11.1 L’impatto delle guerre mondiali nelle colonie

Per riprendere il filo…

La Seconda guerra mondiale aveva segnato il crollo del primato europeo nel mondo e nel contempo inaugurato una fase ormai davvero globale della storia umana. Queste radicali trasformazioni postbelliche, tuttavia, affondavano le loro radici in un periodo ancora precedente, quello compreso tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, quando l’ascesa degli Stati Uniti e la guerra russo-giapponese del 1904-05 avevano incrinato il dominio delle potenze imperiali europee. La rivoluzione bolscevica del 1917 nell’ex Impero russo aveva poi consacrato il principio della guerra antimperialista come coronamento della lotta di classe, mentre la fine della Grande guerra, nel 1918, aveva comportato l’affermazione del principio di autodeterminazione dei popoli, proclamato dal presidente degli Stati Uniti Thomas Woodrow Wilson. Sulla base di queste suggestioni, nel periodo compreso fra le due guerre mondiali nacquero diversi movimenti nazionalisti e comunisti nei continenti extraeuropei in opposizione alle grandi potenze imperiali europee.

11.1 L’impatto delle guerre mondiali nelle colonie

Grande guerra, riforme coloniali e resistenze imperiali
La Grande guerra aveva avuto un impatto destabilizzante nelle colonie, perché molti soldati che avevano combattuto in Europa erano stati reclutati in Africa e in Asia, soprattutto da parte dell’Impero britannico e di quello francese. Costoro erano così stati esposti non solo all’esperienza della guerra di trincea, ma anche alla propaganda per i diritti dei popoli oppressi, promossa in chiave liberaldemocratica da Wilson e in chiave comunista rivoluzionaria da Lenin. Questa propaganda contribuì a rafforzare una volontà di revisione dei rapporti tra le periferie e i centri degli imperi, alimentando le lotte per le riforme nelle colonie.

Intorno al 1920, oltre 450 milioni di persone in Africa e in Asia vivevano sotto il dominio coloniale diretto di Regno Unito, Francia, Paesi Bassi, Portogallo, Germania, Italia, Belgio e Giappone. Si trattava di imperi coloniali fondati sul monopolio, e non di rado sull’esercizio, della violenza, nonché sullo sfruttamento delle risorse economiche locali da parte dei centri imperiali. Accanto a queste forme di oppressione, tuttavia, non mancarono processi di cooptazione delle élite locali all’interno delle istituzioni coloniali. Questi gruppi dirigenti locali svolsero una funzione di mediazione fra dominatori e dominati, senza la quale il potere dei centri imperiali, contando solo su un’esigua presenza di forze coloniali e dei loro apparati burocratici, non avrebbe potuto reggersi. Gli Stati Uniti invece rappresentarono un caso a parte, poiché non costruirono un vero e proprio impero coloniale [▶ cap. 7.5].

Lo squilibrio demografico nelle colonie, ossia l’inferiorità numerica dei coloni rispetto ai colonizzati, rappresentò comunque, alla fine, una delle cause maggiori del processo di decolonizzazione. In molti casi furono proprio il coinvolgimento e la crescita di classi dirigenti locali a rappresentare l’innesco di tale processo. Esse profittarono infatti delle riforme indispensabili alla gestione coloniale e allo sfruttamento delle risorse delle colonie, come una certa diffusione dell’istruzione e dei servizi sanitari, l’ammodernamento delle infrastrutture urbane e una maggiore partecipazione al governo locale, per dare vita ad agitazioni contro il dominio straniero. Tali agitazioni divennero presto popolari a causa delle diseguaglianze e delle discriminazioni a dannodelle popolazioni colonizzate, favorendo nel lungo periodo il dispiegarsi di più ampi processi di acquisizione dell’indipendenza dai centri imperiali.

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La Seconda guerra mondiale nelle colonie

Fu però soprattutto la Seconda guerra mondiale a determinare una lacerazione profonda nelle relazioni fra l’Europa e il mondo, non solo perché i principali vincitori erano due forze extraeuropee (solo parzialmente, nel caso dell’Urss), ma anche perché il dopoguerra mutò i rapporti delle vecchie potenze imperiali europee con le loro colonie, determinando equilibri globali completamente nuovi.

In Asia, il dominio regionale giapponese ebbe effetti ambivalenti: da un lato, in nome del principio “l’Asia agli asiatici”, agì da detonatore di diffusi sentimenti anticoloniali e antioccidentali, accelerando i processi di liberazione (nel 1943, per esempio, i giapponesi riconobbero l’indipendenza formale alla Birmania e alle Filippine, pur mantenendone un ferreo controllo); dall’altra, diventò l’emblema di una nuova, violenta occupazione, suscitando spinte all’emancipazione.

