11.5 L’ascesa del Terzo mondo

11.5 L’ascesa del Terzo mondo

La decolonizzazione e la Guerra fredda
Le due superpotenze, Stati Uniti e Unione Sovietica, si richiamavano a due ideologie opposte, la democrazia e il comunismo, ma accomunate dal rifiuto del vecchio colonialismo europeo. Privi di significativi possedimenti coloniali, esse erano disponibili a offrire risorse economiche e appoggio politico ai nuovi Stati indipendenti, che andavano formandosi con la dismissione degli imperi marittimi europei. Nella logica della Guerra fredda e delle sfere d’influenza [▶ cap. 10.3-10.4], che escludeva un confronto diretto tra le superpotenze, queste tendevano infatti a combattersi attraverso l’intromissione nella politica degli Stati di recente indipendenza: gli Stati Uniti si limitarono a intervenire con politiche di sostegno militare ed economico in chiave di contenimento della minaccia comunista, secondo i criteri della “dottrina Truman”, poi sviluppata da Eisenhower; l’Unione Sovietica di Chruščëv invece promosse e sostenne i movimenti anticoloniali, che Stalin aveva ignorato o trascurato, presentandoli come una componente fondamentale di una nuova rivoluzione anticapitalista. Da parte loro, molti paesi appena liberati si ispirarono a uno statalismo di stampo sovietico, adottando vaste misure di nazionalizzazione e ampie forme di pianificazione e controllo dei settori chiave dell’economia. I funzionari delle vecchie amministrazioni coloniali furono in gran parte rimossi, mentre si formavano nuove classi dirigenti.

I processi di decolonizzazione dei paesi del Terzo mondo sembravano dunque tutt’altro che conclusi con le dichiarazioni di indipendenza e con la fine formale del dominio coloniale da parte delle potenze europee. In questa fase le interferenze nelle scelte politiche e lo sfruttamento economico delle ex colonie si tradussero in un vero e proprio “neocolonialismo”, ma si trattò di un fenomeno relativamente circoscritto nel tempo. Infatti, nel corso degli anni Sessanta i sistemi democratici e parlamentari, costituiti sull’onda delle proclamazioni di indipendenza, furono in molti casi velocemente sostituiti da nuove forme dittatoriali.

Con il sostegno dell’esercito e spesso con l’appoggio politico e militare dell’Unione Sovietica, leader come Muammar Gheddafi in Libia, Houari Boumedienne in Algeria, Jean-Bedel Bokassa nella Repubblica centrafricana, Hailè Mariàm Menghistu in Etiopia conquistarono il potere, abolirono i sistemi pluripartitici e scatenarono la repressione contro le forze d’opposizione. Molti di questi dittatori, grazie a sistemi fondati sulla corruzione e sullo sfruttamento privatistico delle risorse nazionali, accumularono enormi ricchezze, lasciando nella miseria vastissimi segmenti della società.

Terzo mondo e “non allineati”
I paesi che si stavano emancipando dal dominio coloniale erano identificati sempre più frequentemente, come ricordato in apertura di capitolo, con la formula Terzo mondo, in opposizione al “primo mondo” capitalista e al “secondo mondo” socialista. Sottraendosi alla logica bipolare della Guerra fredda, essi cominciarono quindi ad elaborare nuove forme di coordinamento e di organizzazione comune. La Conferenza di Bandung (Indonesia) dell’aprile 1955 riunì 29 Stati africani e asiatici che corrispondevano, dal punto di vista dell’estensione territoriale, a un quarto del globo, costituivano circa metà della popolazione mondiale (1,3 miliardi di persone), ma possedevano solo l’8% del reddito mondiale.

La conferenza sottoscrisse una dichiarazione [▶ FONTI, p. 463]. per la pace e per il disarmo internazionale; approvò il principio di autodeterminazione dei popolidi non ingerenza negli affari interni dei singoli Stati; espresse una ferma condanna del colonialismo «in tutte le sue manifestazioni», includendo implicitamente nella definizione anche le politiche delle superpotenze statunitense e sovietica. Con una risoluzione del 1960, che traeva ispirazione da queste istanze, le Nazioni Unite dichiararono il colonialismo «una violazione dei diritti fondamentali dell’uomo».

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Molti degli Stati che parteciparono alla Conferenza di Bandung guardavano con simpatia al socialismo e si ispiravano al modello sovietico, anche se rifiutavano di aderire alla logica del conflitto bipolare. Un ruolo importante in questo senso fu svolto dal presidente iugoslavo Tito, che aveva rotto i rapporti con Stalin nel 1948 e che, nonostante la ripresa del dialogo politico avvenuta con Chruščëv [▶ cap. 10.5], seguiva ormai una propria via al socialismo e promuoveva una politica estera neutrale, che prevedeva il rifiuto a schierarsi con una delle due superpotenze. Durante la Conferenza di Belgrado, nel settembre 1961 si costituì formalmente il movimento dei paesi “non allineati”, guidato dalla Iugoslavia di Tito, dall’India di Nehru e dall’Indonesia di Sukarno. L’India in particolare, nonostante fosse impegnata in gravi conflitti contro il Pakistan per il controllo del Kashmir e contro la Cina per il Tibet, figurò tra i maggiori promotori di un ordine internazionale pacifico e stabile, segnato dall’ascesa di nuove potenze e dal tentativo di superare le divisioni della Guerra fredda.

L’India di Nehru
Dopo aver proclamato l’indipendenza dal Regno Unito il 15 agosto 1947, l’India continuò a far parte del Commonwealth britannico in qualità di dominion indipendente fino alla proclamazione della Repubblica indiana nel 1950. Successivamente fu avviato un imponente processo di costruzione di uno Stato federale e democratico moderno, che si ispirava però, al tempo stesso, al modello sovietico di sviluppo economico statalista e dirigista. Il vero protagonista in questa fase fu Pandit Jawaharlal Nehru, un avvocato formatosi in Gran Bretagna, già leader indipendentista vicino a Gandhi. La Costituzione indiana, approvata nel novembre 1949 ed entrata in vigore nel gennaio 1950, aboliva formalmente tutto il sistema delle  caste, proclamava la neutralità dello Stato rispetto alle religioni, prevedeva un assetto al tempo stesso centralistico (dal punto di vista economico e amministrativo) e federale (soprattutto dal punto di vista fiscale), nonché il rispetto delle numerosissime minoranze linguistiche.

