampio di merci.

Il boom economico si verificò in momenti diversi a seconda dei luoghi, scoppiando dapprima in Germania e Gran Bretagna e soltanto qualche tempo dopo in Francia e Italia, e fu vissuto in modo diverso a seconda dell’importanza assegnata da ogni singola nazione a tassazione, spesa pubblica e investimenti. Quasi tutti i governi investirono inizialmente per modernizzare le infrastrutture: ammodernamento o costruzione ex novo di strade, ferrovie, case e fabbriche. Talvolta si mise deliberatamente un freno alla spesa dei consumatori, con il risultato – come si è visto – che molti vissero i primi anni del dopoguerra come una continuazione della precedente miseria, anche se con spirito diverso. La portata del mutamento dipendeva anche, come ovvio, dal punto di partenza: quanto più ricco era il paese, tanto meno tale cambiamento appariva immediato e significativo.

[...]

Ciò che distingue tale boom economico, comunque, è l’elevato grado d’integrazione che ha concretamente contribuito a creare. Già prima del Trattato di Roma3, i futuri membri della Cee commerciavano principalmente tra loro: nel 1958, il 29 per cento (per valore) delle esportazioni tedesche era diretto verso Francia, Italia e Benelux4, mentre un ulteriore 30 s’indirizzava verso altri paesi europei. Alla vigilia della firma del Trattato di Roma, il 44 per cento delle esportazioni del Belgio finiva già nei futuri membri della Cee. Persino Austria, Danimarca o Spagna, che vi avrebbero fatto il loro ingresso ufficiale soltanto molto più tardi, erano già integrati nella rete commerciale: nel 1971, vale a dire vent’anni prima di entrare nella futura Ue, oltre il 50 per cento delle importazioni austriache proveniva dagli originari 6 membri della Cee. La Comunità economica (poi Unione) europea non ha posto le basi per l’integrazione: è stata invece l’espressione istituzionale di un processo già in corso.

Altro fattore di cruciale importanza nella rivoluzione economica del dopoguerra fu l’incremento di produttività del singolo lavoratore. Tra il 1950 e il 1980, in Europa occidentale essa aumentò con un ritmo tre volte superiore rispetto a quello dei precedenti ottant’anni: il Pil per ore di lavoro crebbe con una rapidità addirittura maggiore del Pil pro capite. Tenendo conto che il numero dei lavoratori era molto superiore, se ne ricava che vi fu un netto aumento dell’efficienza e, quasi ovunque, anche un significativo miglioramento dei rapporti di lavoro. Anche questa era, in certa misura, la conseguenza di un riuscito recupero: le insurrezioni politiche, la disoccupazione di massa, la scarsità di investimenti e le distruzioni dei precedenti trent’anni avevano ridotto l’Europa a uno dei punti più bassi di tutta la sua storia, dal quale dovette ripartire nel 1945. Anche se non vi fosse stato un reale interesse per la modernizzazione e il miglioramento tecnico, l’economia avrebbe comunque registrato con ogni probabilità un certo sviluppo.

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Il grave declino dell’agricoltura basterebbe da solo a spiegare quasi completamente la crescita dell’Europa, proprio come il passaggio dalle campagne alle città, e dall’agricoltura all’industria, aveva accompagnato, un secolo prima, l’ascesa dell’Inghilterra. Anzi, proprio il fatto che in Inghilterra non ci fosse eccesso di popolazione agricola che potesse essere trasferito in impieghi a basso salario nel settore manifatturiero o dei servizi, e quindi nessun guadagno in efficienza da ottenere attraverso una rapida uscita dall’arretratezza, contribuisce a spiegare il rendimento relativamente mediocre del Regno Unito in questi anni, con tassi di crescita nettamente inferiori rispetto a quelli di Francia o Italia (o persino Romania). Per la stessa ragione, l’Olanda ebbe in questi decenni un rendimento superiore a quello del vicino Belgio, paese nettamente più industrializzato, traendo vantaggio da un trasferimento di manodopera agricola in eccesso nei settori industriali e dei servizi, che erano rimasti fino ad allora sottosviluppati.

Il ruolo svolto dai governi e dalla pianificazione nel miracolo economico europeo risulta più difficile da stabilire. In alcuni paesi sembrava del tutto superfluo. La «nuova» economia dell’Italia settentrionale, per esempio, trasse gran parte delle proprie energie da migliaia di piccole imprese – a conduzione familiare, e sovente con parte dei propri dipendenti che stagionalmente lavorava anche come bracciante agricolo – con bassi costi di gestione e investimento, e che pagavano poche tasse, o addirittura nessuna. Nel 1971, l’80 per cento della forza lavoro del paese era impiegato in aziende con meno (spesso molto meno) di cento impiegati. A parte il chiudere gli occhi sulle violazioni fiscali, leggi su azzonamento5, edilizia e di altro genere, il ruolo delle autorità statali nel sostenere lo sviluppo economico di queste imprese rimane controverso.