Fra le colonie che parteciparono più attivamente alla guerra contro il nazismo vi furono i dominions britannici, sottoposti a pressioni via via più forti a causa delle esigenze di reclutamento delle truppe e di mobilitazione bellica. Il contributo più consistente fu dato dall’India, la quale arruolò due milioni e mezzo di soldati che furono schierati sui diversi teatri di guerra. Gli effetti della guerra determinarono nelle colonie britanniche in Asia una grave situazione di caos, che compromise la tenuta della rete commerciale e dei trasporti, provocò lo sconquasso della produzione, propagò epidemie e carestie, spinse le autorità a ricorrere all’internamento di coloro che erano visti come simpatizzanti dei giapponesi.

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In un quadro in cui la guerra assorbiva tutte le risorse, fu soprattutto la fame a mietere un enorme numero di vittime. Nel febbraio-marzo 1942, l’occupazione giapponese della Birmania, che portò all’interruzione dei rifornimenti di riso per il Bengala e l’India, contribuì ad aggravare la pressione sui raccolti ancora sotto controllo britannico, trasformando già difficili situazioni agrarie in catastrofi alimentari. Nel 1943 giocò un ruolo importante la decisione di Winston Churchill di negare gli aiuti del governo di Londra, facendo precipitare una crisi che provocò oltre 3 milioni di morti in Bengala [ 1]. Parte dell’Indonesia, fra il 1943 e il 1944, subì la perdita di 2 milioni e mezzo di vittime, mentre 2 milioni furono quelle del Vietnam, fra il 1944 e il 1945.

In consonanza con l’eredità di Wilson [▶ capp. 2.6-2.7], durante la guerra gli Stati Uniti manifestarono un orientamento anticoloniale, formalizzato nel novembre 1942 in una dichiarazione favorevole all’indipendenza delle colonie (Declaration of National Independence for Colonies). Churchill, deciso a difendere l’Impero coloniale britannico, era invece contrario alla posizione americana. Allo stesso modo De Gaulle, in una conferenza tenutasi a Brazzaville (Congo) nel febbraio 1944, escluse ogni forma di autogo­verno delle colonie francesi. Proprio nel giorno in cui si festeggiava la liberazione dalla Germania nazista, l’8 maggio 1945, le truppe francesi aprirono il fuoco contro i partecipanti a una dimostrazione indipendentista nella città algerina di Sétif [ 2], uccidendo centinaia di persone. Nel 1946 fu costituita l’Unione francese come strumento di maggiore integrazione delle colonie, chiamate “Stati associati” o “Dipartimenti d’oltremare”, senza però prevedere sostanziali cessioni di potere.

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La decolonizzazione
I tentativi europei di salvare i propri imperi, come vedremo, non riuscirono comunque a fermare il fenomeno della decolonizzazione. Esso, al contrario, fu uno straordinario moltiplicatore di Stati: le entità statuali alla fine della Seconda guerra mondiale erano 51; nel 1965 erano diventate 120, di cui 70 appartenenti all’Asia e all’Africa. La natura dei singoli processi di acquisizione dell’indipendenza, il grado di violenza dispiegatasi e i diversi esiti dipesero soprattutto dal tipo di rapporti che i vari imperi avevano instaurato con le società coloniali. In alcuni casi la decolonizzazione comportò sanguinose guerre di liberazione; nella maggior parte dei casi, però, la fine degli imperi coloniali fu un fenomeno relativamente pacifico.

Si possono distinguere tre ondate principali di decolonizzazione:

  • la prima, iniziata subito dopo il secondo conflitto mondiale, si concluse con l’indipendenza dei possedimenti britannici nell’Asia meridionale (India, Pakistan, Ceylon/Sri Lanka e Birmania/Myanmar), così come dei territori controllati da britannici e francesi in Medio Oriente (Palestina/Israele, Giordania, Libano, Siria);
  • la seconda, tra gli anni Cinquanta e Sessanta, portò al crollo degli imperi coloniali in tutta l’Africa settentrionale e in buona parte dell’Africa subsahariana e dei Caraibi;
  • la terza, infine, negli anni Settanta, segnò la fine del dominio coloniale portoghese in Africa e a Timor Est, la caduta del regime bianco in Rhodesia (Africa meridionale) e l’indipendenza di varie isole del Pacifico e di altri piccoli territori.

Oltre a queste tre fasi, inoltre, bisogna considerare i processi politici avvenuti negli stessi decenni in Cina, in America Latina e, a livello globale, in una serie di paesi che, in relazione più o meno diretta con la decolonizzazione, assunsero un protagonismo inedito sulla scena globale, promuovendo il movimento dei paesi “non allineati” ai due blocchi delle superpotenze di Usa e Urss. Tutti questi processi avevano le loro radici nel traumatico impatto della Seconda guerra mondiale e nelle sue ripercussioni che si dispiegarono nei decenni successivi alla sua fine.