Le prime elezioni libere, che si tennero nel 1952, costituirono il più ampio esperimento di partecipazione democratica fino ad allora mai realizzato nel paese (oltre 105 milioni di elettori) e sancirono la netta vittoria del Congresso nazionale indiano. Nel 1956 il parlamento approvò quindi un progetto di riorganizzazione istituzionale che si ispirava agli assetti multinazionali dell’Urss e della Iugoslavia: l’India, un subcontinente multilinguistico, fu suddivisa in entità amministrative modellate appunto sui confini linguistici del paese. Nehru in realtà era contrario a questo progetto (che risaliva al 1917) temendo che potesse spezzare l’unità nazionale, ma esso fu comunque approvato sull’onda dell’entusiasmo popolare.

Dal punto di vista economico l’India era ancora un paese agricolo, in cui i tre quarti della popolazione erano costituiti da contadini che si trovavano spesso in condizioni di grave indigenza. Nonostante l’agricoltura fornisse ben oltre la metà del reddito nazionale, le tecniche di produzione erano arcaiche e quanto mai differenziate a seconda delle regioni. Per migliorare la produzione agricola e stabilire nuovi criteri di giustizia sociale nelle campagne, fin dalla proclamazione dell’indipendenza le autorità statali realizzarono un’imponente riforma agraria. Furono perciò abolite le figure di mediazione, ridistribuiti milioni di ettari di terra delle grandi proprietà e incoraggiate forme di cooperazione tra i nuovi contadini proprietari. Poi, dai primi anni Sessanta, furono applicati nuovi metodi di coltivazione, nell’ambito di quella che nel 1968 sarebbe stata battezzata “rivoluzione verde” [▶ fenomeni]. Più efficienti forme di irrigazione, nuove tecniche di selezione artificiale delle piante e l’uso sistematico di diserbanti e pesticidi consentirono di aumentare esponenzialmente la quantità dei cereali a disposizione della popolazione e di garantire l’autosufficienza alimentare dell’India.

Nel 1952 Nehru lanciò il primo piano quinquennale che mirava a conferire, sotto il controllo statale, un potente impulso alla costruzione di impianti industriali, di infrastrutture e di reti di comunicazione. In particolare, il varo di misure protezioniste incentivò l’espansione dell’industria pesante, che consentì almeno sulla carta non solo di raggiungere, ma di superare gli obiettivi prefissati dalla pianificazione. Il secondo piano quinquennale, varato nel 1956, spinse il paese verso l’industrializzazione a tappe forzate, grazie a un ruolo più diretto dell’autorità statale e in una prospettiva direttamente socialista. Il terzo piano quinquennale, avviato nel 1961, prevedeva, oltre all’incremento degli obiettivi di produzione agricola e industriale, la socializzazione dell’agricoltura attraverso la creazione di un sistema cooperativo controllato dallo stato, ma l’opposizione degli strati contadini benestanti ne vanificò in larga misura la realizzazione [ 15].

Alla morte di Nehru, nel 1964, salì al governo sua figlia Indira Gandhi (Gandhi era il cognome del marito, che non aveva però alcuna parentela con il Mahatma). Al potere fino al 1977 e poi dal 1980 al 1984 (quando fu assassinata) Indira proseguì la modernizzazione del paese su binari più autoritari, centralistici e filosovietici di quanto avesse fatto Nehru: furono promossi tre nuovi piani quinquennali, la rivoluzione verde e l’adozione di politiche di nazionalizzazione delle banche e di ridistribuzione economica (misure a tutela dei più indigenti e indebitati e programmi di edilizia pubblica per i disoccupati), senza però riuscire a sradicare la povertà. L’espansione del settore pubblico culminò nel 1976 con la proclamazione ufficiale del socialismo di Stato, mentre si acuivano i conflitti con alcuni degli Stati e delle minoranze religiose e linguistiche che componevano l’India. Sul piano della politica estera, l’India di Indira Gandhi avviò rapporti più stretti con l’Unione Sovietica e rafforzò il ruolo di potenza regionale, consolidato dalla sperimentazione della prima bomba atomica indiana nel 1974.

FONTI

Dichiarazione conclusiva della Conferenza di Bandung

Questo è un estratto della dichiarazione finale della Conferenza di Bandung, che si tenne nella capitale indonesiana tra il 18 e il 24 aprile 1955. La dichiarazione, che fu sottoscritta da 29 paesi africani e asiatici (tra i quali Indonesia, India e Cina), riassumeva in dieci famosi punti conclusivi una visione dell’ordine globale alternativa a quella proposta dalle due superpotenze, Stati Uniti e Unione Sovietica.

La conferenza ha rivolto con ansia un pensiero alla questione della pace e della cooperazione nel mondo. [...] Il problema della pace è correlato al problema della sicurezza internazionale. In questa connessione, tutti gli Stati dovrebbero cooperare, soprattutto attraverso le Nazioni Unite, nel determinare la riduzione degli armamenti e l’eliminazione delle armi nucleari sotto un effettivo controllo internazionale. [...] Questo aiuterebbe a rispondere ai bisogni soprattutto dell’Asia e dell’Africa, perché ciò che urgentemente richiedono sono progresso sociale e migliori condizioni di vita in più ampia libertà. Libertà e pace sono interdipendenti. Il diritto di autodeterminazione deve essere goduto da tutti i popoli, e la libertà e l’indipendenza devono essere concessi, con il minor ritardo possibile, a quei popoli che sono ancora dipendenti. Davvero, tutte le nazioni dovrebbero avere il diritto di scegliere liberamente i loro sistemi politici ed economici e il loro stile di vita, in conformità agli obiettivi e ai principi della Carta delle Nazioni Unite1. [...]


1. Rispetto per i diritti umani fondamentali e per gli scopi e i principi della Carta delle Nazioni Unite.

2. Rispetto per la sovranità e per l’integrità territoriale di tutte le nazioni.

3. Riconoscimento dell’eguaglianza di tutte le razze e dell’eguaglianza di tutte le nazioni grandi e piccole.

4. Astensione da interventi o interferenze negli affari interni di un altro paese.

5. Rispetto per il diritto di ogni nazione a difendersi singolarmente o collettivamente, in conformità con la Carta della Nazioni Unite.

6. (a) Astensione dall’uso di strumenti di difesa collettiva per servire gli interessi particolari di una delle grandi potenze. (b) Astensione da parte di qualsiasi paese dall’esercitare pressioni su altri paesi.

