13.1 La transizione e la ricostruzione italiana

Per riprendere il filo…

Dopo aver vinto la Grande guerra, l’Italia aveva conosciuto una grave crisi politica e sociale in cui si affermò un nuovo, violento movimento, il fascismo, in un quadro di declino delle istituzioni liberali. Asceso al potere nel 1922, il suo capo Mussolini costruì tra il 1925 e il 1926 un regime dittatoriale che si fondava sulla repressione, sulla mobilitazione popolare e sull’economia corporativa. Negli anni Trenta, il regime fascista avviò una politica di guerra che portò alla conquista imperiale dell’Etiopia, all’intervento in Spagna e all’alleanza con la Germania nazista. Durante la Seconda guerra mondiale il tentativo fascista di costruire un nuovo ordine mediterraneo fu sconfitto dagli alleati anglo-americani, portando al crollo del regime, alla guerra civile, alla Resistenza e infine alla liberazione.

13.1 La transizione e la ricostruzione italiana

Le rese dei conti e la pace
L’Italia era prostrata da anni di guerra, guerra civile e doppia occupazione militare, nonché dal peso del Ventennio fascista. Tra le ultime fasi di guerra e i primi mesi di pace si scatenarono le rese dei conti, che insanguinarono soprattutto il Piemonte e l’Emilia e che si accompagnarono a spinte insurrezionali su scala locale colpendo esponenti del fascismo o ecclesiastici accusati di complicità con il regime.
Fu anche avviato, ma presto interrotto, un processo di epurazione dei quadri amministrativi che più si erano compromessi con il fascismo. In Italia infatti, come in altri casi di transizione postotalitaria, fu quanto mai arduo punire o licenziare i membri degli apparati statali, tanto più perché i vertici della magistratura avevano pienamente collaborato alle politiche fasciste. Perciò, con l’obiettivo della pacificazione nazionale, nel giugno 1946 il comunista Togliatti, ministro della Giustizia, emanò un decreto di ▶ amnistia e ▶ indulto, che condonava i reati comuni, politici e militari. Anche se il provvedimento escludeva i reati più efferati, esso fu di fatto applicato in modo indiscriminato, consentendo di liberare dal carcere numerosi fascisti in attesa di processo. D’altro canto, la reintegrazione di quanti erano stati espulsi per motivi politici o razziali (in particolare gli ebrei) da diversi settori della pubblica amministrazione (scuola, università, magistratura) fu difficile, lenta e incompleta.
Particolarmente drammatica fu la fase finale della guerra nella regione altoadriatica, che era stata direttamente annessa al Terzo Reich dal settembre 1943 [▶ cap. 9.8]. Il 1° maggio 1945, prima dell’arrivo delle forze angloamericane, l’Esercito di liberazione iugoslavo guidato da Tito si impadronì di Trieste e di tutta l’area circostante, reclamandone l’annessione alla Iugoslavia. I quaranta giorni di occupazione comunista esasperarono le contese politiche e territoriali che derivavano dal primo dopoguerra e si erano radicalizzate sotto il regime fascista e con l’avvento del nuovo ordine nazista. Un numero imprecisato (forse alcune migliaia) tra coloro che si opponevano all’annessione iugoslava o che erano considerati rappresentanti del passato fascista fu vittima di deportazioni e di esecuzioni sommarie: alcuni di essi furono fatti scomparire nelle cosiddette foibe, cavità naturali presenti nel Carso, vicino a Trieste.

Nonostante la partecipazione italiana alla lotta armata contro fascisti e nazisti e gli sforzi della classe dirigente antifascista per accreditare l’Italia sul tavolo dei vincitori, il trattato di pace, firmato a Parigi nel febbraio 1947, sanciva la sorte di un paese sconfitto. Alla Iugoslavia furono ceduti i territori in precedenza acquisiti con il Trattato di Rapallo (1920) e quello di Roma (1924), ossia l’Istria, Fiume, Zara e le isole dalmate [▶ cap. 4.5]. Alla popolazione di lingua italiana che si trovava in territorio istriano e dalmata, ormai sotto sovranità iugoslava, fu riconosciuta la possibilità di scegliere se conservare la cittadinanza italiana e dunque partire, oppure accettare la nuova cittadinanza iugoslava. Nel contesto di costruzione del nuovo potere popolare iugoslavo, la maggior parte della comunità italiana scelse la via dell’esilio. Tra il 1947 e il 1956, per varie ragioni, non da ultima la ricerca di maggior benessere, si trasferirono dall’Istria e dalla Dalmazia tra 200 000 e 250 000 persone di lingua italiana.

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Il contestato confine orientale [ 1] fra il 1945 e il 1947 fu diviso in una zona A e in una zona B, rispettivamente sotto il controllo militare alleato e quello iugoslavo. Dal 1947, la zona B e parte della zona A furono inglobate nella Iugoslavia, mentre la provincia di Trieste fu dichiarata Territorio libero di Trieste e venne a sua volta suddivisa in due zone (A e B). Queste, con il memorandum di Londra dell’ottobre 1954, furono rispettivamente assegnate all’Italia e alla Iugoslavia. L’assetto definitivo dei confini fu stabilito soltanto nel 1975 con il Trattato di Osimo.
Il nuovo quadro istituzionale
L’unità dello Stato italiano, che era stata frantumata durante la guerra civile e le occupazioni militari del 1943-45, faticò a ricomporsi dopo la fine delle ostilità, tanto più che il dopoguerra era iniziato in tempi e modi diversi sulla penisola. Di conseguenza, la memoria del fascismo aveva un peso differente a seconda delle regioni ed era sempre più rilevante verso il Nord, dove si era instaurata la Repubblica di Salò e si era sviluppata la Resistenza. Le regioni del Sud, invece, erano entrate nella fase postbellica fin dalla seconda metà del 1943 e perciò non avevano conosciuto l’occupazione tedesca né il movimento partigiano, mantenendo un atteggiamento prevalentemente filomonarchico e più disponibile a valutare positivamente il regime di Mussolini.
Al contempo, i bombardamenti angloamericani del 1942-43 e la guerra civile del 1943-45, in concomitanza con la doppia occupazione alleata e tedesca, avevano gravemente danneggiato le strutture produttive nel Centro-Nord Italia con dure conseguenze sull’economia del paese. Nonostante si fossero salvate le fabbriche Fiat, grazie agli accordi dell’amministratore delegato Vittorio Valletta con le forze occupanti, la distruzione di impianti industriali, l’inflazione e la disoccupazione resero particolarmente difficile la vita agli italiani nell’immediato dopoguerra, alimentandone il malcontento.
Le speranze più radicali, incarnate dalle correnti rivoluzionarie della Resistenza, sembrarono eclissarsi, ma i mutamenti politici e sociali che realmente occorsero nel dopoguerra furono profondi. Tra il maggio e il dicembre del 1945, il governo, composto da tutti i partiti antifascisti, fu diretto da Ferruccio Parri, dirigente del Partito d’Azione e capo del Comitato di liberazione nazionale. Seguì un governo di unità nazionale presieduto dal democristiano Alcide De Gasperi e sostenuto da socialisti e comunisti.