11.2 La prima ondata di decolonizzazione

La fine dell’Impero britannico
Dopo la Seconda guerra mondiale, le potenze imperiali europee cambiarono la politica di controllo e di amministrazione delle colonie aprendo a importanti concessioni, con l’intento di circoscriverne il crescente malcontento. A causa dei nuovi equilibri mondiali gli Stati europei non ricoprivano più un ruolo di guida e di supremazia, ma erano subordinati a una delle due superpotenze. Al tempo stesso, esigenze di bilancio economico e di consenso sociale spingevano le potenze imperiali a trasferire in modo sempre più consistente le risorse dalle colonie africane e asiatiche alla ricostruzione in Europa.

La Gran Bretagna estese a tutti gli abitanti del Commonwealth i diritti di cittadinanza, anche se fu poi costretta a rivedere in parte questa legge per contenere il sempre più alto numero di immigrati che dalle colonie iniziarono a confluire in Inghilterra. Fermamente decisa a mantenere la propria posizione di potere globale, già durante la guerra Londra aveva cercato di promuovere l’autogoverno dell’India, “il gioiello della corona”, che doveva però conservare un ruolo speciale all’interno dell’impero: in questo modo le autorità britanniche intendevano sottrarre terreno al movimento indipendentista indiano.

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Nonostante questo, Gandhi [▶ cap. 6.7], leader del movimento indipendentista non violento, aveva lanciato lo slogan, rivolto ai britannici, «Quit India!» (“Abbandonate l’India!”), alimentando agitazioni che le autorità coloniali facevano ormai fatica a contenere. Fu comunque sotto il governo laburista di Clement Attlee, fra il 1945 e il 1951, che venne presa la decisione di dismettere l’Impero britannico, indotta anche dalle tensioni della Guerra fredda che catalizzavano l’impegno diplomatico e militare sul vecchio continente. Inoltre, la tenuta dell’impero si rivelò sempre più incompatibile, in termini di costi, con le ampie spese sociali che il Partito laburista aveva destinato al Servizio sanitario nazionale. Così, nel 1947 fu rapidamente riconosciuta l’indipendenza dell’India (suddivisa in due Stati: il Pakistan la cui popolazione era a maggioranza musulmana e l’India a maggioranza indù) [ 3]; nel 1948 fu invece il turno dell’indipendenza di Birmania e Ceylon. La partizione fra le terre a maggioranza musulmana e quelle a maggioranza indù al confine tra India e Pakistan (in particolare il Punjab e il Kashmir) provocò però scontri gravissimi e portò a un catastrofico trasferimento di popolazioni, che coinvolse da 10 a 12 milioni di persone [ 4]. Su questa sanguinosa scia, nel gennaio 1948 fu assassinato da un fanatico induista anche Gandhi, che predicava la convivenza fra musulmani e induisti all’interno della nuova India.

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L’emancipazione di Indonesia e Vietnam
Ben più violenta di quella britannica fu la resistenza degli olandesi, convinti che la perdita dell’Indonesia avrebbe rappresentato per loro un disastro economico. Perciò il movimento anticoloniale indonesiano fu combattuto con determinazione dalle forze dei Paesi Bassi, che provocarono la morte di 100 000-150 000 locali, prima di arrendersi, nel 1949, al riconoscimento dell’indipendenza del paese ormai dominato dal leader nazionalista Sukarno.

Anche la Francia, il paese che più aveva puntato sull’assimilazione dei possedimenti coloniali, fu pronta a difenderli con ogni mezzo. Mentre i possedimenti francesi in Medio Oriente, Siria e Libano furono abbandonati nel 1946, in Indocina Parigi si impegnò con fermezza nel mantenimento dei suoi possedimenti e dispiegò oltre mezzo milione di uomini, compresi circa 100 000 soldati nordafricani e 70 000 mercenari della  Legione straniera (tra i quali non pochi reduci della Wehrmacht). Il movimento anticoloniale Viet-Minh, guidato politicamente da Ho Chi Minh e militarmente dal generale Giap, era egemonizzato dai comunisti. La battaglia di Dien Bien Phu, combattuta da marzo a maggio del 1954 e vinta dalle truppe vietnamite, pose fine al dominio coloniale francese in Indocina [ 5]. Gli Accordi di Ginevra, firmati nel luglio successivo, sancirono l’indipendenza del Vietnam e la sua divisione, lungo il 17° parallelo, tra il Nord comunista, governato da Ho Chi Minh, e il Sud filoamericano, sotto il controllo del presidente Ngo Dinh Diem. Questa divisione, come vedremo, costituì la premessa per un nuovo conflitto.