7. Trattenersi da atti o minacce di aggressione o dall’uso della forza contro l’integrità territoriale e l’indipendenza politica di qualsiasi paese.

8. Risoluzione di tutte le dispute internazionali con mezzi pacifici, come il negoziato, la conciliazione, l’arbitrato o la composizione giudiziaria così come altri mezzi pacifici a scelta delle parti, in conformità con la Carta delle Nazioni Unite.

9. Promozione di mutui interessi e cooperazione.

10. Rispetto per la giustizia e gli obblighi internazionali.

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  fenomeni

La rivoluzione verde

La rivoluzione verde in agricoltura prese le mosse in Messico a partire dalla metà del XX secolo. Grazie al successo delle tecniche di selezione artificiale, capaci di creare nuove varietà ibride di piante esportate in tutto il mondo tra anni Cinquanta e Sessanta, essa consentì un eccezionale incremento della produzione agricola di prodotti alimentari (grano, riso e mais, tra gli altri). Anche per mezzo di fertilizzanti efficienti, di potenti sistemi di irrigazione e di nuovi sementi ibride, la rivoluzione verde creò così le condizioni materiali per ridurre in modo significativo la possibilità di carestie e di nutrire una più ampia fascia di popolazione mondiale, costantemente in aumento nei paesi in via di sviluppo.

Alle sue origini vi fu il lavoro di Nazareno Strampelli, un agronomo e genetista italiano che fin dall’inizio del secolo sperimentò l’ibridazione del grano e che con le sue scoperte per migliorare la produttività cerealicola rese quasi del tutto autosufficiente la produzione italiana di pane, contribuendo al successo della “battaglia del grano” di Mussolini.

Tuttavia, il principale artefice della rivoluzione verde è considerato il genetista americano Norman Borlaug (premio Nobel per la pace nel 1970), il quale cercò di massimizzare le rese di grano e mais da parte delle fattorie messicane. L’uso di innovative tecnologie agricole, di pesticidi e di fertilizzanti fu poi esportato negli anni Sessanta, attraverso gli Stati Uniti, verso altri paesi, a partire dall’India e dal Pakistan.

Benefici e danni

Nei due decenni successivi, grazie anche a un notevole sforzo di ricerca e di collaborazione internazionale, la produzione di cereali più che raddoppiò a livello mondiale, migliorando in modo significativo le condizioni alimentari soprattutto nel Sudest asiatico, mentre nell’Africa subsahariana la crescita fu inferiore. La selezione delle specie di riso ad alto rendimento sottrasse le popolazioni dell’India e della Cina alla condizione di sottonutrizione e al rischio della fame.

Nonostante i grandi benefici, la rivoluzione verde è stata messa sotto accusa perché ha moltiplicato la domanda di petrolio (finalizzato alla meccanizzazione dell’agricoltura e all’uso dei fertilizzanti) e di infrastrutture per il trasporto e il commercio dei prodotti agricoli, nonché ha alterato gli equilibri degli ecosistemi, provocando gravi forme di inquinamento, di sfruttamento troppo intensivo di risorse e di riduzione delle falde acquifere.

11.6 La rivoluzione cinese

La guerra civile
L’occupazione giapponese della Cina durante la Seconda guerra mondiale fu un’esperienza catastrofica. I nazionalisti e i comunisti, dopo essere stati alleati in funzione antigiapponese durante la Seconda guerra mondiale [▶ cap. 6.6], non erano riusciti a raggiungere un accordo politico e, già alla fine della guerra, avevano ripreso a combattersi fra loro per contendersi il controllo di territorio e risorse nella Cina settentrionale e in Manciuria. Nel 1945 il Guomindang, il partito nazionalista cinese guidato da Chiang Kai-shek, con il sostegno logistico statunitense, si impadronì delle regioni che fino ad allora erano state occupate dal Giappone, con l’eccezione della Manciuria, che fu conquistata dall’Armata rossa. Qui i sovietici impiantarono la base del Partito comunista cinese guidato da Mao Zedong, anche se sui loro rapporti gravava la memoria della disfatta che i comunisti cinesi avevano subito a Shangai nel 1927, a seguito del mancato sostegno sovietico.

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Nel 1946, proprio in Manciuria ebbe inizio la guerra civile, che si estese poi al resto del territorio cinese e provocò fra i 2 e i 3 milioni di morti. Sotto il comando del generale Lin Biao, le truppe comuniste organizzate nell’Esercito popolare di liberazione acquisirono nel 1947 il controllo dell’intera Cina settentrionale, sgominando le forze del Guomindang. Le sorti della guerra civile furono decise nel corso dell’anno successivo, quando l’esercito di Chiang Kai-shek, ormai privo di appoggio americano, perse quasi un milione di uomini e le truppe comuniste dilagarono verso la Cina nordoccidentale, centrale e orientale. Il 1° ottobre 1949 fu fondata la Repubblica popolare cinese (Rpc) [ 16], di cui diventò presidente Mao Zedong, mentre Chiang Kai-shek si ritirava in esilio a Taiwan, dove fondò la Repubblica cinese: questi fu riconosciuto dal mondo occidentale e dalle Nazioni Unite come il solo legittimo rappresentante del governo cinese fino al 1971.

La politica estera della neonata Rpc
Anche dopo la formale vittoria dei comunisti cinesi, i sovietici continuarono ad essere diffidenti nei loro confronti. La visita a Mosca del presidente Mao nel dicembre 1949, in occasione del settantesimo compleanno di Stalin, sancì l’alleanza tra i due paesi e un avvicinamento cinese verso il modello sovietico, ma i rapporti fra l’Unione Sovietica e la Repubblica popolare cinese rimasero difficili.

Ricollegandosi alle tradizioni imperiali cinesi, il nuovo regime comunista ampliava intanto il proprio controllo territoriale, occupando il Xinjiang e la Mongolia interna e facendo del Tibet una “regione nazionale autonoma” della Cina [ 17]. Mao cercò di districarsi fra gli schieramenti della Guerra fredda, proclamandosi tra i nemici del capitalismo e dell’imperialismo occidentale, ma senza subordinarsi alle pretese sovietiche di monopolio sul campo comunista.