Le forze politiche che avevano partecipato alla Resistenza avevano deciso di affrontare la questione istituzionale dopo la guerra; dal canto suo il re Vittorio Emanuele III aveva rinunciato nel giugno 1944 a esercitare le funzioni sovrane, nominando il figlio Umberto II luogotenente generale del Regno. Il 2 giugno 1946 si tenne quindi il referendum istituzionale (in cui votarono per la prima volta in Italia anche le donne), vinto dalla Repubblica sulla monarchia con oltre 12 700 000 di voti (54,3%) contro 10 700 000 (45,7%) [ 2]. Mentre i partiti socialista e comunista avevano dato una chiara indicazione repubblicana, la Democrazia cristiana lasciò libertà di voto. Tuttavia, il quesito sull’assetto istituzionale non mancò di spaccare ulteriormente la società italiana, che soprattutto nelle regioni meridionali era ancora favorevole al re.

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Contemporaneamente al referendum istituzionale, il 2 giugno 1946 si svolsero le elezioni per l’Assemblea costituente incaricata di redigere una nuova Costituzione che sostituisse lo Statuto albertino. La Democrazia cristiana ottenne il 35% dei consensi (207 eletti), i socialisti il 21% (115 eletti) e i comunisti il 19% (104 eletti). Tuttavia, l’elaborazione del testo fondamentale della Repubblica fu il prodotto di una stretta collaborazione e di un alto compromesso fra i partiti politici, nonostante le crescenti tensioni internazionali e le profonde differenze tra le loro culture politiche di provenienza. La Costituzione si basava sulla comune matrice antifascista, maturata nella Resistenza, e definiva i fondamenti della nuova cittadinanza democratica. Entrata in vigore il 1° gennaio 1948, essa stabiliva la forma parlamentare della Repubblica, in cui, fra i punti fondamentali, si riconoscevano l’universalità dei diritti politici, il diritto al lavoro e il ruolo attivo dello Stato in economia. Con l’articolo 7, inoltre, si confermavano i termini del Concordato firmato nel 1929 tra la Chiesa e lo Stato, allora rappresentato dal regime fascista [▶ cap. 5.2].
I partiti politici e la società
La ricostituzione dei partiti, nel nuovo contesto repubblicano, fu segnata dall’eredità del Partito nazionale fascista. Le modalità della partecipazione e della propaganda di massa, sperimentate sotto il regime di Mussolini, furono adottate dalle nuove organizzazioni, in particolare dal Partito socialista, da quello comunista e dalla Democrazia cristiana. Nel nuovo contesto non c’era spazio per il Partito d’Azione, la formazione più originale dello scenario italiano, che riuniva la tradizione risorgimentale con una prospettiva europeista e che aveva giocato un ruolo importante nella Resistenza. Di fronte alle esigenze della politica moderna, non riuscì a trasformare la propria organizzazione per catturare il consenso delle masse. Il partito, guidato dai liberali Ferruccio Parri e Ugo La Malfa e dal socialista Emilio Lussu, elesse infatti solo sette deputati alla Costituente e si sciolse poi nel 1947.
I socialisti, che sotto la guida di Pietro Nenni avevano raccolto un notevole consenso alle elezioni del 1946, si spostarono su posizioni filostaliniane, stringendo un’alleanza con i comunisti. La linea politica dettata da Nenni generò un dibattito interno al partito, che dal 1943 aveva cambiato nome in Partito socialista italiano di unità proletaria (Psiup); durante il Congresso del 1947 ebbe luogo la scissione fra l’ala socialdemocratica di Giuseppe Saragat e quella di sinistra di Pietro Nenni: vennero fondati due partiti, il Partito socialista dei lavoratori italiani (Psli) di Saragat e il Partito socialista italiano (Psi) di Nenni.
Beneficiati dall’appoggio politico ed economico dell’Unione Sovietica, i comunisti avevano svolto un ruolo preminente nella “lotta di liberazione nazionale”, come veniva rappresentata la Resistenza. Il segretario del Pci, Palmiro Togliatti, promuoveva un progetto di “democrazia progressiva” che cercava, non senza contraddizioni, di assicurare il rispetto delle istituzioni repubblicane e al tempo stesso la lealtà al modello sovietico, sancita dalla partecipazione al Cominform, il nuovo organismo di coordinamento diretto da Mosca e costituito nel 1947 [▶ cap. 10.1]. Proprio in quegli anni il Pci adottava la tradizione cooperativa del socialismo, radicata nell’Italia centrale, contribuendo alla formazione delle cosiddette “regioni rosse” (Emilia-Romagna, Toscana, Umbria e Marche). Esse erano caratterizzate da una costante lealtà elettorale al Pci, che riduceva drasticamente la presenza e il ruolo dell’opposizione. Ciò permetteva un’indiscussa stabilità amministrativa e un rapporto organico fra dirigenti del partito e amministrazioni locali che garantivano un’alta qualità dei servizi sociali. Al tempo stesso, sotto l’impulso di Togliatti, il Pci assumeva un ruolo importante nella cultura e nell’editoria italiana grazie all’impegno di personalità di spicco della borghesia progressista e liberale quali Giulio Einaudi: in particolare la pubblicazione, fra il 1948 e il 1951, dei Quaderni del carcere di Antonio Gramsci, ebbe un impatto profondo sulla riflessione intorno alla storia d’Italia.

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La Democrazia cristiana, fondata nel 1942 a Milano, pur raccogliendo l’eredità del Partito popolare di Luigi Sturzo [▶ cap. 4.6], era articolata in una pluralità di correnti e orientamenti, sia conservatori sia progressisti. La figura centrale in questa fase fu Alcide De Gasperi, uomo politico trentino, già deputato al parlamento asburgico di Vienna, che aveva elaborato durante la Seconda guerra mondiale una prospettiva cristiana e liberale compatibile con le istituzioni democratiche, e che fu nominato primo capo del governo nell’Italia repubblicana. Pur essendo legata all’autorità della Chiesa, la Dc si assumeva una funzione autonoma di mediazione politica dei valori cattolici: mirava a rappresentare una netta discontinuità rispetto all’intensa collaborazione di larga parte del mondo cattolico con il regime fascista e al tempo stesso a combattere con intransigenza il comunismo, in quanto forza atea e materialista.
Anche in virtù della solidarietà morale e materiale prestata alla popolazione in guerra, la Chiesa costituiva una forza particolarmente influente su una società ancora in larga misura rurale: il suo strumento privilegiato era l’Azione cattolica, guidata dal conservatore Luigi Gedda. Al contempo, soprattutto sotto la spinta dei progressisti Giuseppe Dossetti e Giorgio La Pira, si ampliava il mondo dell’associazionismo cattolico, con la scissione dei sindacalisti cattolici dalla Cgil e la conseguente formazione della Confederazione italiana sindacati dei lavoratori (Cisl) e con la costituzione delle Associazioni cattoliche dei lavoratori italiani (Acli).
Dalla rottura del 1947 alle elezioni del 1948
In un clima gravido di crescenti tensioni internazionali fra Usa e Urss e sotto le conseguenti pressioni americane affinché si estromettessero i comunisti dal governo del paese, nel maggio del 1947 si produsse la rottura del governo di unità nazionale: De Gasperi rassegnò le dimissioni da capo del governo, la guida del paese fu affidata a un governo di “tecnici” democristiani, con la conseguente fuoriuscita di Togliatti e degli altri ministri comunisti. Si spianava così la strada affinché l’Italia potesse beneficiare degli aiuti economici del piano Marshall [▶ cap. 10.1].
La campagna elettorale per il voto del 18 aprile 1948 si svolse in un’atmosfera prossima a quella di una guerra civile. Pci e Psi si erano alleati in un Fronte democratico popolare appoggiato dall’Unione Sovietica, mentre la Democrazia cristiana, apertamente sostenuta dagli Stati Uniti, poté contare sulla rete vasta e capillare delle parrocchie, capaci di mobilitare i fedeli in chiave anticomunista [ 3]. Vinse la Dc, che ottenne il 48,5% dei voti (305 seggi) contro il ben più modesto 31% del Fronte democratico popolare (183 seggi). A completare il panorama politico delle elezioni del 1948, un discreto risultato fu ottenuto dal Movimento dell’uomo qualunque, fondato dal giornalista commediografo Guglielmo Giannini nel 1944. Il programma di questo movimento (da cui deriva il termine “▶ qualunquismo”) intrecciava elementi che inneggiavano all’anticapitalismo e all’anticomunismo, volti a ottenere consensi da quella parte della società stanca della politica e perciò anche disponibile a superare l’antifascismo. Il Movimento sociale italiano (Msi), partito nazionalista e anticomunista fondato da Giorgio Almirante nel 1946 raccoglieva invece l’eredità del fascismo (soprattutto di quello della Repubblica di Salò), senza riprenderne il nome in quanto bandito dalla Costituzione. Questi due movimenti si posero al di fuori del cosiddetto “arco costituzionale”, formato dai partiti che si riconoscevano nell’antifascismo.

