10.1 Il nuovo ordine politico, economico e militare

Per riprendere il filo…

Nella tarda primavera del 1945 i regimi di Hitler e di Mussolini furono sconfitti dalle potenze alleate: Stati Uniti, Regno Unito e Unione Sovietica, a loro volta affiancate da alleati minori. L’Europa si trovava però devastata da quasi sei anni di combattimenti feroci, di bombardamenti indiscriminati, di violenze di ogni sorta, a partire dallo sterminio degli ebrei: più di qualunque conflitto precedente, la Seconda guerra mondiale aveva colpito le popolazioni e le infrastrutture civili. La sfida del dopoguerra era dunque quella di ricostruire un nuovo ordine politico ed economico, tenendo conto dei rapporti di forza che erano emersi dal conflitto.

10.1 Il nuovo ordine politico, economico e militare

Verso l’ordine del dopoguerra
Mentre ancora si combatteva la Seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica avevano cominciato a muoversi in vista dell’organizzazione dell’assetto politico internazionale del dopoguerra. Nella Conferenza di Teheran del novembre 1943, il presidente statunitense Roosevelt, il premier britannico Churchill e il leader sovietico Stalin avevano deciso lo smembramento della Germania in favore delle potenze vincitrici, oltre al ripristino del confine del 1939 fra Polonia e Unione Sovietica e all’accesso sovietico al Mar Baltico attraverso il porto di Königsberg, ribattezzata Kaliningrad. Nell’ottobre del 1944, inoltre, Churchill incontrò Stalin a Mosca per discutere un accordo sulla divisione dell’Europa orientale, e soprattutto dei Balcani, «in percentuali», come scrisse allora lo stesso Churchill.
Nel febbraio 1945, la Conferenza di Yalta ribadì le decisioni sul futuro dell’Europa, a partire dalla divisione della Germania, già definite dagli incontri precedenti [ 1].

L’assetto che si prefigurava era particolarmente vantaggioso per l’Urss, cui veniva riconosciuto il possesso dei territori a essa attribuiti dal protocollo segreto allegato al Patto Molotov-Ribbentrop del 1939. D’altra parte, le concessioni fatte ai sovietici, oltre che frutto delle illusioni di Roosevelt circa le reali intenzioni di Stalin nei confronti dei paesi che stavano cadendo sotto il controllo sovietico, erano essenziali per il prosieguo della guerra: le forze angloamericane infatti in quel periodo erano bloccate dai tedeschi sulle Ardenne [▶ cap. 9.9], ed era urgente che l’Armata rossa continuasse la sua avanzata.


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Nella Conferenza di Potsdam (città vicina a Berlino), che si tenne tra fine luglio e inizio agosto 1945, Stalin incontrò il nuovo presidente americano Harry Truman, che aveva sostituito Roosevelt, morto il 12 aprile precedente, e il nuovo premier britannico Clement Attlee, che aveva appena vinto le elezioni politiche battendo, a sorpresa, Winston Churchill. La Conferenza di Potsdam ribadì e perfezionò gli accordi fra i vincitori:

  • suddivisione della Germania in quattro zone d’occupazione (sovietica, statunitense, britannica e francese);
  • demilitarizzazione, denazificazione e democratizzazione della società tedesca;
  • istruzione di processi contro i criminali di guerra;
  • revisione dei confini tedeschi con la Polonia;
  • riconoscimento del governo polacco di Lublino a scapito di quello in esilio a Londra (con cui Mosca aveva rotto le relazioni dopo il massacro di Katyn) e conseguente richiesta di libere elezioni.

La risoluzione della questione polacca – con l’allargamento dei confini a ovest e la perdita dei territori orientali – rappresentò di fatto la presa d’atto del dominio sovietico sul paese, garantito dalla presenza dell’Armata rossa, e fu per questo al centro delle prime serie controversie fra gli Alleati [ 2].

Per le potenze occidentali si trattava di una rinuncia carica di implicazioni simboliche, visto che la Seconda guerra mondiale era scoppiata quando Francia e Regno Unito avevano dichiarato guerra alla Germania nazista nel 1939 proprio per difendere l’indipendenza della Polonia [▶ cap. 9.1].