Il primo significativo ruolo della Cina di Mao in politica estera fu svolto poco dopo la sua fondazione con la partecipazione, sia pur non dichiarata ufficialmente, di mezzo milione di “volontari” a sostegno dell’esercito nordcoreano [▶ cap. 10.4]. Questa mossa inasprì le relazioni con gli Stati Uniti, che Mao aveva definito fin dal 1946 «tigri di carta», alludendo allo scarto fra la propaganda bellicosa di Washington e la sua prudenza politica.

Mao infatti accolse con ostilità il discorso di Chruščëv al XX Congresso del Pcus del 1956 [▶ cap. 10.5], soprattutto nel timore che le critiche nei confronti dello stalinismo potessero in futuro rivolgersi contro il suo stesso potere assoluto e personalistico. Ulteriori divergenze riguardavano la politica estera dei due Stati: Mao era scettico verso la disponibilità alla distensione ostentata da Chruščëv, tanto che in un noto discorso del 1957 il presidente cinese affermò che, in caso di guerra atomica, la Cina sarebbe stata pronta a sostenere perdite altissime.

11.7 Il “Grande balzo in avanti” della Cina

Collettivizzazione, repressione, industrializzazione
I comunisti cinesi erano consapevoli del ritardo nello sviluppo del loro paese e intendevano rapidamente colmare il divario con le grandi potenze industriali. A partire dal 1950-51 il governo adottò una radicale riforma agraria, che riguardò la stragrande maggioranza della popolazione  (al 95% rurale) e che si articolò in tre fasi di collettivizzazione : la realizzazione di squadre di mutuo soccorso, l’organizzazione di cooperative agricole elementari e infine la costituzione di cooperative superiori [ 18]. L’applicazione della riforma agraria collettivista incontrò veementi resistenze da parte dei proprietari terrieri che furono stroncate con la violenza. Però, nonostante il regime predicasse l’annientamento delle differenze di classe e l’uguaglianza integrale dei cittadini, la collettivizzazione non cancellò una forte differenziazione regionale del paese e ne danneggiò l’agricoltura.

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Nel 1953-57 il Partito comunista cinese lanciò un primo piano quinquennale sul modello sovietico, con l’obiettivo di bruciare le tappe della modernizzazione industriale attraverso lo sviluppo intensivo dell’industria pesante. Le grandi industrie furono completamente statalizzate, mentre le medie e piccole imprese furono riunite in cooperative: il settore privato fu eliminato quasi completamente. Intanto, tra 1949 e 1960, si verificò un enorme trasferimento di popolazione dalle campagne alle città.

Fin dalle prime riforme agrarie, le autorità statali ordinarono la costituzione di “gruppi di lavoro” guidati da quadri di partito, che si incaricarono di perseguire i proprietari terrieri e i reazionari o nemici di classe come vecchi o presunti sostenitori del Guomintang avviando vaste campagne terroristiche di massa. La repressione si estese anche alle città, che dovevano essere purificate da ogni residuo del vecchio regime, inasprendosi in modo particolare durante la guerra di Corea. Chiunque fosse definito “nemico della rivoluzione” era condotto, nella maggior parte dei casi senza un’accusa precisa, e rinchiuso nei laogai per la rieducazione attraverso il lavoro. Questi campi erano concentrati soprattutto nelle regioni remote del Tibet, della Mongolia, del Xinjiang e del Qinghai, lontani da qualsiasi contatto con le zone metropolitane. Si calcola che quasi 50 milioni di cinesi siano passati attraverso gli oltre 1000 laogai dispiegati sul territorio e si stima che le vittime siano state fra i 10 e i 20 milioni nel periodo maoista.

La campagna dei cento fiori
Verso la fine del 1956 Mao lanciò una stagione di liberalizzazione culturale nota come “campagna dei cento fiori”, da una frase da lui pronunciata: «lasciare che cento fiori fioriscano, che cento scuole di pensiero gareggino fra loro». Il regime parve così concedere agli intellettuali cinesi uno spazio di libertà d’espressione e la possibilità di manifestare il proprio giudizio sull’esperimento comunista. Ma la campagna dei cento fiori, avviata in concomitanza con la destalinizzazione di Chruščëv, ebbe come risultato quello di far emergere il dissenso al regime. Quando, tra maggio e giugno del 1957, milioni di lettere di protesta giunsero alla sede centrale del partito e si moltiplicarono le critiche degli intellettuali nei confronti di Mao e del regime comunista, Mao decise di colpire.

In luglio fu dichiarata finita la campagna dei cento fiori, proprio mentre la “campagna antidestra” era lanciata sotto la guida di Deng Xiaoping, veterano del movimento rivoluzionario che aveva partecipato alla Lunga marcia e che negli anni Cinquanta era diventato segretario generale del Partito comunista cinese. In circa due anni, fra il 1957 e il 1959, oltre 500 000 “elementi di destra” – categoria vaga, che includeva tutti i presunti nemici del regime, tra i quali soprattutto gli intellettuali – furono arrestati, giustiziati o deportati nei laogai.

Il “Grande balzo in avanti”
Con lo slogan del “Grande balzo in avanti” fu indicato il processo che doveva trasformare la Cina in un paese moderno, attraverso un secondo piano quinquennale che riguardava tanto l’industria quanto l’agricoltura. Lanciato nel gen naio 1958 , anche se era stato concepito fin dall’autunno dell’anno precedente, il piano sconvolse l’esistenza di centinaia di milioni contadini. Questi, privati delle loro proprietà – compresi i piccoli appezzamenti familiari che garantivano la sopravvivenza – e strappati alla vita famigliare, furono costretti a entrare nelle nuove “comuni popolari” o furono mobilitati in grandi opere collettive. Alle comuni furono associate mense collettive che sprecavano quantità ingenti di risorse alimentari. Pur rifiutandosi di ricorrere ad esperti e tecnici, disprezzati per il loro “intellettualismo borghese”, le autorità comuniste esercitavano sulle campagne una pressione sempre più intensa perché s’incrementasse la produzione di grano, con il duplice obiettivo di rifornire le città e di destinarne una quota all’ esportazione, con i cui proventi intendevano finanziare l’industria.

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Contemporaneamente, per ovviare ai limiti strutturali della produzione industriale di acciaio, vennero creati “altoforni da cortile” in cui gli stessi contadini, con metodi artigianali e senza alcuna competenza, cercavano di produrre acciaio [ 19]. I beni dei contadini, in legno e in ferro, furono requisiti e utilizzati per produrre acciaio, che si rivelò prevedibilmente di scarsissima qualità e del tutto inutilizzabile.