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13.2 Il “centrismo”

Il governo De Gasperi
La politica italiana fra il 1948 e il 1953 fu dunque dominata dalla Democrazia cristiana di Alcide De Gasperi e dal suo governo, sostenuto da liberali, socialdemocratici e repubblicani. In questa fase furono adottate alcune scelte di fondo, che avrebbero definito a lungo la collocazione dell’Italia nello scacchiere internazionale della Guerra fredda, come l’adesione alla Nato [▶ cap. 10.1] e le politiche di ricostruzione economica ispirate al liberismo antiprotezionista statunitense. Fu quindi adottata una ▶ politica deflazionistica ispirata da Luigi Einaudi, dal 1948 il secondo presidente della Repubblica dopo Enrico De Nicola, mentre fu introdotta la ▶ scala mobile che consentì di adeguare i salari al costo della vita.
Furono anni di crescente sviluppo economico, ma carichi di tensioni e conflitti sociali, in cui spesso le agitazioni e le manifestazioni degli operai e dei contadini per rivendicare miglioramenti salariali e contrattuali, si concludevano con violenti interventi di polizia. Il ministro dell’Interno, Mario Scelba, si incaricò di combattere fermamente il cosiddetto “fattore K” (dal termine russo kommunizm), ovvero l’influenza comunista sulla politica e sulla società: estromise ogni ex partigiano dagli organi di pubblica sicurezza e riorganizzò le unità mobili della polizia di Stato (la “Celere”) dotandole di mezzi speciali per il pronto intervento. Quando il segretario del Pci Palmiro Togliatti fu ferito in un attentato nel luglio 1948 [ 4], il paese sembrò sull’orlo di un movimento insurrezionale, che poi rapidamente rientrò. In quel contesto di rovente contrapposizione la Chiesa si schierò apertamente contro l’ideologia comunista, tanto che nel 1949 papa Pio XII decise di scomunicare gli iscritti comunisti.

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Con l’intenzione di stabilizzare il sistema politico in senso anticomunista (per dar vita a una “democrazia protetta”, come veniva definita dai contemporanei) e di consolidare la maggioranza democristiana, De Gasperi propose una nuova legge elettorale che correggeva il vigente sistema proporzionale, il quale assegnava i seggi in parlamento sulla base del numero di voti effettivi per ciascun partito. Secondo il disegno di legge del nuovo sistema maggioritario, alla coalizione dei partiti che avesse superato il 50% dei voti si dovevano attribuire poco meno dei due terzi dei seggi (65%) in parlamento. I partiti di sinistra, esclusi dalla possibilità di superare la soglia del 50%, la denunciarono come “legge truffa”. Tuttavia, alle elezioni del giugno 1953 la Dc e i suoi alleati mancarono l’obiettivo per qualche migliaio di voti, senza perciò far scattare la clausola del premio di maggioranza. Questa sconfitta segnò la fine della carriera politica di De Gasperi, che morì l’anno successivo.
La povertà e la riforma agraria
In campo economico, nonostante i tentativi di modernizzazione dell’industria e delle vie di trasporto del regime di Mussolini [▶ cap. 5.3], l’Italia restava un paese profondamente agricolo (il 42% della popolazione attiva era impegnata in campagna), in cui persistevano gravi condizioni di povertà, arretratezza e analfabetismo, soprattutto nelle regioni centromeridionali [▶ altri LINGUAGGI, p. 522].
Fin dal 1944, come dopo la Grande guerra, si erano verificate occupazioni di terre, soprattutto al Sud, dominato dal latifondo: dalla Puglia alla Calabria, dalla Basilicata alla Sicilia, i contadini – in particolare braccianti – si erano associati in cooperative per sfruttare gli appezzamenti incolti, ma avevano incontrato una strenua resistenza da parte dei proprietari, che erano parte del notabilato locale di orientamento liberale o conservatore. Tuttavia, le lotte contadine e bracciantili spinsero alla formazione delle prime organizzazioni sindacali e partitiche moderne nelle campagne meridionali, costringendo il governo ad affrontare la questione della terra, dopo che si erano verificati gravi scontri con le forze dell’ordine. Nel 1950 si giunse così all’adozione di una riforma agraria che promosse una ridistribuzione del grande latifondo meridionale e che, per quanto parziale e limitata, provocò trasformazioni dalle dimensioni comparabili solo a quanto era accaduto nell’Europa orientale [▶ cap. 10.3]. Il varo della Cassa del Mezzogiorno inoltre garantì l’affluenza di un credito agevolato, consentendo di avviare una fase di modernizzazione dell’agricoltura meridionale. Oltre a vaste zone del Mezzogiorno la riforma, attraverso la bonifica delle zone paludose (in parte avviata già sotto il fascismo [▶ cap. 5.3]) riguardò il delta del Po, la Maremma toscana e laziale, rafforzando un po’ ovunque sulla penisola la piccola proprietà contadina.

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altri linguaggi

Neorealismo

La realtà di una società ricca di contraddizioni, piegata dalla miseria, ma aperta alla speranza, fu documentata dall’eccezionale fioritura letteraria e cinematografica maturata, fra la metà degli anni Quaranta e i primi anni Cinquanta, nella corrente del “neorealismo”. L’intento di questo movimento artistico era tanto etico quanto conoscitivo. Esso si proponeva come obiettivo l’indagine della realtà del dopoguerra, ma al tempo stesso era animata dall’intenzione di denunciarne gli aspetti di violenza, emarginazione, esclusione.