11.3 Seconda e terza ondata di decolonizzazione

L’indipendenza dell’Algeria
L’Africa, toccata solo marginalmente dai processi di decolonizzazione dell’immediato dopoguerra, entrò in una nuova fase della sua storia dalla metà degli anni Cinquanta. Nel 1954, in concomitanza con la sconfitta di Dien Bien Phu che sancì la fine della presenza coloniale francese in Asia, precipitò anche la situazione in Algeria. Il paese, dominato dalla Francia fin dal 1830, nel 1947 era stato dichiarato parte del territorio metropolitano francese e dunque formalmente non si trattava di una colonia. All’inizio degli anni Cinquanta era popolato da oltre un milione di coloni francesi (i cosiddetti pieds-noirs), per lo più discendenti degli emigrati dalle province dell’Alsazia e della Lorena, dopo la conquista dell’Impero tedesco nel 1870.

A partire dal 1° novembre 1954, una serie di attacchi terroristici da parte del Front de Libération National (Fronte di liberazione nazionale), che costituiva il nucleo principale del nazionalismo anticoloniale algerino, colpì le forze francesi, le quali reagirono con una repressione brutale. Il momento culminante della crisi fu la battaglia di Algeri, combattuta tra il marzo e il novembre del 1957, quando la resistenza algerina fu piegata dall’intervento dei paracadutisti francesi [ 6].

Intanto, però, i ribelli, che godevano di un massiccio consenso tra la popolazione locale e che contavano molte donne tra le proprie fila, prendevano il controllo di ampie regioni fuori da Algeri. Per recidere il rapporto tra la guerriglia e i piccoli villaggi che le garantivano solidarietà e aiuto, le autorità francesi decisero, tra il 1957 e il 1960, lo spostamento forzato di quasi due milioni di persone, trasferite in nuovi villaggi, sotto stretta sorveglianza. Queste massicce operazioni antiguerriglia consentirono di circoscrivere l’attività militare del Fln, pur senza mai reprimerla del tutto, acuendo invece l’ostilità della popolazione algerina per i francesi.

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De Gaulle e la Quinta Repubblica francese
La guerra d’Algeria ebbe ripercussioni non solo culturali, ma anche politiche, facendo saltare gli equilibri tra i partiti e le istituzioni della Quarta Repubblica, sorta nel 1946 e segnata dalla cronica instabilità dei governi [▶ cap. 10.3]. Le forze politiche della destra nazionalista che esprimevano le rivendicazioni dei coloni francesi in Algeria, infatti, si opponevano con crescente aggressività al governo francese, accusato di sostenere una politica di conciliazione con gli indipendentisti algerini che loro consideravano come ribelli e assassini. Il 13 maggio 1958, per imporre un cambio di linea politica, i militari francesi d’istanza ad Algeri compirono un colpo di Stato, provocando per reazione vaste manifestazioni dei sindacati e dei partiti di sinistra che temevano una presa del potere dell’esercito a Parigi con l’appoggio della destra.

In questo clima saturo di tensione [▶ eventi], nel giugno successivo, Charles De Gaulle, forte del prestigio acquisito ai tempi della Resistenza al nazismo e al regime di Vichy, tornò sulla scena politica come primo ministro e fu incaricato dal parlamento di promuovere una revisione costituzionale. La nuova Costituzione, scritta da un comitato sotto il controllo del governo e approvata per referendum in ottobre, assegnava amplissimi poteri al presidente della Repubblica, consentendogli di nominare e sfiduciare i governi e di sciogliere il parlamento. Era l’inizio della Quinta Repubblica, che prendeva il posto della Quarta, fondata nel 1946. Un successivo referendum, nel 1962, sancì una nuova modifica costituzionale, che definiva l’elezione popolare diretta del presidente della Repubblica.

Eletto presidente della Repubblica in dicembre, De Gaulle epurò l’esercito da tutti gli elementi potenzialmente favorevoli a un colpo di Stato, senza esitare nella repressione quando le minacce di insubordinazione si fecero più concrete. Intanto, però, la notte del 17 ottobre 1961 la polizia francese, diretta da un ex collaborazionista del regime di Vichy, uccise sulle rive della Senna decine di manifestanti algerini, provocando uno dei più sanguinosi massacri dell’Europa occidentale postbellica. Nello stesso anno fu costituita l’Organizzazione armata segreta (Oas), un gruppo paramilitare clandestino francese che assassinava i sostenitori dell’indipendenza algerina e promuoveva

campagne per punire i “traditori” della patria. Sotto una crescente pressione interna e a fronte della persistente rivolta anticoloniale in Algeria, De Gaulle quindi decise di negoziare un “cessate il fuoco” con il Fln e di intavolare trattative. La guerra si concluse infine con la firma, nel marzo 1962, degli Accordi di Evian, che sancirono il ritiro francese dall’Algeria. Il Fronte di liberazione nazionale algerino assunse così il potere e il suo leader, vicino a posizioni socialiste e laiche, Ahmed Ben Bella divenne il primo presidente della Repubblica algerina [ 7].