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In questo modo, circa 60 milioni di contadini sottrassero tempo e risorse alla coltivazione dei campi con una scelta politica che compromise gravemente la produzione agricola, anche se il raccolto dell’estate 1958 sarebbe potuto essere buono, grazie alle favorevoli condizioni meteorologiche. Nel momento in cui il cibo cominciò a scarseggiare nelle campagne, circa 30 milioni di contadini cercarono di fuggire nelle città, nonostante fosse già stato introdotto, imitando ancora una volta l’esempio sovietico [▶ cap. 6.2], un passaporto interno che mirava a limitare questo tipo di spostamenti. Per far fronte all’emergenza alimentare fu quindi sospesa l’iniziativa degli altoforni da cortile e i contadini furono riportati ai lavori agricoli: milioni di agricoltori che avevano trovato rifugio nelle città furono espulsi e deportati nei campi da lavoro.

Le carestie
Il “Grande balzo in avanti” si rivelò ben presto un totale disastro economico, che tra il 1959 e il 1961 si tradusse nella più catastrofica carestia della storia umana: le stime delle vittime oscillano tra un minimo di 23 milioni a un massimo di 55 milioni. L’anno più tragico fu il 1960, quando si suppone siano morti circa 20 milioni di persone. I contadini non erano più in grado di soddisfare le richieste di raccolto che le autorità imponevano con pressioni crescenti e furono oggetto di brutali requisizioni e di violenze di ogni sorta. A differenza di quanto era accaduto nell’Unione Sovietica del 1932-33, quando Stalin aveva utilizzato la fame per piegare la resistenza dei contadini ucraini [▶ cap. 6.2], l’esito terribile della carestia cinese non fu il frutto di una scelta deliberata, ma fu comunque la conseguenza delle politiche di Mao di accelerata collettivizzazione e industrializzazione. Esse si combinarono con la “campagna per l’eliminazione dei quattro flagelli” (topi, mosche, zanzare e passeri), che contribuì a creare un grave squilibrio ambientale nelle campagne. Per di più, durante la carestia la Cina continuò a esportare grano e a negare il gravissimo problema alimentare interno, rifiutando così gli aiuti internazionali che avrebbero permesso di alleviare le sofferenze della popolazione civile. 

Un primo dibattito sul “Grande balzo in avanti” si svolse alla Conferenza di Lushan, nel luglio-agosto 1959. Nonostante il malcontento fosse ormai diffuso fra i dirigenti cinesi, fu solo Peng Dehuai, ministro della Difesa, a pronunciarsi criticamente verso Mao. Fu quindi sostituito da Lin Biao, che epurò l’Esercito popolare di liberazione dai critici del regime, mentre Liu Shaoqui rimpiazzava alla presidenza della Repubblica popolare Mao, che rimaneva alla guida del Pcc. Deng Xiaoping e Liu Shaoqui spinsero poi Mao a una sorta di autocritica, assumendo di fatto le redini del partito e adottando una nuova linea politica: la collettivizzazione fu ridimensionata e le piccole proprietà di terra furono ripristinate. Tuttavia, Mao nutriva ormai una diffidenza crescente verso le aperture della nuova dirigenza e covava propositi di rivalsa.

11.8 La rivoluzione culturale maoista

L’eredità politica delle carestie
 Fin dal 1960 il Partito comunista cinese cercò di far fronte alle terribili carestie, riconsiderando alcune politiche del “Grande balzo in avanti”, autorizzando la ripresa delle importazioni di grano dai paesi occidentali e riabilitando le vittime delle epurazioni. Nel gennaio 1962 , di fronte a migliaia di delegati del partito radunati a Pechino, Liu Shaoqui denunciò le responsabilità umane delle carestie, che invece Mao imputava a cause naturali, mettendo di fatto sotto accusa le politiche di Mao. Insieme a Deng Xiaoping, operò quindi per assicurare al paese una forma più graduale di trasformazione collettivista, dopo i sanguinosi esperimenti degli anni precedenti.

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Tuttavia, Mao era fermamente contrario ad ammettere errori nella guida rivoluzionaria del paese, combatté perciò il riformismo e il revisionismo, che erano considerati di per sé controrivoluzionari, sostenendo invece lo slogan “mai dimenticare la lotta di classe”. Nel 1962 lanciò quindi la “campagna per l’educazione socialista” con l’approvazione di Liu Shaoqui e Deng Xiaoping, che, da parte loro, aspiravano a mostrare la loro lealtà al capo, nonostante le critiche mosse nei suoi confronti. Questo nuovo indirizzo politico spinse vaste masse di giovani studenti a combattere la corruzione del partito e a «imparare dai contadini». Si trattò della prova generale di una nuova linea intransigente, con cui Mao mirava a espellere i quadri del partito che erano accusati, o erano semplicemente sospettati, di slealtà, facendo leva sulle giovani generazioni che provenivano dalle campagne.

La “Grande rivoluzione culturale proletaria”
La rivoluzione culturale promossa da Mao avviò una fase particolarmente violenta, caotica e sanguinosa della Cina comunista e portò a epurazioni di massa. In particolare il leader cinese, in nome della “purezza” ideologica, cercò di eliminare i revisionisti dal Partito comunista cinese, che, alla stregua dei loro principali rappresentanti Liu Shaoqui e Deng Xiaoping, erano condannati come “borghesi” e “capitalisti”. Durata dal 1966 al 1976, anno della morte di Mao, essa costò la vita a un numero di persone comprese tra il milione e mezzo e i due milioni, mentre un numero ben più alto ne fu per sempre segnato sul piano fisico e psicologico.

Nel maggio 1966, il Congresso allargato del Partito comunista cinese avviò una vasta campagna di mobilitazione a sostegno di Mao, il quale inquadrò centinaia di migliaia di giovani all’interno delle “Guardie rosse[ 20]. Queste avevano il compito di diffondere il pensiero politico del leader cinese, raccolto all’interno di un’antologia di citazioni tratte da suoi scritti e discorsi, nota come Libretto rosso [▶ oggetti], che doveva diventare il centro del nuovo e unico sapere rivoluzionario. Per questo motivo furono chiuse scuole e università, considerate depositarie di una cultura ormai superata. Nell’agosto 1966 Mao chiamò le Guardie rosse, supportate dall’esercito guidato da Lin Biao, a «bombardare il quartier generale», ossia a procedere a un attacco all’interno del partito, contro coloro che avevano criticato le politiche di industrializzazione e di collettivizzazione, vale a dire anzitutto Liu Shaoqui e Deng Xiaoping. Entrambi furono travolti dalle violenze della rivoluzione: il primo fu costretto a una pubblica confessione autocritica, prima di essere condotto in un campo di detenzione dove morì nel 1969; il secondo fu più volte sottoposto a metodi violenti di “rieducazione” e infine fu costretto a lavorare in fabbrica.