Il movimento neorealista, in forme diverse, coinvolse la letteratura, l’architettura e la pittura. Fu però il cinema l’espressione artistica che più di tutte condensò e rappresentò gli elementi tipici del neorealismo. Esso tendeva a prediligere le storie della quotidianità, a uscire fuori dagli studi cinematografici con la macchina da presa, per utilizzare come scenografia ambienti reali, e ad affidare la recitazione ad attori non professionisti che parlassero la lingua vissuta, spesso dialettale. Il primo film neorealista fu Roma città aperta (1945), il capolavoro di Roberto Rossellini, dedicato alla storia della Resistenza antinazista nella capitale italiana. Tra gli esempi più alti del cinema neorealista si ricordano anche Germania anno zero (1948) dello stesso Rossellini, in cui un ragazzino prima uccide il padre e poi si suicida sullo sfondo delle rovine postbelliche di Berlino, e le due pellicole di Vittorio De Sica: Sciuscià (1946), che si aggiudicò il primo premio Oscar consegnato al miglior film straniero, racconta la vita di due bambini alle prese con le difficoltà del dopoguerra, mentre Ladri di biciclette (1948) narra la storia di un disoccupato che subisce il furto della propria irrinunciabile bicicletta e ne insegue le tracce per Roma.

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13.3 Il boom economico

Stato ed economia
Come rivelò l’inchiesta di una Commissione parlamentare presieduta dal socialdemocratico Ezio Vigorelli nel 1951-54, la Seconda guerra mondiale aveva aggravato le condizioni di miseria e arretratezza in cui già versavano la società e l’economia italiane. Nonostante il fallimento del progetto di modernizzazione fascista, l’Italia era ancora ricca di risorse, anche demografiche, che avrebbero alimentato lo slancio della ricostruzione postbellica. I danni della guerra, che avevano colpito duramente le industrie, furono rapidamente ripristinati: le zone di sviluppo industriale, in particolare il triangolo fra Torino Genova e Milano, erano riuscite a conservare larga parte delle proprie strutture, mentre, dal 1947-48, il piano Marshall assicurò un flusso di aiuti economici senza precedenti.

La soppressione delle norme protezionistiche del regime fascista e le scelte di robusta liberalizzazione, promosse dal repubblicano Ugo La Malfa (ministro del Commercio con l’estero, durante il governo De Gasperi dal 1951 al 1953), incrementarono gli scambi commerciali e alimentarono una ripresa degli investimenti, che riguardò soprattutto il settore meccanico e petrolchimico. Uno stimolo ulteriore venne dallo sviluppo di queste politiche nel quadro del nuovo processo di integrazione europea che aveva preso vita a partire dal 1950 [▶ cap. 10.6].

Nonostante le scelte di liberalizzazione del governo De Gasperi, molti degli enti statali che erano stati creati sotto il regime fascista furono adottati dalla Repubblica e furono guidati da personale che era stato formato dall’ex primo ministro Francesco Saverio Nitti [▶ cap. 4.7]. Fu in particolare rivista l’organizzazione dell’Istituto per la ricostruzione industriale (Iri), un insieme intricato di enti che nel 1948 impegnava oltre 200 000 persone e il cui intervento si estendeva nei settori siderurgico e meccanico, nella cantieristica, nelle compagnie di navigazione, nell’elettricità e nella telefonia. Inoltre, la ristrutturazione previde la riconversione dell’industria siderurgica, volta a scopi bellici, in strumento di sviluppo.
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Non meno importante fu la nascita dell’Ente nazionale idrocarburi (Eni) fondata nel 1953 da Enrico Mattei. Nel 1945 Mattei, già comandante dei partigiani democristiani durante la guerra, era stato nominato dal Cln commissario per la messa in vendita dell’Agip (Azienda generale italiana petroli). Convinto che gli idrocarburi avrebbero consentito all’Italia l’indipendenza dalle grandi compagnie petrolifere, in particolare dalle cosiddette “Sette sorelle” (un cartello di sette compagnie britanniche e statunitensi che controllavano la quasi totalità del mercato petrolifero), Mattei non solo non liquidò l’azienda, ma avviò prospezioni che portarono alla scoperta di idrocarburi in Pianura Padana e permisero l’espansione dell’azienda che confluì all’interno dell’Eni. Per sopperire alle insufficienti risorse petrolifere italiane, il governo strinse rapporti sempre più fitti con i paesi del Terzo Mondo ricchi di idrocarburi e, anche attraverso la parallela azione diplomatica dell’Eni, ottenne un prezzo agevolato sulle importazioni di greggio. Al fine di ampliare i suoi spazi di manovra, Mattei avviò una pratica di finanziamenti dei partiti, attraverso il pagamento di ▶ tangenti, che portò a profonde distorsioni nei rapporti tra Stato, politica ed economia. Nell’ottobre 1962, l’aereo di Mattei precipitò sui cieli della Brianza, suscitando più di un sospetto di sabotaggio ai danni dell’imprenditore così attivo in politica.
Gli anni del “miracolo economico”
La fine degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta furono segnati da quello che già all’epoca si cominciò a chiamare “boom” o “miracolo economico”. A ben vedere, però, si trattava non tanto di un evento improvviso e inatteso, quanto di un processo che accelerò tendenze di rilancio economico e industriale avviate con l’accesso agli aiuti del piano Marshall dal 1947: fra il 1945 e il 1960 il reddito pro capite crebbe fortemente, secondo solo a quello tedesco. I settori trainanti della crescita della produzione industriale (fra il 7 e il 10% all’anno) furono quelli chimico, metalmeccanico, siderurgico e alimentare. Il nuovo benessere determinò una profonda trasformazione della vita domestica, provocata dall’acquisto e dall’uso sempre più frequente degli elettrodomestici, dalla lavatrice alla lavastoviglie, dal frigorifero all’aspirapolvere. A sua volta, questa fu la premessa materiale per una più ampia rivoluzione sociale e culturale, che concesse alle donne la possibilità di istruirsi, di svolgere un ruolo sociale e politico più attivo e di emanciparsi dalla vita domestica per realizzare le proprie aspirazioni professionali.

Favorito dalla distruzione del sistema ferroviario durante la guerra, il settore del trasporto privato alimentò un mercato sempre più intenso. La Fiat contribuì in modo decisivo a cambiare i costumi degli italiani, soprattutto attraverso il nuovo modello di auto, la 600, dal prezzo accessibile a un’ampia fascia di popolazione, che fu messa sul mercato nel 1953. In quell’anno circolavano in Italia oltre 600 000 auto, nel 1956 superarono già il milione. Insieme alle auto si diffuse la Vespa, lo scooter prodotto dalla Piaggio che, anche per i suoi bassi costi, avrebbe conosciuto un grande successo popolare [ 5].

In un quadro di massicci investimenti pubblici per rafforzare le infrastrutture del paese, fu ampliata la rete autostradale: particolarmente importante fu la costruzione dell’autostrada del Sole, la cui prima tratta fu inaugurata nel 1958 e che fu conclusa nel 1964, collegando Milano a Napoli. Il benessere più diffuso, una cultura inedita del tempo libero e dell’intrattenimento e la costruzione di una rete stradale nazionale crearono le condizioni per le prime vacanze di massa. Le città d’agosto cominciarono a svuotarsi, mentre molti italiani si riversavano nelle località di villeggiatura, soprattutto al mare.

