13.5 L’onda lunga del ‘68

13.5 L’onda lunga del ‘68

La contestazione studentesca
Al di là delle contingenze politiche e partitiche, l’Italia in quel giro di anni si inseriva in un vasto processo di trasformazione della società e dell’economia, che in vari modi e gradi coinvolgeva tutto l’Occidente e che si traduceva nella rivendicazione di “rinnovamento”. Nuovi spazi di contestazione verso l’insufficienza o l’inefficienza delle “riforme” si aprirono tanto all’interno del Pci quanto alla sua sinistra. Si fecero strada le accuse contro la Resistenza tradita, ossia contro l’esito – considerato deludente – della lotta di liberazione antifascista nello Stato dominato dalla Democrazia cristiana.
Sotto lo slogan di una «nuova Resistenza» nacquero dunque numerosi movimenti collettivi, che coinvolsero un numero crescente di donne; essi erano l’espressione di una nuova società giovanile che aspirava a modificare in profondità i propri stili di vita e le proprie aspettative nel futuro. Questo nuovo attivismo trovò un precoce momento di espressione nel moto di solidarietà con cui molti ragazzi intervennero a Firenze, dopo l’alluvione del 1966 [ 11].
Le riforme introdotte nel sistema scolastico, in particolare quella del 1962, avevano ampliato l’istruzione di massa, ma restavano ancora carenze strutturali e tendenze autoritarie. A tal proposito, ebbe un grosso impatto il libro Lettera a una professoressa (1967), curato da don Lorenzo Milani, educatore poco allineato alle rigidità ecclesiastiche che operò in una scuola di campagna a Barbiana, vicino a Firenze. In questo libro, scritto insieme con i suoi studenti, Milani muoveva ampie critiche all’istruzione nella scuola italiana dell’obbligo: essa era ancora impregnata dall’approccio nozionistico e tradizionalistico alla cultura nonché dai pregiudizi classisti, che mantenevano uno scarto enorme nella qualità del livello educativo fra le scuole frequentate dai ragazzi benestanti e quelle delle zone periferiche.
Nelle università, la consistente crescita della popolazione studentesca – dai 250 000 iscritti del 1961 ai 550 000 del 1968 – mise in luce le contraddizioni legate a una struttura organizzativa ancora arcaica e autoritaria. Gli studenti criticavano in particolare i metodi didattici “cattedratici” e le forme astratte di sapere, mentre rivendicavano un rapporto più diretto e concreto con il mondo politico contemporaneo. L’ansia di partecipazione, espressa dalla richiesta di “democrazia diretta”, si tradusse ben presto in ▶ assemblearismo, che tendeva a trasformarsi in uno strumento di potere demagogico e autoritario da parte dei gruppi studenteschi più organizzati e aggressivi. In questo modo, essi intimidivano gli studenti refrattari ad aderire al movimento, contestavano i professori e pretendevano esami collettivi e ▶ voto politico come forme di rifiuto del sistema universitario esistente.

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In prima battuta, la politica fu tutt’altro che pronta e disponibile a recepire le rivendicazioni di questa nuova generazione. Nonostante alcune aperture alle istanze dei movimenti studenteschi, come l’approvazione della legge Codignola del 1969 che consentì l’accesso all’Università a tutti i diplomati di ogni ordine di scuola (prima era aperto solo ai diplomati liceali), i partiti non furono in grado di trovare la via del dialogo, peraltro chiusa dalla ribellione degli studenti di Milano, Torino, Roma. I primi scontri violenti fra studenti e polizia avvennero in quella che con enfasi fu definita la “battaglia di Valle Giulia”, a Roma, nel febbraio 1968 [ 12].
I movimenti degli anni Sessanta
I giovani protagonisti della contestazione erano ispirati da ideologie confuse di ispirazione vagamente marxista, che esprimevano una ra­dicale volontà di partecipazione e di mutamento. I movimenti studenteschi che pren­devano forma in quegli anni rappresentarono un fenomeno trasversale che, con le specifiche differenze, coinvolse i giovani di molti paesi europei di entrambi i blocchi [▶ cap. 12.4-12.5] in nome di un rinnovamento della società. Una presa crescente esercitarono esotiche mitologie rivoluzionarie provenienti dalle esperienze di lotta armata in America Latina come in Estremo Oriente (Che Guevara, Fidel Castro, Mao Zedong, Ho Chi Minh), che suscitavano atteggiamenti di fascinazione per l’insurrezione violenta.