  eventi

Il dibattito sulla lotta anticoloniale in Francia

I processi di decolonizzazione suscitarono vivaci dibattiti in Francia, spaccando l’opinione pubblica tra fautori e oppositori del colonialismo. Non pochi intellettuali sostennero che vi fosse una continuità fra la lotta antifascista e quella anticoloniale in nome dell’antimperialismo. Lo psichiatra martinicano Frantz Fanon e il filosofo marxista Jean-Paul Sartre legittimarono anche l’uso della violenza contro un colonialismo ormai identificato con il fascismo. In particolare, Fanon, discendente di schiavi africani e direttamente impegnato con il Fronte di liberazione nazionale in Algeria, celebrò il carattere liberatorio della violenza anticoloniale in un libro (I dannati della terra, pubblicato in Francia nel 1961 con prefazione di Sartre), che, riprendendo la tesi del nazionalista italiano Enrico Corradini circa la lotta tra “nazioni capitaliste” e “nazioni proletarie”, diventò un manifesto del terzomondismo. Il mondo della cultura espresse però anche posizioni diverse, come quella dello scrittore Albert Camus, il quale riteneva che l’oppressione coloniale non giustificasse in nessun modo il ricorso al terrorismo da parte degli oppressi e che anzi il terrorismo tendesse a delegittimare gli stessi movimenti di liberazione anticoloniale. Era infatti convinzione di Camus che ogni forma di violenza politica, anche se giustificata dalle più nobili intenzioni, avrebbe finito col trasformarsi in strumento per costruire nuovi sistemi di oppressione.

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La fine del colonialismo in Africa
Nel giro di un decennio, fra la metà degli anni Cinquanta e la metà degli anni Sessanta, i domini coloniali nell’Africa mediterranea e subsahariana caddero a uno a uno. I francesi, mentre erano seriamente impegnati in Algeria, abbandonarono piuttosto precipitosamente la Tunisia e il Marocco nel 1956 e il Senegal nel 1960; nello stesso anno, i belgi lasciarono il Congo.

Anche il Regno Unito fu costretto a ridimensionare le proprie ambizioni: la crisi di Suez, anche se non segnò una vera e propria svolta nella sua politica di decolonizzazione, mostrò le debolezze della sua posizione, rafforzando il risentimento antibritannico in tutto il mondo colonizzato o in via di decolonizzazione. Fra il 1957 e il 1964, la maggior parte dei residui possedimenti britannici diventò indipendente: Ghana (1957), Nigeria (1960), Tanganica (1961), Uganda (1962), Kenya (1963). In quest’ultimo caso il processo fu tutt’altro che pacifico: fin dal 1952 si era costituito il gruppo terroristico dei Mau Mau, che colpiva soprattutto i collaboratori locali dei coloni britannici e aveva spinto le autorità imperiali alla proclamazione dello stato di emergenza.

La crisi più grave di transizione a un regime postcoloniale investì il Congo belga. Nonostante la proclamazione dell’indipendenza nell’aprile 1960, le autorità belghe intervennero nell’ex colonia per difendere le popolazioni europee e gli ex funzionari coloniali, nonché per garantire lo sfruttamento delle risorse minerarie locali da parte di compagnie private. La secessione delle regioni più ricche di minerali, sotto la protezione del Belgio, fece scoppiare una guerra civile tra diverse fazioni rivali, che coinvolse più o meno direttamente, su fronti opposti, gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica. L’intervento delle Nazioni Unite impose il ritiro delle truppe belghe, ma il segretario generale dell’Onu si rifiutò di sostenere Patrice Lumumba, capo del Movimento nazionale congolese e primo ministro del Congo. Lumumba, che rappresentava la maggior parte della popolazione e che predicava l’unità fra le diverse fazioni presenti sul territorio, ricorse allora all’aiuto sovietico; tuttavia, il comandante dell’esercito Joseph-Désiré Mobutu, con l’appoggio statunitense, lo fece arrestare e giustiziare nel febbraio 1961 [ 8], espellendo i consiglieri di Mosca e combattendo le forze comuniste. Nonostante gli attivi sforzi di pacificazione da parte dell’Onu, la crisi congolese continuò a divampare: nel novembre 1965, infine, Mobutu si impadronì del potere con un colpo di Stato e instaurò una dittatura durata fino al 1997.

