Benché sia ormai divenuta sinonimo della rivalità bipolare che – con ampie oscillazioni tra antagonismo e coesistenza – caratterizzò il quarantennio seguito alla Seconda guerra mondiale, la nozione di Guerra fredda ha (o per lo meno dovrebbe avere) una sua precisa specificità concettuale. Questa verte sulla reciproca negazione di legittimità tra due avversari che, pur attenti a non precipitare lo scontro bellico diretto, si ritengono impegnati in una lotta mortale. Insomma «l’ostilità assoluta, l’antitesi della pace, si combina con l’assenza di una guerra reale». Una condizione, questa, che identifichiamo chiaramente negli anni iniziali ma che poi si perde mano a mano che i due rivali si riconoscono, negoziano e talora persino colludono1 alle spalle di alleati e paesi terzi. Tanto che le diffuse teorie sulla stabilità dell’ordine bipolare – assai in voga dagli anni Settanta – indussero a reinterpretare la Guerra fredda come una «lunga pace». È tuttavia evidente, soprattutto alla luce della conclusione di quel conflitto, che i momenti di riconoscimento e di accordo furono non solo parziali e temporanei, ma pieni di riserve. L’accettazione reciproca restava circoscritta entro ragionamenti di opportunità, perché ciascuno dei due paradigmi di modernità – analogamente universalistici e finalistici2 – ambiva a modellare il futuro in chiave esclusiva e non poteva davvero concepire la fine dell’antagonismo se non come frutto della propria affermazione storica.
Se la difficile, cruciale gestione della pace nell’epoca nucleare imponeva forme di mutua regolamentazione – fino a sfociare nella distensione degli anni Settanta – quello bipolare non divenne tuttavia mai un ordine condiviso, un sistema statico fondato su un comune interesse alla sua stabilità. Anche nei momenti di minor virulenza dello scontro ideologico, e di maggior dialogo diplomatico, la relazione tra Usa e Urss mantenne un carattere eminentemente antagonistico, radicato nelle convinzioni diverse – eppure speculari – che la propria identità e sopravvivenza dipendesse dalla capacità di incanalare le trasformazioni in atto nel mondo in direzione del socialismo o del capitalismo liberale. Ci si poteva insomma riconoscere e accordarsi per diminuire i pericoli di guerra, ma al fine non di appacificarsi bensì di posizionarsi più vantaggiosamente nell’agone storico sul futuro del mondo.
La Guerra fredda dunque non fu solo conflitto ideologico assoluto – come l’esattezza concettuale vorrebbe – ma non fu neppure un «normale» antagonismo di potenza. Fu entrambe le cose, con modulazioni diverse nel corso del tempo, perché restò sempre una contesa inconciliabile sulla direzione della storia. Potenza e cultura, geopolitica e ideologia interagirono costantemente – con miscele ben diverse sui due fronti – nel dettare le mosse che dovevano innanzitutto scongiurare l’avanzamento dell’avversario, poi accrescere la propria capacità di attrazione e condizionamento internazionale e, in ultima analisi, disegnare i lineamenti del mondo del domani.
Perché i due sistemi ideologici che definivano l’Est e l’Ovest, il socialismo e il capitalismo liberale, avevano in comune il fatto di essere – o voler essere – eminentemente trasformativi. Il leninismo e l’internazionalismo wilsoniano (per quanto rimodulati in chiave di potenza da Stalin e dai dirigenti americani degli anni Quaranta) non erano culture della conservazione e della stabilità, bensì filosofie del rinnovamento, talora con tratti addirittura catartici3. Entrambi progetti che scaturivano dal collasso dell’ordine europeo nel 1914, a cui volevano dare risposte diametralmente opposte, essi si trovarono uno di fronte all’altro sulle rovine dell’Europa postnazista, nel 1945, armati non più solo dell’utopismo originario ma del ruolo di grande potenza nel frattempo acquisito sia dall’Urss che, soprattutto, dagli Usa. [...]