Fra agosto e novembre 1966, si tennero raduni oceanici in piazza Tienanmen, dove si ritrovarono oltre 12 milioni di studenti e contadini provenienti da ogni regione della Cina. L’obiettivo più generale della rivoluzione culturale era quello di sollecitare l’azione delle masse e di creare il caos, con cui sradicare definitivamente “i quattro vecchi”: le vecchie idee, la vecchia cultura, le vecchie consuetudini e le vecchie abitudini (in particolare, l’influenza dello  scintoismo).

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Per un verso, le violente trasformazioni indotte dalla retorica iconoclasta di Lin Biao, comandante de facto dei rivoluzionari, si concentrarono sulla sfera culturale e religiosa, per provocare una più netta rottura con l’eredità del passato, attraverso la distruzione dei simboli e dei luoghi di culto del confucianesimo e dei monumenti storici, il rogo delle biblioteche e dei libri, la sostituzione dei nomi delle vie e delle piazze. La scala dei saccheggi, delle devastazioni e delle espropriazioni raggiunse proporzioni enormi.

Per altro verso, furono organizzati grandi dibattiti per spingere a denunciare i controrivoluzionari, o per costringere questi ultimi ad autodenunciarsi. Controrivoluzionari erano considerati soprattutto intellettuali, insegnanti e professori, i quali erano accusati e diffamati su manifesti (dazibao) scritti a mano e affissi sui muri delle città [ 21]Sebbene ufficialmente la “lotta verbale” venisse anteposta a quella armata, le azioni diffamatorie degenerarono, con la complicità delle forze militari guidate da Lin Biao, in forme inaudite di violenza, quali torture, assassini, punizioni arbitrarie, arresti sommari, umiliazioni pubbliche e lavori forzati. Nella sola Pechino, fra agosto e settembre 1966, si contarono oltre 1700 omicidi, ma ovunque furono numerose le vittime, fra le quali molte suicide. I componenti delle forze di polizia che si opponevano alla violenza delle Guardie rosse erano a loro volta accusati di essere controrivoluzionari.

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La fortuna in Occidente del Libretto rosso di Mao

Noto in Cina come Citazioni dalle opere di Mao Zedong, il Libretto rosso fu il titolo adottato, per il suo colore e formato, nel mondo occidentale. Esso fu pubblicato per la prima volta nel 1963 con una prefazione di Lin Biao, secondo il quale: «Quando le masse si saranno impadronite del pensiero di Mao Zedong, esso diventerà una inesauribile sorgente di forza, una bomba atomica spirituale di potenza senza pari». Tra le citazioni di Mao, era riportata anche quella più famosa, che sarebbe diventata una delle principali chiavi di legittimazione della militanza rivoluzionaria tra gli anni Sessanta e Settanta: «La rivoluzione non è un pranzo di gala; non è un’opera letteraria, un disegno, un ricamo; non la si può fare con altrettanta eleganza, tranquillità e delicatezza, o con altrettanta dolcezza, gentilezza, cortesia, riguardo e magnanimità. La rivoluzione è un’insurrezione, un atto di violenza con il quale una classe ne rovescia un’altra».

All’apice della popolarità globale di Mao, durante la Rivoluzione culturale (1966-76), il Libretto rosso fu l’opera più pubblicata nel mondo. Secondo le stime, che però non contano le tante riedizioni locali, spesso illegali, ne furono stampate e distribuite oltre 900 milioni di copie e diventò così secondo per diffusione solo alla Bibbia. Un contributo significativo alla circolazione del pensiero di Mao, che esercitò particolare attrazione fra gli intellettuali francesi, fu dato dal film di Jean-Luc Godard, La cinese (1967).

La rivoluzione culturale e lo scontro con l’esercito

Dal febbraio 1967, Lin Biao e Jiang Quin (attrice e rivoluzionaria, nonché quarta moglie di Mao), con l’approvazione dello stesso leader comunista, decisero di estendere le epurazioni all’interno dell’Esercito popolare di liberazione (Epl). Infatti, molti generali, già protagonisti della guerra civile negli anni Quaranta e fedeli a Peng Dehuai, esprimevano riserve e perplessità sui metodi e sugli obiettivi della rivoluzione culturale, lasciando così intendere un atteggiamento critico verso i vertici del Partito e il suo capo. Nonostante l’Epl fosse chiamato a sostenere “la vera sinistra prole taria”, la situazione sfuggì rapidamente al controllo del partito, sempre più diviso in una lotta tra fazioni . Il paese precipitò così in una vera e propria guerra civile , poiché le Guardie rosse iniziarono a impadronirsi delle armi dell’Epl, per eliminare i “nemici del popolo”. Dal settembre 1967 , Mao cercò così di riportare l’ordine e autorizzò , a sua volta, l’Esercito popolare di liberazione ad usare le armi contro le Guardie rosse per riaffermare l’autorità statale, dando il via ad una repressione che si dispiegò nel corso del 1968.

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La conclusione della rivoluzione culturale fu sancita dall’XI Congresso del Partito comunista cinese, che si tenne nell’aprile 1969 e che decretò il nuovo ruolo egemone di Lin Biao, quale vicecomandante di Mao e suo successore. Solo un anno dopo, Mao cominciò a diventare insofferente nei confronti del crescente potere di Lin, il quale però si rifiutò di fare autocritica di fronte alla conferenza del partito, acutizzando così la sua rottura con il capo. Nel settembre 1971, Lin perse la vita in un misterioso incidente aereo, probabilmente a causa di un sabotaggio a suo danno, riaprendo così la corsa alla successione del leader cinese.

Il confronto con l’Urss
Nel corso degli anni Sessanta, i rapporti tra Cina e Unione Sovietica si fecero sempre più tesi. Da un lato, la competizione ideologica si era inasprita dopo il Congresso del 1956, che aveva posto il problema della destalinizzazione e aveva sollecitato la ricerca di un diverso modello socialista; dall’altro, si erano contrapposte le aspirazioni territoriali in Manciuria, già contesa tra l’Impero cinese e quello russo fin dall’inizio del secolo [▶ cap. 1.2].