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L’Italia aveva perduto le proprie colonie durante la Seconda guerra mondiale per le sconfitte inflitte al regio esercito dalle forze britanniche e del Commonwealth nell’autunno 1941 in Africa orientale e nella primavera 1943 in Africa del Nord. La firma del Trattato di pace di Parigi nel febbraio 1947 comportò la rinuncia italiana a ogni possedimento coloniale, non solo a quelli conquistati sotto il regime fascista, ma anche a quelli ad esso precedenti. Il Dodecaneso fu assegnato alla Grecia, la Libia fu affidata ad un mandato franco-britannico (fino alla proclamazione dell’indipendenza nel 1951), mentre l’Eritrea fu consegnata al Regno Unito. L’Italia mantenne un protettorato sulla Somalia fino al luglio 1960, quando essa diventò una repubblica indipendente.

Il Sudafrica era retto da coloni bianchi, in prevalenza olandesi (di lingua Afrikaans, e perciò detti “Afrikaaner” o boeri) ma anche inglesi, che fondavano il proprio potere sulla supremazia razziale e sullo sfruttamento delle risorse naturali locali. Il sistema del­l’apartheid (“separatezza”), apertamente teorizzato dai boeri, fu istituzionalizzato nel 1948, dopo la vittoria elettorale del Partito nazionale boero, tradizionalmente antibritannico. Esso prevedeva la sistematica segregazione e discriminazione delle popolazioni di colore rispetto alla popolazione bianca, che, nonostante la condanna e l’isolamento internazionale, durarono fino ai primi anni Novanta. Fu Nelson Mandela, il leader dell’African National Congress [ 9] (un partito di ispirazione comunista, a cui Mandela offrì una nuova prospettiva ideale) a distinguersi nella lotta contro l’apartheid, che gli costò 27 anni di carcere dal 1963 al 1990 e che gli valse il premio Nobel per la pace nel 1993.

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L’ultimo degli imperi coloniali a disgregarsi fu quello portoghese. Dal 1961 erano scoppiati disordini in Angola, che poi si diffusero in Guinea Bissau nel 1963 e in Mozambico nel 1964. Nonostante la volontà del regime autoritario di Salazar di conservare le colonie, l’esercito portoghese era sempre più in difficoltà di fronte alle guerriglie anticoloniali, sostenute dall’Unione Sovietica. Solo nel 1974, dopo la caduta della dittatura di Marcelo Caetano, il nuovo governo portoghese aprì negoziati con i ribelli, che sancirono l’emancipazione delle colonie durante la terza ondata di decolonizzazione [ 10].

11.4 La nascita di Israele e il problema del Medio Oriente

La Palestina fra le due guerre mondiali

Dopo la Grande guerra la Palestina aveva fatto parte del sistema dei mandati con cui l’Impero britannico, insieme a quello francese, aveva gestito il controllo amministrativo ed economico delle ex provincie mediorientali dell’Impero ottomano. L’Impero britannico si trovava però di fronte a gravi difficoltà nella gestione della Palestina, contesa fra le popolazioni arabe e l’insediamento ebraico, che era quasi raddoppiato fra gli anni Venti e gli anni Trenta, passando da 100 000 a oltre 230 000 ebrei (20 % della popolazione). Soprattutto dopo il 1933 , il movimento sionista promosse il trasferimento degli ebrei dall’Europa, sotto la spinta delle persecuzioni antisemite nella Germania nazista [▶ cap. 8.3]. Come in tutti i paesi coloniali, in Palestina, però, si stava formando anche un nazionalismo palestinese che, nonostante le periodiche ribellioni antisioniste (come quella avvenuta a Gerusalemme nel 1929), fece fatica a unificare una società rurale frammentata. Tuttavia, l’acuto disagio economico della popolazione araba palestinese e la crescente presenza dell’insediamento ebraico finirono per creare le condizioni per lo scoppio della “Grande rivolta” nell’aprile 1936. Nonostante la dura repressione delle autorità britanniche, che causò la morte di oltre 3000 ribelli, il nazionalismo palestinese riuscì allora a mostrare la propria forza di massa, radicata soprattutto nelle campagne.

