2. Democrazie costituzionali e democrazie popolari

percorso 2

Democrazie costituzionali e democrazie popolari

Il dopoguerra fu caratterizzato fin dalla primavera del 1945 dall’avvento della “democrazia” ma, come hanno sottolineato studi recenti, questo termine poteva assumere significati e forme istituzionali ben diverse, addirittura opposte, nella versione costituzionale dei paesi occidentali e nella versione totalitaria dei paesi dell’Europa centrorientale. Ben lungi dall’essere un “anno zero”, una cesura radicale, il 1945 fu segnato da profonde continuità con gli anni Venti e Trenta nonché con la Seconda guerra mondiale. Jan Werner Müller, studioso del pensiero politico tedesco, richiama l’attenzione sulla strana novità rappresentata dalla democrazia costituzionale postbellica, che si fondava su elementi liberali e illiberali, raccogliendo le eredità delle esperienze fascista e nazista e trovando i principali interpreti nei cristiano-democratici o democristiani in Europa occidentale. Anne Applebaum, esperta di Europa dell’Est e di Unione Sovietica, invece, analizza l’esperimento delle democrazie popolari, che mirava a esportare e impiantare il modello staliniano collaudato negli anni Trenta in società già distrutte dalla guerra totale del 1939-45.

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Jan Werner Müller

La democrazia costituzionale e antitotalitaria in Europa occidentale

La stabilizzazione dell’ordine post 1945, volta a contrastare gli sviluppi potenzialmente rivoluzionari del dopoguerra, fu costruita attraverso il varo di una nuova democrazia costituzionale e antitotalitaria, basato sul controllo delle masse attraverso la costituzione e attraverso l’invenzione di una nuova forza politica, ossia la democrazia cristiana.

Non c’è dubbio che l’atmosfera dell’immediato dopoguerra apparve non meno rivoluzionaria di quella degli anni 1918-19. Il capitalismo sembrava ormai screditato a causa della Grande depressione1 e agli occhi dell’intelligencija aveva per lo meno spianato la strada al fascismo (e perfino i nonmarxisti concordavano con l’idea che il fascismo fosse stato uno strumento nelle mani dei capitalisti impegnati a conservare il loro potere). A differenza di quanto avvenuto dopo la Prima guerra mondiale, tuttavia, non vi fu alcuna grande ondata di scioperi (né tanto meno sorsero consigli di fabbrica) e in generale, rispetto a trent’anni prima, vi erano molti meno strumenti utili ad avviare un cambiamento radicale. I partiti dell’avanguardia, ufficialmente legati all’ideale rivoluzionario – in particolare i comunisti italiani e francesi, che avevano guadagnato un enorme prestigio morale dal ruolo guida assunto durante la Resistenza – finirono per dare il loro sostegno ai nascenti ordinamenti liberaldemocratici. In Italia, tale sostegno fu esplicitamente giustificato dai teorici del partito, mentre i francesi, ideologicamente più vicini a Mosca di ogni altro Partito comunista dell’Europa occidentale, agirono de facto come un «partito dell’ordine».

[...]

La stabilità sarebbe divenuta l’obiettivo principe – diremmo quasi la stella polare – dell’immaginario politico dell’Europa occidentale postbel­lica. I leader di partito, non meno degli esperti in diritto e dei filosofi, cercavano di realizzare un ordinamento destinato prima di tutto a scongiurare il ritorno di un passato totalitario che, a loro giudizio, aveva conosciuto un dinamismo politico senza limiti, masse sfrenate e tentativi di plasmare un soggetto politico totalmente privo di costrizioni, ovvero la Volksgemeinschaft2 dei tedeschi «puri». Come reazione, i politici dell’Europa occidentale instaurarono una forma di democrazia estremamente limitata e profondamente segnata dalla sfiducia nella sovranità del popolo, anzi, perfino nella tradizionale sovranità dei parlamenti.