In Italia, andò componendosi un universo di ▶ gruppuscoli rivoluzionari (divisi da forti rivalità), per lo più ispirati al marxismo-leninismo, che muovevano severe critiche alla strategia parlamentare e riformista del Partito comunista, in quanto erano convinti dell’imminenza della rivoluzione anticapitalistica e antiborghese in Occidente [ 13]. Gli studenti italiani seguirono con passione le vicende europee e globali di quell’anno, dall’offensiva del Tet in Vietnam [▶ cap. 12.3] al Maggio francese, fino alla Primavera di Praga e alla sua tragica repressione.

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La contestazione del 1968, pur senza produrre una sua propria cultura, implicò un profondo cambiamento dei costumi. Nello slogan «il personale è politico» era racchiuso il senso della politicizzazione della dimensione esistenziale, secondo cui gli atteggiamenti nella sfera privata assumevano una valenza politica di liberazione. La libertà del corpo cominciò a essere concepita come una chiave essenziale per la libertà degli individui, mentre si diffondeva il ricorso al contraccettivo quale mezzo di una vera e propria rivoluzione sessuale. Sulla scia del 1968, si affermò anche in Italia il movimento femminista, dopo che molte studentesse e operaie avevano preso parte attiva ai movimenti collettivi degli anni precedenti. Al centro delle rivendicazioni non stava soltanto l’eguaglianza di donne e uomini in termini di diritti, ma anche il riconoscimento della loro piena soggettività e dunque della loro diversità.
Oltre a sostenere le lotte per l’emancipazione, la tensione a conciliare la dimensione personale e quella politica aprì dunque la via a forme inedite di affermazione della soggettività. Su di esse si sarebbe ben presto costruita una politica dell’identità, che si sarebbe diffusa a destra come a sinistra. In special modo, le culture politiche di sinistra cominciavano ad affiancare, se non ad accantonarlo del tutto, il tradizionale ancoraggio all’eguaglianza e alla lotta di classe, a favore di un nuovo orizzonte teso a valorizzare le diversità e le particolarità, esaltato dalle lotte anticoloniali dei “piccoli popoli” come dalle battaglie femministe e omosessuali.
L’“autunno caldo”
Nel nuovo contesto sociale creato dal boom economico, la visione marxista della storia, articolata attraverso il conflitto fra il capitale e il lavoro, sembrava corrispondere a una realtà in cui la classe operaia occupava in effetti una posizione centrale. Gli scioperi nell’industria, che riguardarono soprattutto il settore metalmeccanico, raggiunsero la cifra consistente di 230 milioni di ore nel 1968 (equivalente a una giornata di sciopero per quasi 30 milioni di lavoratori): gli operai, che spesso provenivano direttamente dalle campagne o da altre regioni, e subivano anche il disagio dell’inurbamento, si scontrarono con le strutture e i ritmi di lavoro della fabbrica automatizzata su modello fordista [▶ cap. 7.1]Al tempo stesso, la crescita economica, iniziata nel 1958, si arrestò nel 1963, dando seguito a sei anni di recessione. In questo periodo si riaccesero lotte sociali contro i licenziamenti massicci e furono aperte vertenze contrattuali per alzare i salari.
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L’inasprimento della lotta di classe fra imprenditori e operai, a sua volta, produsse una significativa riduzione dei profitti industriali, innescando ulteriori reazioni padronali in termini di compressione dei salari e di irrigidimento della disciplina all’interno delle fabbriche. Durante l’autunno del 1969, passato alla storia come “autunno caldo”, gli operai scesero in piazza sempre più numerosi [ 14] e manifestarono per ottenere aumenti dei salari consistenti e uguali per tutti, una significativa riduzione dell’orario di lavoro (40 ore pagate come 48), la parità normativa fra operai e impiegati e il diritto di assemblea in fabbrica. Dopo lo sciopero generale del 19 novembre 1969, i metalmeccanici raggiunsero finalmente un accordo.
Sotto la pressione delle agitazioni, la politica assunse un corso riformistico. Infatti nel 1970 si approvò lo Statuto dei lavoratori, il quale sancì l’affermazione di una serie di diritti sul posto di lavoro (diritto di assemblea, di organizzazione sindacale, di tutela dai lavori pericolosi e di appello alla magistratura contro i licenziamenti ingiusti per le imprese sopra i quindici impiegati o operai). D’altro canto le riforme promulgate in questo periodo, come il varo di un sistema pensionistico e il sistematico adeguamento dei salari al costo della vita, migliorarono le condizioni di vita di milioni di italiani, ma contribuirono a gravare sulla spesa pubblica. Le misure del governo si basavano infatti su previsioni di crescita economica e demografica alte e costanti, mentre proprio agli inizi degli anni Settanta lo sviluppo industriale stava cominciando inaspettatamente a declinare, e il tasso di aumento della popolazione presto avrebbe iniziato a invertirsi.

Storie. Il passato nel presente - volume 3
Storie. Il passato nel presente - volume 3
Dal 1900 a oggi