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Comunicazione e consumismo
Un’altra straordinaria innovazione fu la diffusione dei televisori. In Italia l’ente radiofonico, la Radio audizioni italiane, poi Radiotelevisione italiana (Rai), a partire dal 3 gennaio 1954 cominciò a tenere un servizio regolare di trasmissione nazionale come strumento di intrattenimento e di informazione. La televisione diventò il principale agente di nazionalizzazione delle masse, diffondendo una lingua italiana standard che si sarebbe gradualmente imposta come omogenea sul territorio nazionale, sradicando o ridimensionando l’uso dei dialetti. Di fatto, la società italiana raggiunse in questo periodo un grado di unità culturale che mai aveva avuto [▶ oggetti, p. 526].
La ripresa economica e la crescita del benessere portarono all’affermazione dei primi consumi di massa, inaugurando forme di americanizzazione della cultura e della società italiane, in forme analoghe a quanto stava accadendo negli altri paesi dell’Europa occidentale. Veicolo speciale della pubblicità televisiva fu il Carosello, programma serale della Rai, che andò in onda dal 1957 al 1977, promuovendo messaggi commerciali secondo uno schema predeterminato. D’altro canto, continuò a elaborarsi e a circolare una cultura ostile al consumismo, di matrice sia cattolica sia comunista. Nonostante le profonde divergenze politiche, le due culture tendevano inoltre a ritrovarsi nella comune rimozione e censura della sfera sessuale nel dibattito pubblico e nella rappresentazione artistica.

In un contesto diverso da quello dell’immediato dopoguerra, anche l’Italia del boom economico conobbe una straordinaria fioritura culturale. Molti scrittori, artisti e intellettuali gravitarono intorno al Partito comunista, pur conservando un atteggiamento critico e indipendente e alla fine fuoriuscendone dopo il 1956, come Italo Calvino e Pier Paolo Pasolini.

In particolare, il cinema italiano contribuì a elaborare una visione critica della società in film come Deserto rosso di Michelangelo Antonioni (1964), che mostrava l’alienazione dell’individuo moderno, o Il sorpasso di Dino Risi (1962), che raccontava l’Italia del benessere e le sue inquietudini. Al contempo forgiò un vero e proprio immaginario collettivo, capace di creare trasfigurazioni visionarie e oniriche della realtà. Un vero e proprio caso fu il film La dolce vita di Federico Fellini (1960), che fu attaccato dalle autorità ecclesiastiche per la rappresentazione “barocca” e licenziosa” di una società ossessionata dal successo.

In quegli anni, il cinema stava diventando una vera e propria industria, intesa da molti come la via per un rapido successo: quasi 3000 persone si accalcarono ai cancelli di Cinecittà per essere assunte come comparse durante le riprese del colossal americano Ben Hur (1959), diretto da William Wyler e poi vincitore di 11 premi Oscar.

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  oggetti

La televisione italiana

In Italia le prime prove sperimentali di trasmissione televisiva furono avviate negli anni Trenta dall’Ente italiano per le audizioni radiofoniche (Eiar), ma, a causa dell’ingresso in guerra dell’Italia, le sperimentazioni furono sospese. Finita la guerra, il nuovo ente, la Rai (prima Radio audizioni italiane, poi Radiotelevisione italiana), riprese le sperimentazioni nel 1949 e il 3 gennaio 1954 mandò in onda le prime trasmissioni ufficiali.

Le trasmissioni della Rai si rivelarono un potentissimo strumento di unificazione linguistica e culturale, in un paese ancora frammentato, dove dominavano le parlate dialettali e la conoscenza della lingua italiana era patrimonio di una minoranza. Al tempo stesso, la televisione pubblica s’impegnò a veicolare un’educazione morale comune, fondata sul rispetto dell’ordine costituito e dei valori familiari, escludendo quindi i programmi che incitassero all’insubordinazione sociale o presentassero scene erotiche.

Tra i programmi di maggior popolarità figurarono la Domenica sportiva e i telequiz, come Il Musichiere condotto da Mario Riva e Lascia o raddoppia? condotto da Mike Bongiorno. Nel 1957 fu inaugurato il Carosello, una sequenza ben codificata di messaggi pubblicitari preceduti da brevi sketch comici, intermezzi musicali o spettacoli di intrattenimento, che andò in onda ogni sera per dieci minuti fino al 1977. Verso la fine degli anni Cinquanta andò in onda il primo telegiornale, presto affiancato dalle trasmissioni di dibattito politico come Tribuna politica e Tribuna elettorale.

Con espliciti scopi didattici, tra il 1958 e il 1967 fu trasmesso il programma Non è mai troppo tardi, rivolto al pubblico degli analfabeti, ancora numerosi in Italia, con l’intento di prepararli all’esame per il conseguimento del­la licenza elementare. Grande fortuna ebbero anche gli adattamenti televisivi di grandi romanzi (come Pinocchio), i cicli dedicati a grandi registi e la ripresa di serie televisive americane (da Rin Tin Tin al Dottor Kildare).

Intorno alla metà degli anni Settanta sorsero le prime emittenti commerciali private, tra le quali emerse con forza l’iniziativa di Fininvest, guidata dall’imprenditore milanese Silvio Berlusconi. Nel corso degli anni Ottanta, nonostante una dura battaglia politica e legale intorno alla regolamentazione delle con­cessioni pubbliche per le trasmissioni televisive, in cui giocò un ruolo decisivo il presidente del Consiglio socialista Bettino Craxi, i principali canali di Berlusconi (Canale 5, Italia 1 e Rete 4) dettarono il nuovo palinsesto televisivo degli italiani, basato sull’intrattenimento leggero. Trasmissioni come Drive In contribuirono a creare un nuovo immaginario collettivo, pronto a congedarsi dal tradizionale moralismo che aveva dominato l’Italia fino ad allora.

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Geografia del boom economico e le migrazioni
Fra gli anni Cinquanta e gli anni Sessanta la società italiana, come altre società europee occidentali, conobbe una profonda mutazione dei propri equilibri demografici. Già dopo il 1945 centinaia di migliaia di italiani tornarono nella penisola dai territori perduti durante la Seconda guerra mondiale: dalle ex colonie in Africa (Libia, Somalia, Etiopia ed Eritrea) [▶ cap. 11.3] come dall’Istria e dalla Dalmazia.
Fu però il boom economico, che investì in maniera disomogenea il paese, a provocare una fase di eccezionale mobilità: una parte consistente della popolazione abbandonò luoghi in cui era radicata da generazioni per cercare altrove condizioni di vita più soddisfacenti. Nel corso degli anni Cinquanta quasi tre milioni di italiani espatriarono, 1 750 000 verso l’Europa e 1 200 000 verso altri continenti. Nello stesso periodo, circa due milioni di persone lasciarono il Mezzogiorno d’Italia (soprattutto Puglia, Sicilia e Campania), dirette verso l’estero (specialmente Germania Ovest e Belgio) e verso l’Italia settentrionale (soprattutto Piemonte, Liguria e Lombardia). Alla fine degli anni Sessanta, Torino, dopo Napoli e Palermo, era la terza città del paese per numero di abitanti meridionali [ 6].