Si trattava di un nuovo genere di democrazia, la cui novità, tuttavia, era messa in ombra dal fatto che le sue istituzioni più innovative erano pubblicamente giustificate ricorrendo alla tradizionale retorica politica e morale. Ad avere altre prospettive di vita non fu soltanto il pessimismo convenzionale nei confronti delle masse: dopo la guerra conobbe infatti una notevole rinascita anche il pensiero d’ispirazione religiosa sul diritto naturale (come pure il cristianesimo in generale). Gli intellettuali speravano che avrebbe offerto fondamenti etici immutabili per una corretta condotta politica, contrapposta al relativismo3, se non addirittura al nichilismo4 puro e semplice, che sembrava aver caratterizzato il fascismo nonché il liberalismo, come molti intellettuali ora asserivano. Spesso il dispiegamento di simili retoriche tradizionali dipendeva essenzialmente da interpretazioni errate dell’esperienza fascista. Il positivismo giuridico5, per esempio, era accusato di aver aperto la strada a Hitler poiché mancava di sostanziali contenuti morali, mentre, nella realtà dei fatti, erano stati proprio dei nemici giurati del positivismo giuridico come Carl Schmitt6 o degli idealisti come Gentile7 a tornare particolarmente utili ai loro padroni di Roma e Berlino.

Nonostante le tante ricerche di una «terza via», si voleva soprattutto presentare il dopoguerra non come qualcosa di nuovo ma come un ritorno etico a impostazioni sicure e consolidate. In ogni caso, dopo il 1945, non «ritornò» alcuna istituzione già nota né vi fu una qualche rinascita del «liberalismo» tipico del XIX secolo (sia dal punto di vista degli ideali sia – a maggior ragione – di una base sociale). A emergere, invece, fu un nuovo equilibrio tra democrazia e principi liberali (in particolare il costituzionalismo), entrambi però ridefiniti alla luce dell’esperienza totalitaria europea. Anche se molte delle istituzioni e dei valori fondamentali del dopoguerra possono considerarsi equivalenti funzionali di determinate idee liberali, il linguaggio politico del liberalismo fu rifiutato quasi universalmente in quanto relativistico o semplicemente inadatto all’epoca della democrazia di massa.

[...]

Il grande paradosso insito nel rapporto tra pensiero politico e istituzioni politiche alla fine degli anni Quaranta e negli anni Cinquanta era dunque costituito dalla coesistenza di istituzioni semiliberali e altre decisamente nonliberali, per non parlare di certa retorica politica apertamente antiliberale. Tutto questo si palesò chiaramente nella metà occidentale del continente europeo con il trionfo del movimento politico dei cristianodemocratici, la più importante innovazione ideologica del dopoguerra e una delle più significative del XX secolo nel suo complesso. Si è detto spesso che nell’Europa occidentale i decenni dopo il 1945 conobbero la piena fioritura della socialde

mocrazia, ma non fu affatto così. In alcuni paesi la fioritura socialdemocratica era in atto da lungo tempo, per esempio in Svezia e, in misura minore, in Danimarca. Negli stati centrali dell’Europa occidentale continentale – Germania, Italia, Belgio, Olanda, Lussemburgo e Francia – furono in realtà i cristiano-democratici ad assumere un ruolo di spicco nella costruzione dell’ordine postbellico, in particolare con lo stato del welfare dotato di una moderna struttura amministrativa. I leader del movimento cristiano-democratico erano disposti a introdurre innovazioni politiche, mentre i suoi intellettuali potevano presentare tali innovazioni ricorrendo a un linguaggio di tipo ampiamente tradizionale. Nella longue durée8 della storia europea, i cristianodemocratici del dopoguerra favorirono sia la riconciliazione del cattolicesimo con il mondo moderno sia la pace (o almeno una tregua) tra le diverse confessioni (cosa che, nel caso della Germania, avveniva forse per la prima volta dai tempi della Riforma). Il maggiore studioso del movimento ha parlato dell’«innegabile opacità» dei partiti cristianodemocratici, ma il punto stava proprio in tale opacità: la «democrazia cristiana» prometteva una forma di vita pubblica accettabile, permettendo al tempo stesso ai cittadini di ignorare la politica, se lo desideravano. E molti cittadini non desideravano altro.