Una governance per il mondo

Per prevenire lo scoppio di un nuovo devastante conflitto, inoltre, già a Yalta i paesi vincitori decisero di istituire un organismo di governo e di cooperazione internazionale più efficiente di quanto non si fosse rivelata, fra le due guerre, la Società delle Nazioni [▶ cap. 2.7]. Raccogliendo l’eredità di Wilson e di Roosevelt, gli Stati Uniti di Truman svolsero in questo campo un ruolo propulsore; così, a conclusione di una conferenza tenutasi a San Francisco il 25 giugno 1945, fu firmata la Carta dell’Organizzazione delle Nazioni Unite (Onu) [ 3]. Secondo il suo statuto, l’Onu era articolata in:

– un’Assemblea generale, composta inizialmente dai 51 paesi che avevano aderito all’Onu entro il 1° marzo 1945;

– un Consiglio di sicurezza ristretto a 15 membri, 10 dei quali scelti a rotazione, ogni due anni, fra tutti i membri dell’organizzazione, e 5 permanenti (Stati Uniti, Unione Sovietica, Regno Unito, Cina e Francia).

Il vero potere decisionale era detenuto proprio dal Consiglio di sicurezza, nel quale sedevano i vincitori della guerra: Stati Uniti, Unione Sovietica e Regno Unito. Questi furono affiancati anche dalla Francia, in virtù della partecipazione alla “Grande alleanza antifascista” attraverso la Resistenza, nonostante il regime di Vichy fosse basato sulla collaborazione ufficiale con la Germania nazista [▶ cap. 9.2], e dalla Cina, che era rappresentata dal governo nazionalista di Chiang Kai-shek, che sarebbe stato, come vedremo, sostituito dalla Repubblica popolare cinese di Mao dal 1949 in poi. Questi membri godevano del diritto di veto su ogni decisione (“risoluzione”) del Consiglio di sicurezza, potendo così bloccare i provvedimenti nonostante la maggioranza del Consiglio esprimesse un voto favorevole; questa norma fu voluta soprattutto dall’Urss, che altrimenti sarebbe finita facilmente in minoranza rispetto alle potenze occidentali.

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La ragion d’essere dell’Onu fu individuata nel perseguimento di questi obiettivi:

  • mantenere la pace e la sicurezza internazionale;
  • sviluppare relazioni amichevoli fra le nazioni, sulla base del rispetto dell’eguaglianza dei diritti e dell’autodeterminazione dei popoli;
  • promuovere la cooperazione internazionale in materia economica, sociale e culturale;
  • favorire il rispetto dei diritti umani e delle libertà individuali fondamentali.

Insieme ai diritti politici e sociali che appartenevano alla tradizione liberale e socialista da lungo tempo, si pose dunque un nuovo accento sui diritti umani, quale conseguenza dell’esperienza totalitaria e come eredità del processo di Norimberga. A coronamento di questo nuovo corso fu varata a Parigi, il 10 dicembre 1948, la Dichiarazione universale dei diritti umani [▶ FONTI, p. 406].

La cortina di ferro
Mentre le ultime fasi della guerra, nell’estate del 1945, introducevano il mondo nell’“epoca atomica”, nonostante la rivalità ideologica e geopolitica fra Stati Uniti e Unione Sovietica l’alleanza fra le due potenze contro il nazismo sembrava poter essere indirizzata verso forme di collaborazione. Fra il 1945 e il 1946, i contrasti fra le potenze vincitrici per la definizione dell’assetto postbellico globale si intensificarono, tanto che Churchill, in un famoso discorso tenuto a Fulton (Missouri) nel marzo 1946, parlò di una «cortina di ferro» (iron curtain) che era scesa da Stettino (sul Mar Baltico, in Polonia) a Trieste [ 4]. Era la fine della “Grande alleanza antifascista” che aveva unito paesi rivali nella comune lotta contro il nazifascismo.

Più che la Germania però, in un primo momento furono le zone periferiche dell’Europa a destabilizzare le relazioni fra Est e Ovest. In particolare, Stalin mirava a estendere la sfera d’influenza e d’interferenza sovietica sulla Turchia e sull’Iran. La ferma reazione di Londra e di Washington portò a un netto raffreddamento dei rapporti con Mosca.