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Il Sud offrì uno straordinario serbatoio di manodopera per le fabbriche situate nelle periferie delle città settentrionali, che continuarono ad espandersi e a svilupparsi in forme tumultuose, assorbendo sobborghi e campagne circostanti, spesso in assenza di qualsiasi piano urbanistico. Sulle esigenze di pianificazione prevaleva infatti l’urgenza di costruire nuove case popolari, capaci di ospitare il flusso di migranti che proveniva dal Sud e dalle campagne.
A riprova di quanto fosse ancora labile un comune senso di appartenenza nazionale, emersero gravi problemi di integrazione culturale e sociale. Erano infatti tutt’altro che rari, nelle città del Nord, gli episodi di intolleranza e di discriminazione a danno degli immigrati meridionali [ 7], a cui si sommavano abusi nella gestione della manodopera, varie forme di sfruttamento o di “lavoro nero”. Chi si spostava verso il Nord si dedicava soprattutto a lavori manuali, in special modo nell’industria; chi emigrava verso Roma e il Centro mirava soprattutto a impieghi nell’amministrazione pubblica o nelle forze dell’ordine. Un caso particolare era rappresentato da Torino e dalla sua espansione attraverso l’indotto della Fiat, che raggiunse i 100 000 addetti nel 1961; quasi un torinese su nove ne era dipendente.
Il declino della civiltà contadina e la crisi della Chiesa
Contemporaneamente al notevole aumento di produttività del sistema industriale, nelle campagne maturarono trasformazioni profonde, che posero fine a più antichi sistemi economici e stili di vita. Le innovazioni tecnologiche che rendevano più efficiente la produzione agricola tendevano a determinare una crescente disoccupazione della manodopera rurale (soprattutto braccianti), che pertanto era sempre più attratta dall’impiego in città. La popolazione attiva impegnata nel settore agricolo era scesa dal 44% al 30% in poco più di un decennio, tra il 1950 e il 1963 (per poi ridursi a poco oltre il 15% verso la fine degli anni Sessanta).
La fine della civiltà contadina comportò il declino del prestigio e del potere sociale della Chiesa, tradizionalmente radicati nelle campagne: alla crisi delle vocazioni di preti e suore si accompagnò una graduale disaffezione nei confronti delle parrocchie. Si profilò un sostanziale distacco dalle pratiche religiose, anche se la maggioranza degli italiani continuava a definirsi cattolica.
In questo contesto cominciarono a maturare fermenti di rinnovamento interni alla Chiesa, che si incarnarono nella figura di papa Giovanni XXIII (monsignor Angelo Roncalli), eletto papa nel 1958 alla morte di Pio XII. Fu per sua iniziativa che nel 1962 cominciò il Concilio Vaticano II, convocato con l’intenzione di aprire la Chiesa alla modernità [▶ cap. 12.1]. Le aperture progressiste di alcuni settori della Chiesa si concretizzarono nel nuovo e vivace impegno per la pace, esposto dall’enciclica Pacem in terris (1963), proprio mentre la crisi di Cuba minacciava di spingere il mondo verso un conflitto tra le superpotenze atomiche [▶ cap. 12.2]. Sviluppi ulteriori di queste posizioni furono promossi soprattutto dal nuovo papa Paolo VI (monsignor Giovanni Montini), succeduto nel 1963 a Giovanni XXIII e che fu colui che ratificò le riforme elaborate nel Concilio che si chiuse nel 1965. Nonostante le aperture verso la modernità, Paolo VI con l’enciclica Humanae vitae del 1968 ribadì il tradizionale divieto alla contraccezione, alla sterilizzazione e all’aborto, ampliando la frattura con una comunità di fedeli sempre più refrattaria all’imposizione di una dottrina morale.

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13.4 Dal centrismo al centrosinistra

Appartenenza atlantica e costruzione europea
Gli esiti della guerra avevano consegnato l’Italia all’area di influenza occidentale. Nelle sue scelte strategiche fu perciò subordinata all’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (Nato), cui aveva aderito nel marzo 1949, nonostante l’aspro dibattito parlamentare e la dura opposizione del Pci. Nei decenni successivi la sua politica estera fu dunque essenzialmente delimitata dalle coordinate della Guerra fredda e dall’appartenenza alla Nato.
Al tempo stesso, nel corso degli anni Cinquanta l’Italia fu uno dei paesi più attivi nel promuovere l’integrazione europea occidentale. Insieme al francese Robert Schuman e al tedesco Konrad Adenauer, De Gasperi fu animato da una profonda sensibilità europeista, tesa a superare i catastrofici conflitti della prima metà del Novecento. Nel 1951, l’Italia partecipò alla costituzione della Comunità europea per il carbone e per l’acciaio (Ceca), finalizzata a condividere la gestione di queste cruciali risorse, che in passato avevano alimentato le tensioni internazionali soprattutto tra Francia e Germania. Infine, il 25 marzo 1957 l’Italia ospitò a Roma la cerimonia per la firma del trattato che istituì la Comunità economica europea (Cee), della quale fu una dei paesi fondatori [▶ cap. 10.6]

[ 8].

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Il governo italiano cercò di intessere importanti rapporti diplomatici con i paesi che si stavano liberando del controllo coloniale in Africa settentrionale e in Medio Oriente. Questo tipo di iniziative era volto soprattutto a garantirsi le condizioni di accesso e di sfruttamento di risorse energetiche come il gas naturale e il petrolio, anche a costo di scontrarsi con le grandi multinazionali petrolifere. In questa prospettiva l’Italia strinse rapporti di crescente intesa con i paesi arabi, assumendo una posizione vicina a quella dei palestinesi nel conflitto arabo-israeliano [▶ cap. 11.4].
La Democrazia cristiana, un Partito-Stato
Il sistema politico italiano fra il 1948 e il 1958 fu incardinato intorno al ruolo centrale della Democrazia cristiana, che guidò una serie di governi appoggiati dal Partito liberale, da quello repubblicano e da quello socialdemocratico. Fu questa la prospettiva del centrismo, coltivata soprattutto da Alcide De Gasperi, insieme all’idea di una democrazia protetta, che comportava misure di contenimento anticomunista, senza cedere a derive reazionarie o clericali. Con la morte di De Gasperi (1954) si moltiplicarono le correnti interne al partito: emerse quindi la figura di Amintore Fanfani, fautore di una visione della Dc come grande partito dello Stato, soprattutto nel Mezzogiorno. Con questi intenti nacque il ministero per le Partecipazioni statali, che aveva il compito di gestire e coordinare enti e aziende totalmente o in parte di proprietà dello Stato (come Iri ed Eni).
Questo ampio intervento dello Stato aveva come obiettivo quello di generare occupazione in settori chiave come quello dei trasporti o dei servizi, contribuendo alla crescita del paese soprattutto nelle zone depresse del Sud. L’esito fu la proliferazione di una rete di enti burocratici incaricati di gestire il denaro pubblico, promuovere la costruzione di infrastrutture, stimolare e sostenere la produzione. La continua permanenza della Dc al potere finì con l’instaurare un rapporto stretto, talvolta patologico fra il partito e lo Stato, in cui la gestione delle risorse statali poteva variare sulla base di accordi interni fra esponenti del partito più che tra le forze politiche in parlamento. D’altro canto, a livello locale, il potere democristiano si radicò attraverso l’azione di mediatori, che costruirono reti clientelari ispirate al “familismo amorale” [▶ idee], garantendo posti di lavoro, concessioni o provvedimenti assistenziali, in cambio del supporto alla Dc. Queste pratiche si diffusero prevalentemente nell’Italia centromeridionale e furono consolidate dall’afflusso del denaro statale e dall’uso dell’amministrazione pubblica come strumento di assunzione e di impiego.