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Lo Stato d’Israele e la guerra del 1948
La Palestina restò ai margini della Seconda guerra mondiale. Solo alcune frange radicali del nazionalismo palestinese si avvicinarono alla Germania nazista in chiave antiebraica, mentre gruppi estremisti ebraici compivano atti terroristici contro le forze britanniche per indurle ad abbandonare la Palestina. Fu però soprattutto lo sterminio degli ebrei in Europa, realizzato dal regime nazista, a cambiare completamente la situazione, inducendo l’Organizzazione sionista mondiale a chiedere la costituzione di uno Stato ebraico in Palestina, dove, nell’immediato dopoguerra, aumentò l’afflusso di profughi ebrei provenienti dall’Europa, che erano in gran parte sopravvissuti alla Shoah [ 11].

Dopo che Londra annunciò la fine del mandato britannico in Palestina, la risoluzione 181 dell’Onu, approvata il 29 novembre 1947, impose la costituzione di due Stati in Palestina, uno ebraico e uno palestinese, mentre Gerusalemme doveva essere affidata a un’autorità internazionale. Al momento del voto all’Onu, la popolazione araba in Palestina costituiva circa i due terzi di quella totale. La spartizione prevedeva però l’assegnazione di una quota maggiore di territorio allo Stato ebraico (circa il 56%), che per lo più corrispondeva, oltre alla lunga e fertile fascia costiera, alla zona deserta del Negev, destinata all’accoglienza della massiccia immigrazione ebraica dall’Europa. Mentre i nazionalisti palestinesi e gli Stati arabi rigettarono con decisione il piano dell’Onu, i vari gruppi sionisti lo accettarono pur con l’opposizione di alcune correnti estremiste. Iniziò quindi una fase di guerra civile strisciante tra ebrei e arabi palestinesi, che cercavano di conquistare posizioni vantaggiose in vista della fine del mandato britannico. Il 14 maggio 1948, quando le ultime truppe di Londra abbandonarono la Palestina, fu proclamata la nascita dello Stato d’Israele.

Il giorno successivo una coalizione di Stati arabi, composta da Egitto, Giordania, Siria e Iraq, attaccò le forze militari israeliane. Per quanto inferiori, queste ultime riuscirono ad affermarsi al di là di ogni previsione, approfittando delle divisioni nella coalizione araba, in cui ogni Stato intendeva intestarsi il ruolo di legittimo difensore della causa palestinese. La Prima guerra arabo-israeliana diventò per gli israeliani la Guerra d’indipendenza, per i palestinesi la Nakhba (“catastrofe”). L’esito del conflitto fu il consolidamento e l’allargamento del nuovo Stato ebraico, i cui confini divennero molto più ampi di quelli previsti originariamente dall’Onu, e che portarono all’espulsione di oltre 700 000 arabi palestinesi [ 12]. Questi profughi, cui fu impedito di tornare nelle loro case dalle nuove autorità israeliane, furono trasferiti in campi di raccolta improvvisati nei paesi arabi vicini (soprattutto in Giordania e in Libano), che però non erano interessati a una vera politica di integrazione, quanto a farne il motore della causa antisionista.

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Intanto, si costruiva il nuovo Stato israeliano, grazie all’apporto degli ebrei provenienti da tutto il mondo e sotto la guida dell’ebreo polacco David Ben-Gurion, che fu uno dei leader del sionismo socialista. Questa corrente politica immaginava la formazione di una società laica e democratica a partire dal recupero del rapporto con la “terra di Israele” (intesa in senso storico e non religioso). L’utopia del sionismo socialista trovò una concreta realizzazione nel kibbutz (dall’ebraico, “riunirsi”), termine che designa una comunità rigidamente egualitaria, fondata sul lavoro comune nei campi. Tuttavia, alle tendenze laiche e progressiste degli anni Cinquanta e Sessanta, si sostituirono sempre più forti spinte conservatrici e nazionaliste.

La crisi di Suez
Tre anni dopo la sconfitta nella Prima guerra arabo-israeliana, in Egitto un colpo di Stato rovesciò la monarchia, che era al governo dal 1922, anno del riconoscimento dell’indipendenza dall’Impero britannico. Nonostante la formale autonomia da Londra, il re aveva tuttavia mantenuto un rapporto di subordinazione con il Regno Unito, che era azionista di maggioranza del canale di Suez e che non voleva perdere i benefici derivanti dal suo controllo. I malumori si manifestarono pochi anni dopo l’insediamento del re Fuad I, alimentando il successo ottenuto dai movimenti socialisti e ancora di più dal movimento integralista islamico dei “Fratelli musulmani”, fondato nel 1928. Nel 1952 un gruppo di ufficiali dell’esercito costrinse il monarca alla fuga. Tra i loro leader si affermò la figura di Gamal Abdel Nasser, il quale, sotto l’influenza del pensiero socialista, diede una svolta nazionalista e  dirigista al paese. Appena salito al potere, adottò una riforma agraria che prevedeva una ridistribuzione delle terre e represse il movimento dei Fratelli musulmani. Inoltre, non tardò a diventare uno dei grandi sostenitori del panarabismo, una corrente ideologica che auspicava l’unione di tutti i paesi arabi in una federazione ostile al colonialismo occidentale.