Come abbiamo visto, Mao diffidava di Chruščëv, delle sue posizioni “revisioniste” e delle sue tendenze alla coesistenza pacifica con gli Stati Uniti. Proprio per la poca risolutezza che il primo imputò al secondo nell’affrontare gli Usa durante la crisi dei missili a Cuba – come vedremo – la Cina ruppe le relazioni diplomatiche con l’Unione Sovietica nel 1962; quindi, dopo aver sperimentato nel 1964 la sua prima bomba atomica, la Rpc cominciò ad affacciarsi sulla scena internazionale con maggiore determinazione e autonomia. Sia la Cina sia l’Urss, però, appoggiarono il Vietnam del Nord nella guerra contro gli Stati Uniti, fornendo imponenti quantità di aiuti e armi ai guerriglieri comunisti vietcong.

I ripetuti scontri di una certa gravità, verificatisi nella zona di confine fra Cina e Unione Sovietica lungo il fiume Ussuri, spinsero i due paesi sull’orlo della guerra aperta, fra marzo e settembre del 1969. Tuttavia, la crisi si risolse con una formale definizione dei confini sino-sovietici, ponendo fine una volta per tutte alle tensioni che da oltre mezzo secolo caratterizzavano quelle terre di comune interesse strategico.

11.9 Dittature e guerriglie in America Latina

Democratizzazione e reazione

I paesi dell’America Latina non presero parte direttamente alla Seconda guerra mondiale, ma la vittoria degli Alleati avviò un’ondata di democratizzazione. Se nel 1944 solo Uruguay, Cile e Colombia garantivano criteri di partecipazione democratica, nel breve giro di qualche anno, i regimi autoritari [▶ cap. 7.5], ormai screditati, furono abbattuti anche con l’iniziativa delle forze armate. 

Presto però, tra la fine degli anni Quaranta e gli anni Cinquanta, la tendenza alla democratizzazione si invertì e ripresero invece le tendenze dittatoriali degli anni Trenta. Inuovi governi adottarono misure sociali di tipo populista, intrapresero dure politiche di repressione dei movimenti sindacali e ricorsero al nazionalismo per mobilitare la società. Le pulsioni autoritarie che avevano origini interne soprattutto nei grandi paesi come Messico, Colombia, Brasile e Argentina, e che si servivano della retorica anticomunista, furono rafforzate dalla Guerra fredda. Infatti, sfruttando la lontananza geografica e il disinteresse dell’Unione Sovietica per quest’area del mondo, gli Usa incoraggiarono la salita al potere nei paesi latinoamericani di dittature ostili alle forze socialiste e comuniste e ai movimenti sindacali. D’altro canto, gli Stati Uniti inaugurarono una strategia di interferenza sia politica sia economica, anche attraverso le imprese multinazionali, contribuendo a polarizzare le società sudamericane in senso antimperialista.

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Un caso specifico, ma importante, fu rappresentato dall’Argentina, dove i militari, al governo dal 1930 [▶ cap. 7.5], nel 1946 indissero elezioni generali che furono vinte in modo trionfale da Juan Domingo Perón, generale dell’esercito, ex ministro del Lavoro e vicepresidente sotto il regime militare dal 1943 al 1945. Perón fu quindi eletto presidente per due mandati, dal 1946 al 1955, quando fu a sua volta estromesso da un colpo di Stato effettuato da militari conservatori. Al nazionalismo radicale e autoritario Perón associava la volontà di ampliare le basi di massa del regime con una politica attenta alle condizioni dei lavoratori, che furono organizzati in un unico sindacato di Stato. L’ideologia del Perónismo, considerata esempio classico di “populismo”, mirava a seguire una terza via fra l’Occidente liberale e l’Oriente comunista, con l’intento di costruire una comunità organica, priva di conflitti sociali, in cui riforme di stampo socialista si combinavano con una politica corporativista legittimata dal rimando alla tradizione cattolica. All’interno del regime giocò un ruolo importante anche la moglie di Perón, Eva (detta “Evita”), che godette di grande popolarità e si guadagnò la fama di protettrice dei poveri e dei reietti, destinata a protrarsi ben oltre la precoce morte nel 1952 [ 22].

Crescita economica e conflittualità sociale
Fin dal periodo compreso fra le due guerre, nella maggior parte dell’America meridionale si affermò un modello di industrializzazione che mirava a ridurre l’impatto delle importazioni attraverso una produzione volta alla crescita del mercato interno e all’integrazione economica regionale. I regimi autoritari di matrice nazionalista che governavano in numerosi paesi latinoamericani adottarono un sistema che si basava sull’ampio ricorso all’ interventismo statale , al corporativismo e al protezionismo tariffario.

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Peraltro, nonostante la crescita economica sostenuta dall’industrializzazione di alcuni settori, le campagne continuarono a restare nelle mani di grandi latifondisti, inerti e indisponibili alle trasformazioni radicali che sarebbero state necessarie per incrementare la produttività delle terre. I problemi strutturali di lungo periodo erano legati alla presenza di monoculture, ossia grandi regioni e proprietà dedicate esclusivamente alla coltivazione di una sola specie o varietà di piante (caffè, cacao, tabacco, cotone, canna da zucchero, banane). Questa struttura agraria, tipica di paesi sottosviluppati a lungo colonizzati, condizionava pesantemente l’attività commerciale dei paesi dell’America Latina, i quali dipendevano dalle esportazioni di singole categorie di prodotti agricoli.

Il costante aumento della popolazione, dovuto al fatto che si registrò un crollo della mortalità infantile grazie a un generale miglioramento delle condizioni di vita, associato a tassi di natalità molto alti, caratteristici dei paesi in via di sviluppo, spinse vaste masse rurali verso le città in cerca di lavoro. Le aree urbane crebbero così a dismisura, senza che esistessero infrastrutture igieniche, edilizie e servizi di assistenza pronti ad accogliere la nuova popolazione, che spesso era costretta a vivere in brutali condizioni di disagio all’interno di ampie baraccopoli.