  idee

“Familismo amorale”

Il termine fu coniato dal politologo americano Edward Banfield nel 1958, per definire pratiche e comportamenti sociali dei contadini che egli aveva osservato e studiato a Chiaromonte, in Basilicata. A suo avviso, in quel mondo rurale l’attenzione esclusiva per il nucleo familiare e per il rispetto dei suoi valori tradizionali finiva con l’oscurare qualsiasi nozione di bene comune.

Questa tesi, pur in seguito contestata, è stata utilizzata dallo storico inglese Paul Ginsborg per analizzare i rapporti tra famiglia, società e Stato nell’Italia repubblicana e per spiegare le sue patologie in termini di assenza di senso civico.

Il “familismo amorale” è stato perciò associato al clientelismo, inteso come strategia per costruire lealtà informali ma vincolanti finalizzate a ottenere benefici, posizioni o privilegi privati, spesso sfruttando o svuotando di senso le istituzioni pubbliche. Le pratiche clientelari si diffusero soprattutto nelle regioni meridionali, dove il locale notabilato democristiano cercava di consolidare il rapporto con il proprio elettorato e dove non di rado una funzione di mediazione fra società e politica era svolta dalla criminalità organizzata.

In Sicilia ad esempio, alcuni dirigenti democristiani strinsero accordi con la mafia, che deteneva il controllo del territorio veicolando così il voto verso la Dc.

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La sinistra e il 1956
Il Partito comunista italiano, che era il più grande dell’Europa occidentale, ma era escluso dall’area di governo per ragioni internazionali, era allora alleato con il Partito socialista, dominato dalla corrente filostaliniana. Il Partito comunista era caratterizzato da un lato dalla lealtà all’Unione Sovietica e al modello sociopolitico che essa rappresentava, dall’altro dalla volontà di delineare una via italiana al comunismo, tracciata dalle esperienze della Resistenza e dell’Assemblea costituente. Ben presto emersero gravi contraddizioni tra queste due tendenze, a fatica tenute insieme dalla leadership carismatica di Palmiro Togliatti. A esasperare queste contraddizioni del Pci fu l’eco dirompente di due eventi cruciali del 1956: a febbraio il discorso del segretario del Partito comunista sovietico Chruščëv durante il XX Congresso nel febbraio (ma rivelato nel giugno successivo) [ 9] e a novembre la repressione sovietica in Ungheria costrinsero i comunisti italiani a fare i conti con il comunismo staliniano e la sua tragica eredità [▶ cap. 10.5].
Mentre il Partito comunista, raccolto intorno a Togliatti, confermava la sua lealtà all’Unione Sovietica, alcuni politici e molti intellettuali fuoriuscirono dal Pci: dal costituzionalista Antonio Giolitti, allo scrittore Italo Calvino. Le vicende del 1956 gettarono anche i presupposti per un netto allontanamento dei socialisti dai comunisti, maturando un giudizio critico intorno all’esperienza staliniana e sovietica. Il Psi, su ispirazione del segretario Pietro Nenni, avviò una revisione del loro indirizzo politico verso posizioni più moderate, cercando di intavolare un dialogo con la Democrazia cristiana.
Spinte e resistenze al cambiamento
Eletto nel 1955, il nuovo presidente della Repubblica Giovanni Gronchi, un democristiano della corrente di sinistra, dimostrò la volontà di arginare le interferenze partitiche (a cominciare da quelle della Dc) nell’azione del governo, che si tradusse in iniziative di sapore ▶ presidenzialista. Al contempo, però, si impegnò a dare attuazione alla Carta costituzionale, varando una serie di istituti che, pur previsti dalla Costituzione, non si erano ancora insediati: la Corte costituzionale, il Consiglio superiore della magistratura e il Consiglio dell’economia e del lavoro.

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A quasi un decennio dalle elezioni del 1948 che aprirono la stagione del centrismo, di fronte al calo di consenso dei governi, si impose sempre più la necessità di trovare soluzioni che inaugurassero una stagione di riforme politiche e sociali, visto che all’orizzonte si profilava una convergenza tra Democrazia cristiana e Partito socialista. Questa politica di apertura a sinistra suscitò forti resistenze dell’episcopato italiano, che continuava a considerare la Dc come il garante politico della dottrina cattolica e della concezione sociale della Chiesa, anche nel nuovo contesto sociale creato dalle emigrazioni interne e dal boom economico e demografico. Più disponibile ad accettare i nuovi sviluppi politici era invece il papa Giovanni XXIII, che non ostacolò la formazione di un governo di centrosinistra.
Fin dal 1945, la memoria della Resistenza forgiò i discorsi ufficiali della nuova classe politica con l’obiettivo di legittimare le istituzioni democratiche attraverso l’antifascismo. A esso però tendevano a opporsi forme di anticomunismo, in cui trovavano espressione gli impulsi conservatori, se non apertamente reazionari, presenti nella società italiana. Nel quadro delle gravi tensioni che avevano accompagnato l’apertura a sinistra del sistema politico, con l’ipotesi di un governo tra Democrazia cristiana e Partito socialista, nel 1960 si formò il governo presieduto dal democristiano Fernando Tambroni e sostenuto dall’appoggio esterno del Movimento sociale italiano, un partito che, come abbiamo visto, si richiamava espressamente al fascismo. La situazione precipitò con l’autorizzazione a tenere il Congresso del Msi a Genova, città medaglia d’oro della Resistenza: il 30 giugno 1960 scoppiarono gravi scontri tra manifestanti e forze dell’ordine, che portarono alla sospensione del Congresso. Le violenze di piazza si estesero tuttavia da Torino alla Sicilia, ma fu a Reggio Emilia che assunsero le forme più cruente, causando la morte di cinque manifestanti il 7 luglio. Il governo Tambroni fu infine costretto a dimettersi, per porre fine all’ondata di proteste e alla loro dura repressione [ 10].
L’esperimento di centrosinistra
Nel frattempo, il clima di distensione internazionale e di collaborazione tra i due blocchi [▶ cap. 12.2], che maturò tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta, aprì la concreta possibilità di sperimentare combinazioni politiche fino ad allora impensabili, come la formazione di governi di centrosinistra, che prevedevano quindi un’alleanza fra democristiani e socialisti. Dopo le dimissioni di Tambroni, fra il 1960 e il 1962, Fanfani diede vita a due governi fondati sulle “convergenze parallele”, nel senso che si formarono grazie all’astensione benevola del Psi. Nel frattempo, Aldo Moro, il nuovo segretario della Dc subentrato a Fanfani nel 1959, riuscì a preparare il terreno alla svolta verso sinistra, che però si concretizzò solo dopo che venne meno l’opposizione della Chiesa, grazie all’apertura progressista di papa Giovanni XXIII. La Dc si aprì ufficialmente alla partecipazione socialista con il governo Moro, che si costituì, dopo estenuanti trattative, nel dicembre 1963.
I governi delle convergenze parallele furono più attivi sul piano delle riforme di quanto non furono quelli del centrosinistra, spesso brevi e instabili. Infatti, questa fase fu segnata da un ampio intervento pubblico in economia a tutela dei lavoratori, nonché dal varo di nuove misure di sicurezza sociale. Il repubblicano La Malfa, allora ministro del Bilancio e della Programmazione economica, presentò nel 1962 la cosiddetta “Nota aggiuntiva” in cui delineava un piano di intervento pubblico e una politica dei redditi concordata tra governo e sindacati con cui colmare gli squilibri sociali del paese, dopo il boom economico. Tuttavia, la Nota di La Malfa non trovò risonanza negli altri partiti.