[...]

Differenze dottrinali sui presunti obiettivi potevano opporre in accese dispute destra e sinistra, democristiani e comunisti, socialisti e conservatori, ma praticamente tutti avevano da guadagnare dalla opportunità di reddito e influenza. La fiducia nello Stato – come pianificatore, coordinatore, aiutante, arbitro, fornitore, custode e guardiano – era ampiamente diffusa e travalicava quasi tutte le divisioni politiche. Lo Stato assistenziale era dichiaratamente sociale, ma non per questo socialista. Sotto questo punto di vista, il capitalismo del welfare, nei modi in cui si sviluppò in Europa occidentale, era autenticamente postideologico.

Ciononostante, all’interno del generale consenso, c’era una visione caratteristica, quella dei socialdemocratici. La democrazia sociale era sempre stata un ibrido: anzi, proprio questo le veniva rimproverato dagli avversari, di destra quanto di sinistra. Pratica concreta alla costante ricerca di una teoria, era frutto dell’intuizione avuta da una generazione di socialisti europei nei primi anni del ventesimo secolo: una radicale rivoluzione sociale nel cuore della moderna Europa (come era stata profetizzata e pianificata dai visionari socialisti del diciannovesimo secolo) era una cosa del passato e non del futuro. Come soluzione all’ingiustizia e all’inefficienza del capitalismo industriale, il paradigma ottocentesco di una violenta sollevazione urbana era non soltanto indesiderabile e quasi sicuramente incapace di raggiungere i propri obiettivi, ma anche superfluo. Autentici miglioramenti nella condizione di tutte le classi sociali potevano essere ottenuti in modi pacifici e graduali.

Questo non significava affatto che le concezioni fondamentali del socialismo ottocentesco dovessero essere abbandonate. La stragrande maggioranza dei socialdemocratici europei della metà del ventesimo secolo, pur tenendosi a debita distanza da Marx e dai suoi presunti eredi, continuavano a credere, come a un vero e proprio articolo di fede, che il capitalismo fosse per sua stessa natura disfunzionale e che il socialismo fosse superiore sia moralmente sia economicamente.

Ciò che li distingueva dai comunisti era la non disponibilità a credere nell’imminente crollo del capitalismo e a impegnarsi attivamente per affrettarlo con la propria attività politica. Il loro compito, quale si era delineato nel corso di decenni di depressione, divisione e dittatura, era usare le risorse dello Stato per eliminare le patologie sociali connesse alle forme capitalistiche di produzione e agli effetti non controllati di un’economia di mercato; in altre parole, costruire non utopie economiche ma buone società.


tratto da Dopoguerra. Come è cambiata l’Europa dal 1945 a oggi, Mondadori, Milano 2007

 >> pagina 570 
Il LINGUAGGIO della storiografia

Riconduci ciascuna delle seguenti espressioni allo storico che l’ha utilizzata e contestualizzala rispetto alla tesi sostenuta nei testi che hai letto (massimo 5 righe).


a) Lo Stato sociale nasce dall’intervento dei gruppi di interesse dei ceti medi.

b) Il capitalismo del welfare era autenticamente postideologico.

c) Il boom economico ha contribuito a realizzare un elevato grado di integrazione.

d) “Stato assicuratore”.

Storie A CONFRONTO

Individua la tesi di fondo dei due testi proposti aiutandoti con lo schema di inizio sezione e compila la seguente scheda di sintesi e comparazione dei documenti.


 

Il nuovo Stato sociale e i suoi limiti

L’età del benessere il momento socialdemocratico

TESI

   

ARGOMENTAZIONI

   

PAROLE CHIAVE

   
Cooperative Learning

Secondo la tesi di Mark Mazower, la nascita dello Stato sociale aveva inciso ben poco sulle ineguaglianze economiche. Riflettiamo in classe sul significato di questa affermazione nell’Italia di oggi a partire da un’analisi delle principali prestazioni assistenziali in essere nel nostro paese.


competenza DIGITALE Dividiamo la classe in gruppi con la guida dell’insegnante. Ciascun gruppo realizza una presentazione digitale (utilizzando Powerpoint – Prezi – Thinglink – Sway) che illustri una prestazione assistenziale (pensione – indennità di disoccupazione – assegni familiari ecc.).

Storie. Il passato nel presente - volume 3
Storie. Il passato nel presente - volume 3
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