I cristianodemocratici svolsero altresì un ruolo fondamentale nel concretizzare l’idea di un’integrazione europea sovranazionale, non ultimo perché i cattolici erano stati a lungo sospettosi nei confronti dello Stato-nazione e delle tradizionali concezioni della sovranità. La cosa più facile era cedere parti di ciò che più si temeva. Come nella politica interna, sorse la tendenza a lasciare interamente la politica – in questo caso quella dei negoziati internazionali – a statisti anziani di nobili principi e ideali.


tratto da L’enigma democrazia. Le idee politiche nell’Europa del Novecento, Einaudi, Torino 2012

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testo 2

Anne Applebaum 

L’esportazione del modello staliniano in Europa orientale

I regimi comunisti dell’Europa orientale furono costruiti non solo grazie alle catastrofiche distruzioni della Seconda guerra mondiale e al conseguente arrivo dell’Armata rossa, ma anche e soprattutto in virtù di una strategia di conquista del potere e di trasformazione dello Stato che si ispirava direttamente al modello sovietico staliniano.

Un regime in particolare capì i metodi e le tecniche del controllo totalitario talmente bene da esportarli con successo: dopo la fine della Seconda guerra mondiale e la marcia dell’Armata rossa su Berlino, i leader dell’Unione Sovietica, esattamente come non avevano risparmiato gli sforzi per imporre un sistema totalitario alle tante differenti regioni della stessa Urss, fecero di tutto per imporre un sistema di governo totalitario ai paesi europei, tanto diversi fra loro, che allora occupavano. E in questo non conobbero remore. Stalin, gli ufficiali del suo esercito e gli agenti della sua polizia segreta – nota dal 1934 al 1946 come Commissariato del popolo per gli affari interni (Narodnyj kommissariat vnutrennich o Nkvd), e solo successivamente come Kgb –, oltre che i loro alleati locali, non avevano in mente di colpire Ayn Rand1 o i liberali progressisti, quando crearono Stati totalitari nell’Europa centrale. Per parafrasare Mussolini, quello che volevano, e con grande determinazione, era creare società in cui tutto fosse nello Stato, niente fuori dello Stato, nulla contro lo Stato; e volevano crearle in fretta.

Certo, gli otto paesi europei occupati in tutto o in parte nel 1945 dall’Armata rossa avevano culture, tradizioni politiche e strutture economiche estremamente diverse. Essi includevano la Cecoslovacchia, un tempo democratica, e la Germania, appena uscita dal fascismo, oltre che monarchie, autocrazie e Stati semifeudali. Erano abitati da cattolici, ortodossi, protestanti, ebrei e musulmani che parlavano lingue slave, neolatine, ugrofinniche e germaniche. Includevano russofili e russofobi, la Boemia industrializzata e l’Albania rurale, la Berlino cosmopolita e piccoli villaggi di case di legno nei Carpazi. Fra i loro abitanti c’erano ex sudditi degli imperi austro-ungarico, prussiano e ottomano, oltre che dell’Impero russo.

Eppure, in quel periodo gli americani e gli europei dell’Ovest giunsero a vedere le nazioni dell’Europa sotto il dominio comunista ma non sovietico – Polonia, Ungheria, Cecoslovacchia, Germania orientale, Romania, Bulgaria, Albania e Iugoslavia – come un «blocco», destinato infine a divenire noto come «Europa dell’Est». Quest’ultima è un’espressione politica e storica, non geografica. Non include paesi «dell’Est» quali la Grecia, che non è mai stata comunista, o gli Stati baltici e la Moldavia che, pur storicamente e culturalmente simili all’Europa orientale, furono allora incorporati in senso stretto nell’Unione Sovietica. Fra l’esperienza dei paesi baltici e quella in particolare della Polonia vi sono affinità, ma anche importanti differenze: per i primi la sovietizzazione significò la perdita della sovranità anche formale.

[...]