La Guerra fredda sorgeva perciò intorno a due diverse ipotesi di sistemazione postbellica dell’Europa. Ciascuna muoveva dalla convinzione che la riconfigurazione geopolitica, socioeconomica e ideologica di un continente spossato da una guerra trentennale sui caratteri della sua modernità avrebbe condizionato e prefigurato le sorti dell’antagonismo universale tra socialismo e capitalismo liberale. Le lenti dell’ideologia, poi, ingigantivano la coerenza e aggressività del disegno avversario, profetizzando scenari di pericolosità che spesso finivano per autoavverarsi.
Questa centralità dell’Europa è evidente nella fase iniziale del conflitto bipolare, quando il continente fu terreno e posta principale di una Guerra fredda che nasceva intorno alla duplice esigenza di rifondare una società libera dal fascismo e circoscrivere l’influenza del comunismo. Ma l’antagonismo si ramificò presto ad altre aree del mondo, a cominciare dall’Estremo Oriente, s’intersecò con innumerevoli conflitti locali e condizionò l’intera dinamica delle relazioni internazionali. [...]
Globalizzazione e Guerra fredda sono fenomeni distinti e solo parzialmente sovrapposti. Ma con interfacce e sinergie talmente dense da rendere assai povera, se non inesplicabile, una ricostruzione storica della seconda che prescinda dalla prima. La convinzione americana che per superare i nazionalismi economici fosse necessario integrare l’Occidente e compattarlo in un polo di solidarietà politica oltre che di liberalizzazione economica è una delle radici della Guerra fredda. E lo stato d’emergenza che questa proiettò su tutti i governi e le società occidentali nel dopoguerra facilitò enormemente l’adozione di norme, organismi e pratiche di interdipendenza multilaterale da cui si diramò il tessuto istituzionale della globalizzazione. Lungo il quarantennio, poi, la crescente convinzione pubblica che il mondo andasse unificandosi lungo fitti reticoli di scambio e comunicazione, e che l’umanità condividesse destini e pericoli comuni, divenne un contraltare influente alla lettura dicotomica di due poli o mondi contrapposti. E la geografia della guerra fredda, con i suoi peculiari filamenti di alleanze e clientele, determinò spesso ritmi e geometrie della globalizzazione, risucchiando nel suo epicentro più dinamico paesi di particolare rilevanza strategica per l’Occidente o, viceversa, mantenendo marginali e isolate le economie del socialismo e dei suoi alleati. [...]
L’Europa – pur stabilizzata nella divisione bipolare – restò per tutto il quarantennio il baricentro dell’antagonismo, l’unica area assolutamente imprescindibile per l’uno come per l’altro blocco, l’epicentro ove anche solo il rischio di una sconfitta risultava inammissibile – al punto da elevare la guerra nucleare ad alternativa assiomatica e pressoché automatica. È indubbio che tra il 1956 e la fine degli anni Settanta i sovietici sperarono (e l’Occidente specularmente temette) che i rivolgimenti del Terzo mondo spostassero decisamente a loro favore le «correlazioni di forza». Ma ciò discendeva anche dalla convinzione che in Europa si fosse giunti a una stabilizzazione tale da non mettere in discussione l’epicentro del loro impero e della loro potenza strategica. A mandare a gambe all’aria quelle previsioni non furono soltanto le dinamiche della globalizzazione, ma l’aprirsi di una crisi strisciante – eppure profonda e infine terminale – dell’Impero sovietico in Europa dal 1981.
Qui il continente tornava a essere centrale come soggetto oltre che terreno di contesa. Come si vedrà, infatti, l’Europa occidentale ebbe una parte prominente nel determinare il tipo di conclusione, pacifica e inattesa, del lungo conflitto. Il suo esempio di società dinamica, aperta e prospera – unitamente alle politiche di distensione volte ad avviluppare l’Est all’Ovest con mille fili finanziari, commerciali, e culturali – evidenziò il fallimento comparativo del socialismo e rastremò ogni fiducia nella sua sostenibilità fino a eliminarla del tutto, risultando perciò decisivo nel precipitare la resa psicologica prima ancora che politica dei gruppi dirigenti dell’Est. E la Guerra fredda poté davvero concludersi solo laddove era cominciata, grazie allo sgretolarsi del potere sovietico sulla Germania e l’Europa centrale.
tratto da Storia della Guerra fredda. L’ultimo conflitto per l’Europa, Einaudi, Torino 2009