Di conseguenza, ai processi di urbanizzazione e industrializzazione – accelerati durante gli anni Quaranta soprattutto nelle economie più robuste (come Argentina, Brasile, Messico) – si accompagnarono tensioni e conflitti sociali sempre più aspri, per rivendicare il miglioramento dei salari e l’estensione dei diritti sociali. Più che i partiti socialisti e comunisti, in questa nuova fase di ampliamento della partecipazione delle masse si distinsero i sindacati, che accrebbero in misura notevole il numero dei loro iscritti e militanti. La conflittualità sociale esplose infine negli anni Sessanta, quando emersero i problemi legati a uno sviluppo impetuoso ma contraddittorio, incapace di garantire condizioni di vita decorose alla maggior parte della popolazione.

Il momento rivoluzionario
Nel corso degli anni Sessanta, i giovani trasferitisi nelle città e che erano costretti a vivere in baracche, insieme a quelli che avevano potuto intraprendere gli studi universitari, abbracciarono un radicalismo che non esitava a professare la necessità della lotta armata contro le dittature in nome di un intreccio ideologico di marxismo e nazionalismo. La chiave fondamentale di questa nuova spinta rivoluzionaria era la lotta contro l’imperialismo, che alimentava la mobilitazione sociale e la violenza politica contro i simboli del potere americano (in particolare, le aziende multinazionali).

Fermenti radicali e  palingenetici maturarono anche all’interno del cattolicesimo, sull’onda delle profonde innovazioni morali e liturgiche della Chiesa e spinsero correnti pur minoritarie del mondo cattolico ad aprirsi alla partecipazione e alla militanza politica facendo proprie prospettive classiste e antimperialiste. La versione più estrema e conseguente di questo anticapitalismo cattolico trovò espressione in una corrente di pensiero chiamata “Teologia della liberazione”, che fu elaborata dal teologo peruviano Gustavo Gutierrez e teorizzata dalla II Conferenza episcopale latinoamericana tenutasi a Medellin, capitale della Colombia, nel 1968. Tuttavia, le alte gerarchie ecclesiastiche, spesso compromesse con i regimi dittatoriali, guardarono con crescente sospetto queste correnti innovatrici, che finirono con l’essere emarginate.

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La rivoluzione castrista e la sua eco regionale

Cuba si era emancipata dal controllo spagnolo nel 1898, ma continuava a essere centro di grandi tensioni politiche a causa delle forti interferenze statunitensi. Dal 1952 era governata dal dittatore Fulgencio Batista, che aveva stretto legami con gli Stati Uniti e che aveva rotto i rapporti con l’Unione Sovietica. Alla questione nazionale si legava il problema dello sfruttamento intensivo delle piantagioni di canna da zucchero, che aveva degradato i contadini in braccianti stagionali, spesso disoccupati, costringendo in condizione di povertà e malessere la maggior parte della popolazione.

Un movimento di ribellione armata di ispirazione socialista emerse a partire dal luglio 1953 sotto la guida del capo carismatico Fidel Castro, che combatteva insieme al rivoluzionario argentino Ernesto “Che” Guevara. La prima azione fu l’assalto alla caserma Moncada, a Santiago de Cuba [ 23]; il movimento rivoluzionario, inizialmente concentrato sulla Sierra Maestra (nella parte sudorientale di Cuba) successivamente si estese all’intera isola e il 1° gennaio 1959 conquistò la capitale, L’Avana. Fu quindi instaurato il nuovo governo rivoluzionario, che mirava a interrompere ogni influenza statunitense sull’isola. Castro procedette alla nazionalizzazione integrale delle industrie e al varo di una riforma agraria, assumendo il pieno controllo statale dell’economia, pur senza adottare immediatamente il modello sovietico.

Nell’aprile 1961, vi fu un tentativo di rovesciare il nuovo governo rivoluzionario con uno sbarco militare nella Baia dei Porci effettuato da parte di profughi cubani sostenuti dagli Stati Uniti. Respinta l’invasione, Fidel Castro ufficializzò il regime socialista e strinse forti rapporti politici e commerciali con l’Unione Sovietica, la quale si prodigò a elargire finanziamenti all’isola caraibica: nelle dinamiche della Guerra fredda, l’esistenza di una repubblica socialista a poche miglia di distanza dalle coste degli Stati Uniti sembrò rappresentare un’importante svolta a favore dell’Urss. Negli anni successivi, il regime castrista istituì il partito unico (il Partito comunista di Cuba) e accentuò la sua propaganda in senso socialista e antimperialista, con il fine di organizzare e mobilitare le masse.

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Il mito della rivoluzione cubana, considerata il fulcro di un moto antimperialista, si allargò ad altri paesi del Sud America, suscitando focolai di rivolta e di lotta armata. Ormai trasfigurato in un popolarissimo eroe rivoluzionario, Che Guevara, con un gruppo di guerriglieri cubani, cercò di esportare la sollevazione in Bolivia: nell’ottobre 1967, il “Che” fu catturato e ucciso da agenti della Cia [ 24].

Controtendenze anticomuniste e dittatoriali
Nel 1961, due anni dopo la rivoluzione a Cuba, il presidente americano John Fitzgerald Kennedy lanciò l’”Alleanza per il progresso”, un programma di finanziamenti statunitensi volti a sostenere appunto il progresso sociale e politico in America del Sud, così da scongiurare l’insorgere di nuove svolte comuniste in altri paesi latinoamericani. Il piano, tuttavia, non ebbe pieno successo anche perché sovrastimava la capacità di influenza delle politiche statunitensi sulle società sudamericane. Quindi, la successiva definizione della dottrina della sicurezza nazionale portò all’affermazione dell’anticomunismo su ogni altra considerazione di ordine politico e sociale da parte delle presidenze americane di Lyndon Johnson e di Richard Nixon.

Fin dalla metà degli anni Sessanta, l’onda d’urto di guerriglie e movimenti rivoluzionari destabilizzò l’intero Sud America, creando i presupposti per una reazione violenta, affidata soprattutto alle forze armate. Nei nuovi regimi autoritari in Brasile, Argentina, Cile, Uruguay, l’intervento dell’esercito puntava a eliminare i nemici interni (socialisti e comunisti, soprattutto) con una repressione sistematica. Questo ciclo dittatoriale e controrivoluzionario si dispiegò nel corso degli anni Settanta, adottando non più le politiche stataliste e populiste tipiche dei decenni passati, risalenti al periodo tra le due guerre mondiali, ma quelle liberiste volte ad accumulare capitale interno e ad attrarre investimenti stranieri, per promuovere, come vedremo, il decollo industriale.

Storie. Il passato nel presente - volume 3
Storie. Il passato nel presente - volume 3
Dal 1900 a oggi