Per un brevissimo periodo, fra il 1945 e il 1953, sembrò che l’Urss avesse successo nell’impresa di convertire le nazioni dell’Europa dell’Est, tanto diverse fra loro, in una regione ideologicamente e politicamente omogenea. Di ex nemici come di ex alleati di Hitler essa fece effettivamente, in quel periodo, un gruppo di entità politiche in apparenza identiche. All’inizio degli anni Cinquanta le capitali degli «antichi Stati» della regione, per usare un’espressione di Churchill, grigie e ancora disseminate delle rovine lasciate dalla guerra, erano tutte pattugliate dagli stessi tipi di arcigni poliziotti, progettate dagli stessi architetti fedeli al realismo socialista, e ricoperte da manifesti di propaganda del medesimo genere. Il culto di Stalin, il cui stesso nome era venerato in Urss come «simbolo dell’imminente vittoria del comunismo», vigeva ovunque, insieme a quelli molto simili dei leader dei partiti locali. Alle sfilate e celebrazioni del potere comunista organizzate dallo Stato prendevano parte milioni di persone. All’epoca l’espressione «cortina di ferro» sembrava ben più di una metafora: l’Europa dell’Est era letteralmente separata dall’Occidente da muri, recinzioni e fili spinati. Nel 1961, l’anno in cui fu eretto il Muro di Berlino, si sarebbe detto che quelle barriere dovessero durare per sempre.

[...]

L’Urss esportò fin dall’inizio alcuni elementi chiave del sistema sovietico in ogni nazione occupata dall’Armata rossa. Innanzitutto, l’Nkvd, in collaborazione con i partiti comunisti locali, creò immediatamente una polizia segreta a propria immagine, usando spesso persone che aveva formato a Mosca. Ovunque l’Armata rossa arrivò, anche in Cecoslovacchia, da dove si sarebbe infine ritirata, questi agenti segreti nuovi di zecca iniziarono subito a fare uso di una violenza selettiva, individuando con cura i nemici politici in base a liste e criteri elaborati in precedenza. In qualche caso essi presero di mira anche gruppi etnici nemici. Inoltre, posero sotto il loro controllo i ministeri degli Interni della regione, e a volte anche quelli della Difesa, e presero parte alla confisca e ridistribuzione immediate delle terre.

In secondo luogo, in ogni nazione occupata le autorità sovietiche posero alla direzione del mezzo di comunicazione di massa più potente dell’epoca, la radio, fedeli comunisti locali. Se, nei primi mesi dopo la fine della guerra, nella maggior parte dell’Europa dell’Est rimase possibile pubblicare quotidiani o riviste non comunisti, e se a non comunisti fu permesso di dirigere altri monopoli statali, le stazioni radio nazionali, in grado di raggiungere tutti, da contadini analfabeti a sofisticati intellettuali, furono sottoposte al ferreo controllo del Partito comunista. Le autorità speravano che a lungo termine la radio, insieme ad altri strumenti di propaganda e a modifiche del sistema educativo, avrebbe contribuito a portare masse di persone nel campo comunista.

In terzo luogo, ovunque arrivò l’Armata rossa, i comunisti sovietici e locali si diedero a molestare, perseguitare e infine mettere al bando molte delle organizzazioni indipendenti di quella che oggi chiameremmo società civile: la Lega delle donne polacche, raggruppamenti «antifascisti» tedeschi, associazioni religiose e scuole. In particolare si concentrarono, fin dai primissimi giorni dell’occupazione, sui gruppi giovanili: i giovani socialde­mocratici, le organizzazioni giovanili cattoliche e protestanti, i boy scout. Ancora prima di proibire i partiti politici indipendenti per gli adulti, ancora prima di mettere fuori legge le organizzazioni religiose e i sindacati indipendenti, sottoposero a vincoli rigorosi le organizzazioni dei giovani e le misero sotto stretto controllo.

Infine, le autorità sovietiche, sempre in collaborazione con i partiti comunisti locali, applicarono ovunque fosse possibile politiche di pulizia etnica di massa, espellendo da città e paesi in cui vivevano da secoli milioni di tedeschi, polacchi, ucraini, ungheresi e cittadini di altre nazionalità, che, con pochi averi, venivano portati con camion e treni in campi profughi e nuove abitazioni distanti centinaia di chilometri dai luoghi che li avevano visti nascere. Disorientati, deportati, erano più facili da manipolare e controllare. Di questa politica furono complici in qualche misura Stati Uniti e Gran Bretagna – la pulizia etnica a danno dei tedeschi sarebbe stata sancita nel Trattato di Potsdam –, ma all’epoca pochi in Occidente immaginavano che la pulizia etnica operata dai sovietici si sarebbe rivelata tanto estesa e violenta.