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La contrapposizione internazionale fra Stati Uniti e Unione Sovietica polarizzò presto anche i conflitti sociali e politici interni ai paesi europei, raccogliendo da un lato coloro che temevano ogni forma di progresso sociale, dall’altro coloro che immaginavano il capitalismo sul punto del collasso. Lo scontro più violento fra comunisti e anticomunisti scoppiò in Grecia, dove il tentativo insurrezionale dei partigiani greci, sostenuti da Tito ma non da Stalin, si infranse contro la logica delle sfere di influenza stabilite a Potsdam, in base alla quale la Grecia era stata assegnata all’Occidente. Dopo una sanguinosa guerra civile che durò dal 1944 al 1949, le forze anticomuniste appoggiate dalle truppe britanniche prevalsero e la rivoluzione fu repressa.
Le nuove istituzioni economiche mondiali
Anche se l’Unione Sovietica riuscì a garantirsi il controllo di larga parte dell’Europa centrorientale, il nuovo ordine mondiale portava i segni di un prevalente dominio degli Stati Uniti, soprattutto dal punto di vista economico. In vista della ricostruzione postbellica, gli Stati Uniti, insieme al Regno Unito, miravano a creare gli strumenti per evitare di ricadere in una crisi economica come quella del 1929, che in Europa aveva portato all’ascesa dei movimenti e dei regimi antidemocratici e dittatoriali [▶ cap. 8]. Nel luglio del 1944, a Bretton Woods (una cittadina del New Hampshire), Roosevelt organizzò quindi una conferenza cui parteciparono le delegazioni di 44 paesi con l’intento di discutere e stabilire le condizioni per un sistema di libero scambio e di cooperazione internazionale. Gli accordi di Bretton Woods sancirono la centralità del dollaro che fu ancorato al valore dell’oro e che fu riconosciuto come la moneta di convertibilità internazionale. Inoltre, per assicurare il governo dell’economia globale furono fondati la Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo (Birs) – rinominata poi Banca mondiale (Bm) – e il Fondo monetario internazionale (Fmi) [ 5]. Queste due nuove istituzioni assumevano il compito di stabilizzare il sistema commerciale mondiale, finanziando la ricostruzione economica e disincentivando il protezionismo. Però non furono riconosciute dall’Unione Sovietica, che nel 1946 si rifiutò di aderire agli accordi di Bretton Woods poiché furono percepiti e denunciati come maschera dell’imperialismo americano.

La preminenza degli Stati Uniti nel nuovo ordine economico mondiale fu ulteriormente rafforzata dall’approvazione di un importante accordo commerciale, avvenuto a Ginevra nell’ottobre 1947, noto con il nome di Gatt (General agreement on tariffs and trade, “Accordo generale sulle tariffe e il commercio”), che prevedeva una liberalizzazione del commercio mondiale con il contenimento dei dazi e dei vincoli normativi.

FONTI

La Dichiarazione universale dei diritti umani

La Dichiarazione universale dei diritti umani fu adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite, riunita a Parigi il 10 dicembre 1948. Composta di 30 articoli riguardanti i diritti degli individui, la Dichiarazione sanciva i principi fondamentali su cui si dovevano reggere gli ordinamenti istituzionali nazionali e internazionali e che sarebbero stati recepiti dai successivi trattati internazionali. L’accettazione della Dichiarazione, per quanto giuridicamente non vincolante, diventò un requisito essenziale per l’ammissione all’Onu.

Articolo 1

Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza.


Articolo 2

1. Ad ogni individuo spettano tutti i diritti e tutte le libertà enunciati nella presente Dichiarazione, senza distinzione alcuna per ragioni di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica o di altro genere, di origine nazionale o sociale, di ricchezza, di nascita o di altra condizione.

2. Nessuna distinzione sarà inoltre stabilita sulla base dello statuto politico, giuridico o internazionale del Paese o del territorio cui una persona appartiene, sia che tale Paese o territorio sia indipendente, o sottoposto ad amministrazione fiduciaria o non autonomo, o soggetto a qualsiasi altra limitazione di sovranità.


Articolo 3

Ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà e alla sicurezza della propria persona.


Articolo 4

Nessun individuo potrà essere tenuto in stato di schiavitù o di servitù; la schiavitù e la tratta degli schiavi saranno proibite sotto qualsiasi forma. [...]


Articolo 9

Nessun individuo potrà essere arbitrariamente arrestato, detenuto o esiliato. [...]