Al fine di finanziare la costruzione dell’enorme diga di Assuan sul fiume Nilo, volta a favorire l’agricoltura e la produzione di energia elettrica per l’Egitto, nel 1956 Nasser decise di nazionalizzare il canale di Suez. Questa mossa serviva anche a eliminare una volta per tutte la presenza della Gran Bretagna dagli affari e dal suolo egiziano. Per non perdere il controllo del canale, le forze anglo-francesi, d’intesa con il governo israeliano, organizzarono quindi un intervento militare contro il regime di Nasser. Il 29 ottobre 1956, Israele invase il Sinai e sbaragliò le forze egiziane; due giorni dopo Regno Unito e Francia bombardarono e distrussero al suolo buona parte dell’aviazione egiziana. Tuttavia, il presidente americano Dwight Eisenhower criticò con decisione la politica neocoloniale anglo-francese; l’Unione Sovietica a sua volta minacciò un intervento militare e l’Onu intimò a tutte le parti di adottare immediatamente il “cessate il fuoco”. Dopo che il 5 novembre i paracadutisti anglo-francesi avevano preso il controllo di Port Fuad e Port Said, senza però riuscire a riaprire alla navigazione il canale, le due potenze europee, sotto la pressione di Washington, accettarono la risoluzione dell’Onu e ritirarono le proprie truppe [ 13].

Israele riuscì a raggiungere l’obiettivo di sventare la minaccia militare di Nasser, anche se agli occhi del mondo arabo l’Egitto uscì vincitore politico dal conflitto, essendo riuscito a tener testa alle potenze occidentali.

Con il ritiro delle truppe franco-britanniche dall’Egitto, la crisi di Suez sancì la fine dell’ingerenza esterna neocoloniale da parte delle potenze europee occidentali e di fatto consegnò il controllo del Medio Oriente alle rivali sfere d’influenza di Stati Uniti e Unione Sovietica. Mentre i primi si avvicinarono a Israele e alle monarchie tradizionaliste di Arabia Saudita e Giordania, la seconda strinse alleanza con i regimi arabi radicali, di stampo laicoriformista, di Egitto, Iraq e Siria.

La Guerra dei Sei giorni

A causa della sostanziale vittoria politica di Nasser nella crisi di Suez, Israele vedeva nel presidente egiziano e nella diffusione del panarabismo una grande minaccia per la sua esistenza.

Nel giugno 1967, di fronte all’eventualità di una guerra preventiva da parte israeliana, Nasser, con il sostegno di una coalizione che comprendeva Siria, Giordania e Iraq, lanciò un attacco sulla penisola del Sinai. Tuttavia, nelle prime ore di guerra, l’aviazione israeliana distrusse al suolo larga parte di quella egiziana, parte di quella siriana e del tutto quella giordana, infliggendo un duro colpo alle possibilità di manovra dei paesi arabi per un conflitto nel deserto. Grazie al dominio nei cieli, l’esercito israeliano, sotto la guida del generale Moshe Dayan, occupò rapidamente e senza incontrare resistenze la penisola del Sinai e la striscia di Gaza in territorio egiziano, le alture del Golan in quello della Siria, la Cisgiordania e Gerusalemme Est sottraendole alla Giordania. Il conflitto, divenuto noto come “Guerra dei Sei giorni” perché durò dal 5 al 10 giugno 1967, consentì a Israele di impadronirsi di Gerusalemme, la “Città Santa” delle tre religioni monoteiste (ebraica, cristiana e musulmana) e rivendicata come capitale da israeliani e palestinesi [ 14].

Per cercare di far fronte alla crisi, fu necessario l’intervento dell’Onu che, nel novembre 1972, approvò la risoluzione 242, formalmente accettata da Israele, Egitto e Giordania (dalla Siria solo nel 1973), ma rigettata dai palestinesi. Secondo questo accordo era prevista la restituzione dei territori occupati da Israele ai paesi arabi in cambio del riconoscimento da parte di questi ultimi dello Stato ebraico, secondo la formula “terra in cambio di pace”; i palestinesi, però, non videro riconosciuto il diritto al ritorno nelle case che erano stati costretti ad abbandonare dopo la Prima guerra arabo-palestinese. Anche per questo, le varie parti coinvolte nel conflitto negli anni seguenti furono incapaci di definire un accordo e di concludere un trattato di pace.

Storie. Il passato nel presente - volume 3
Storie. Il passato nel presente - volume 3
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