Altri elementi del capitalismo e anche del liberalismo furono, per qualche tempo, conservati. Fattorie, imprese e attività commerciali private sopravvissero per tutto il 1945 e il 1946, e a volte più a lungo. Qualche giornale e periodico indipendente continuò a uscire e qualche chiesa rimase aperta. In alcuni paesi si permise addirittura che partiti e politici non comunisti, anche se selezionati, proseguissero nelle loro attività. Ma tutto questo non avvenne perché i sovietici e i loro alleati dell’Europa orientale fossero dei democratici di idee liberali. Essi giudicavano tali elementi meno importanti, a breve termine, della polizia segreta, della radio, della pulizia etnica e del controllo dei gruppi giovanili e delle altre organizzazioni civili. Non era un caso che i giovani comunisti ambiziosi andassero sempre a lavorare in uno di questi settori. Dopo l’adesione al partito, nel 1945, allo scrittore comunista Wiktor Woroszylski2 furono offerte tre alternative: il movimento giovanile comunista, la polizia segreta o il diparti mento della Propaganda, che si occupava dei mass media.

Neanche le libere elezioni che si tennero in alcuni paesi nel 1945 e 1946 erano un segno di tolleranza da parte dei comunisti. I partiti comunisti dell’Urss e dell’Europa dell’Est le permisero perché convinti che, grazie al controllo della polizia segreta e della radio e alla massiccia influenza sui giovani, avrebbero vinto. Ovunque, i comunisti credevano nel potere della loro propaganda e, nei primi anni dopo la fine della guerra, con buone ragioni. Furono in molti allora, per disperazione, disorientamento, pragmatismo, cinismo o motivi ideologici, a aderire al Partito comunista, e non soltanto in Europa orientale, ma anche in Francia, Italia e Gran Bretagna. In Iugoslavia il Partito comunista di Tito godeva, grazie al ruolo svolto nella Resistenza, di autentica popolarità. In Cecoslovacchia, occupata da Hitler nel 1938 grazie all’atteggiamento conciliante dell’Occidente, l’Unione Sovietica suscitò nei primi tempi reali speranze: si pensava che si sarebbe dimostrata una potenza più benevola. Persino in Polonia e in Germania, paesi dove il sospetto sulle motivazioni sovietiche era forte, l’impatto della guerra condizionò in molti cittadini la visione della situazione. Negli anni Trenta il capitalismo e la democrazia liberale avevano catastroficamente fallito. Per tanti era giunto il momento di provare qualcosa di diverso.

Benché per noi sia a volte difficile capirlo, i comunisti credevano nella propria dottrina. Se l’ideologia comunista ci sembra ora, con il senno di poi, sbagliata, questo non significa che all’epoca non ispirasse una fervente fede. La gran parte dei dirigenti comunisti dell’Europa orientale e molti dei loro seguaci erano realmente convinti che prima o poi la maggioranza dei lavoratori avrebbe acquisito una coscienza di classe, capito il suo destino storico e votato per un regime comunista.

Si sbagliavano. Nonostante le intimidazioni, la propaganda e persino la reale attrazione che il comunismo esercitava su alcuni, sconvolti dalla guerra, i partiti comunisti persero le prime elezioni in Germania, Austria e Ungheria con un ampio margine. In Polonia, i dirigenti del partito tastarono il terreno con un referendum e, visti i cattivi risultati, abbandonarono del tutto l’idea di libere elezioni. In Cecoslovacchia il Partito comunista ottenne buoni risultati in una tornata elettorale iniziale, nel 1946, e si accaparrò un terzo dei voti. Ma quando divenne chiaro che nelle elezioni successive, nel 1948, sarebbe andata molto peggio, i suoi dirigenti optarono per un colpo di Stato. Le politiche più dure imposte al blocco orientale nel 1947 e 1948 non furono quindi semplicemente, e certo non solo, una reazione alla Guerra fredda. Furono anche una reazione al fallimento. L’Unione Sovietica e i suoi alleati locali non erano riusciti a conquistare il potere pacificamente. Non erano riusciti a ottenere un controllo assoluto, e neanche sufficiente. Nonostante l’influenza che esercitavano sulla radio e sulla polizia segreta, non erano popolari né oggetto di diffusa ammirazione. Il numero dei loro seguaci stava rapidamente scemando, persino in paesi come la Cecoslovacchia e la Bulgaria, dove essi avevano inizialmente goduto di qualche autentico sostegno.