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Una delle misure più significative adottate nel 1962 fu la nazionalizzazione dell’energia elettrica, che consentì tra l’altro di estendere la rete a larghe zone del Meridione dove fino ad allora era assente [▶ eventi, p. 534]. Invocata da Francesco Saverio Nitti fin dall’inizio del secolo, questa riforma fu promossa soprattutto dai socialisti, ma il monopolio statale in campo energetico fu accolto favorevolmente in ampi settori della Dc, che avevano abbracciato una visione statalista dell’economia già con Fanfani. Un altro provvedimento fondamentale fu l’istituzione della scuola media unica e obbligatoria (1962), che consentì di combattere e in larga misura di eliminare le sacche di analfabetismo ancora presenti nella società italiana. L’obbligo scolastico, fino ad allora stabilito ai 10 anni d’età, veniva ora esteso fino ai 14 anni. Tuttavia, quest’opera di modernizzazione fu resa complicata da due motivi strutturali: la persistenza dei dialetti nella maggior parte dei contesti familiari, plasmati da bassi livelli d’istruzione; la prevalenza di metodi d’insegnamento gerarchici e autoritari nelle scuole italiane.
Nuove tensioni sociali e progetti eversivi
Il boom economico non mancò di far sentire i suoi dirompenti effetti sociali. Da un lato, l’affermazione della piena occupazione e l’aumento costante del salario alimentarono i consumi e diffusero il benessere in una misura fino ad allora sconosciuta; dall’altro, però, si rafforzò il potere contrattuale dei lavoratori, che non esitarono a usarlo per avanzare nuove rivendicazioni. Ne scaturirono aspre forme di lotta di classe, che non di rado condussero alla violenta repressione degli scioperi. Particolarmente gravi furono gli scontri in piazza Statuto del luglio 1962 a Torino, quando i metalmeccanici, soprattutto giovani meridionali di recente immigrazione, durante uno sciopero contro la Fiat raggiunsero la sede della Uil (il sindacato di riferimento dei socialdemocratici) ritenuta colpevole di aver sottoscritto l’accordo con l’azienda automobilistica. Gli scontri si protrassero per molti giorni causando centinaia di feriti tra manifestanti e forze dell’ordine.

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La tradizione democratica in Italia era relativamente recente; per questo motivo la lunga eredità del fascismo e l’aspro confronto ideologico della Guerra fredda contribuirono in certe fasi a destabilizzare le istituzioni parlamentari.

Gli ambienti più conservatori, vicini alla Nato, nonché segmenti degli apparati di sicurezza dello Stato, avevano accolto con ostilità e preoccupazione la costituzione del centrosinistra. Cominciarono quindi a elaborare progetti eversivi, con l’intenzione di arrestare quella che era percepita come una deriva verso sinistra. In particolare, nel 1964 il “piano Solo”, messo a punto dal generale dei carabinieri Giovanni De Lorenzo, ipotizzava l’arresto in massa di uomini politici e sindacalisti e l’occupazione armata dei centri di potere. Il piano non fu mai realizzato, ma nel 1967 un’inchiesta del giornale L’Espresso, diretto da Eugenio Scalfari, ne rivelò l’esistenza all’opinione pubblica. Il piano Solo non fu l’unico progetto eversivo di quegli anni; ve ne furono altri mai realizzati ma che continuarono a far presagire l’eventualità di un colpo di Stato.

  eventi

Il disastro del Vajont

Nel quadro del boom economico, il fabbisogno energetico crebbe a dismisura, con il problema ulteriore rappresentato dalla carenza di risorse naturali (come carbone o petrolio) nella penisola italiana. Di qui scaturì l’esigenza di creare dighe e invasi artificiali, soprattutto sull’arco alpino, da sfruttare per la produzione di energia elettrica. Tuttavia, i processi di modernizzazione furono impetuosi e si svolsero spesso al di fuori di un quadro legale certo, creando i presupposti per gravi disastri ambientali e umani, dipendenti da forti responsabilità della classe dirigente.

Un caso emblematico fu il disastro della diga del Vajont sul confine tra le province di Belluno e di Pordenone. La notte del 9 ottobre 1963, a seguito di una frana lunga oltre due chilometri che precipitò nel lago artificiale, si sollevò un’immensa onda d’acqua che oltrepassò la stessa diga, rimasta praticamente intatta, e si riversò sulla valle del Piave, distruggendo il paese di Longarone e altri centri minori. I morti furono oltre 1900.

La diga era stata costruita da un ente privato, la Società adriatica di elettricità (Sade), prima che fosse creato, alla fine del 1962, l’Ente nazionale per l’energia elettrica (Enel). I lavori per l’impianto, che doveva fornire energia elettrica a tutto il Triveneto, cominciarono nel 1957 e proseguirono negli anni successivi, nonostante i rilievi geologici presentassero rischi consistenti di frane (comunque sottostimati rispetto a quella che si sarebbe realmente verificata). Secondo quanto fu accertato in sede giudiziaria, la Sade coprì le informazioni in suo possesso circa i rischi di dissesto idrogeologico sui versanti della montagna che circondavano il bacino del lago, evitando così di dover coprire le spese per le opere di messa in sicurezza e di consolidamento delle sponde. Essa agì inoltre con la complicità di altri enti privati e pubblici, compreso il ministero dei Lavori pubblici.

A rendere ancora più grave e dolosa la tragedia, vi furono numerose segnalazioni, prima del disastro, che rimasero inascoltate, fra cui quella della giornalista de L’Unità Tina Merlin. Dopo aver raccolto le testimonianze degli abitanti della valle al di sotto della diga, nel 1959 la Merlin aveva scritto un articolo in cui denunciava il rischio che si verificasse una frana devastante. La giornalista fu perciò accusata di diffusione di notizie false e di turbamento dell’ordine pubblico, ma, dopo essere stata processata, nel 1960 fu assolta dal Tribunale di Milano.

Storie. Il passato nel presente - volume 3
Storie. Il passato nel presente - volume 3
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