Di conseguenza, i comunisti locali, consigliati dagli alleati sovietici, ricorsero alle tattiche più drastiche già impiegate, e con successo, in Urss [...]: nuove ondate di arresti, l’espansione dei campi di lavoro, un controllo molto più stretto su media, intellettuali e arti. Certi modelli furono seguiti quasi ovunque: prima l’eliminazione dei partiti «di destra» o anticomunisti, poi la distruzione della sinistra non comunista e quindi l’eliminazione dell’opposizione in seno al Partito comunista stesso. In alcuni paesi le autorità si spinsero fino a montare processi farsa in stile prettamente sovietico. Infine, i partiti comunisti della regione avrebbero tentato di cancellare tutte le organizzazioni indipendenti superstiti, di reclutare seguaci, invece, per le organizzazioni di massa controllate dallo Stato, di sottoporre a controlli molto più rigidi l’educazione e di scavare la terra sotto i piedi alle Chiese cattolica e protestante. Essi crearono nuove, onnicomprensive forme di propaganda educativa, promossero parate e conferenze pubbliche, coprirono il territorio di striscioni e manifesti, organizzarono campagne di raccolta firme e manifestazioni sportive.

Ma avrebbero di nuovo fallito. Dopo la morte di Stalin, nel 1953, in tutta la regione si assistette a una serie di piccole e grandi sollevazioni. Nel 1953 gli abitanti di Berlino Est scesero in piazza in manifestazioni di protesta cui misero fine i carri armati sovietici. Seguirono, nel 1956, due grandi rivolte: in Polonia e in Ungheria. In seguito a questi eventi i comunisti dell’Europa dell’Est ricorsero di nuovo a tattiche più moderate. Ma avrebbero continuato a fallire, e a passare da una strategia all’altra, fino alla perdita definitiva del potere nel 1989.


tratto da La cortina di ferro. La disfatta dell’Europa dell’Est, Mondadori, Milano 2016

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Il LINGUAGGIO della storiografia

Riconduci ciascuna delle seguenti espressioni allo storico che l’ha utilizzata e contestualizzala rispetto alla tesi sostenuta nei testi che hai letto (massimo 5 righe).


a) La stabilità è l’obiettivo principale dell’immaginario politico dell’Europa occidentale.

b) I comunisti credevano nella propria dottrina.

c) Le politiche più dure nel blocco orientale furono una reazione al fallimento.

d) Opacità dei partiti cristianodemocratici.

Storie A CONFRONTO

Individua la tesi di fondo dei due testi proposti aiutandoti con lo schema di inizio sezione e compila la seguente scheda di sintesi e comparazione dei documenti.


 

La democrazia costituzionale e antitotalitaria in Europa occidentale

L’esportazione del modello staliniano in Europa orientale

TESI    
ARGOMENTAZIONE    
PAROLE CHIAVE    
Dal dibattito storiografico all’ARGOMENTAZIONE INDIVIDUALE

L’Enciclopedia Treccani definisce il lemma “Democrazia” come segue: «Forma di governo che si basa sulla sovranità popolare e garantisce a ogni cittadino la partecipazione in piena uguaglianza all’esercizio del potere pubblico». (www.treccani.it/enciclopedia/democrazia)


Le argomentazioni del primo brano di storiografia, se affiancate a questa definizione, sembrano mettere in discussione il fatto stesso che si possa parlare davvero di democrazie nell’Europa occidentale postbellica. Argomenta questa affermazione in massimo 15 righe; puoi richiamare in via esemplificativa le tesi dei brani di storiografia presentati.

Storie. Il passato nel presente - volume 3
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