Articolo 13

1. Ogni individuo ha diritto alla libertà di movimento e di residenza entro i confini di ogni Stato.

2. Ogni individuo ha diritto di lasciare qualsiasi Paese, incluso il proprio, e di ritornare nel proprio Paese.


Articolo 14

1. Ogni individuo ha diritto di cercare e di godere in altri Paesi asilo dalle persecuzioni. 2. Questo diritto non potrà essere invocato qualora l’individuo sia realmente ricercato per reati non politici o per azioni contrarie ai fini e ai principi delle Nazioni Unite.


Articolo 15

1. Ogni individuo ha diritto a una cittadinanza.

2. Nessun individuo potrà essere arbitrariamente privato della sua cittadinanza, né del diritto di mutare cittadinanza. [...]


Articolo 18

Ogni individuo ha il diritto alla libertà di pensiero, coscienza e di religione; tale diritto include la libertà di cambiare religione o credo, e la libertà di manifestare, isolatamente o in comune, sia in pubblico che in privato, la propria religione o il proprio credo nell’insegnamento, nelle pratiche, nel culto e nell’osservanza dei riti.


Articolo 19

Ogni individuo ha il diritto alla libertà di opinione e di espressione, incluso il diritto di non essere molestato per la propria opinione e quello di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza riguardo a frontiere.


Articolo 20

1. Ogni individuo ha il diritto alla libertà di riunione e di associazione pacifica. 2. Nessuno può essere costretto a far parte di un’associazione.


Articolo 21

1. Ogni individuo ha diritto di partecipare al governo del proprio Paese, sia direttamente, sia attraverso rappresentanti liberamente scelti.

2. Ogni individuo ha diritto di accedere in condizioni di eguaglianza ai pubblici impieghi del proprio Paese.

3. La volontà popolare è il fondamento dell’autorità del governo; tale volontà deve essere espressa attraverso periodiche e veritiere elezioni, effettuate a suffragio universale ed eguale, ed a voto segreto, o secondo una procedura equivalente di libera votazione.


Articolo 22

Ogni individuo, in quanto membro della società, ha diritto alla sicurezza sociale nonché alla realizzazione, attraverso lo sforzo nazionale e la cooperazione internazionale ed in rapporto con l’organizzazione e le risorse di ogni Stato, dei diritti economici, sociali e culturali indispensabili alla sua dignità e al libero sviluppo della sua personalità.

La politica del contenimento e la ricostruzione europea
Mentre le tensioni fra Mosca e Washington salivano, nel periodo compreso fra il 1946 e il 1947 il diplomatico americano George Kennan espresse la necessità di “contenere” le mire espansionistiche di Stalin, evitando strategie più aggressive. Questa teoria si basava sulla convinzione che l’Unione Sovietica, con l’inglobamento indiretto dell’Europa orientale, si fosse ampliata al di là delle sue possibilità. La politica del contenimento (containment) fu esplicitata da un importante discorso che il presidente Truman pronunciò di fronte al Congresso il 12 marzo 1947, nel quale delineò le basi essenziali della sua dottrina di politica estera, capovolgendo la posizione isolazionista che gli Stati Uniti avevano mantenuto fra le due guerre: «È giunto il momento di schierare gli Stati Uniti dalla parte e a capo del mondo libero». Il suo intento immediato era volto a garantire, attraverso un attivo sostegno economico e militare, che la Turchia e la Grecia rimanessero nella sfera d’influenza occidentale.
Gli Stati Uniti ritenevano tuttavia che, per assicurare la tenuta delle istituzioni democratiche europee e scongiurare un allargamento della sfera di influenza sovietica, fosse indispensabile una rapida ripresa della produzione economica del vecchio continente. Così, il 5 giugno 1947 il segretario di Stato americano George Marshall annunciò un programma di ricostruzione europea (European Recovery Program) con l’obiettivo dichiarato di «spezzare il circolo vizioso e ripristinare la fiducia dei popoli europei nel futuro economico dei propri paesi e di tutto il continente» [ 6]. Il piano comportava l’erogazione in favore degli Stati europei di ingenti investimenti (13,6 miliardi di dollari in quattro anni), per il 70% vincolati all’acquisto di merci americane, in modo da alimentare un nuovo circuito commerciale transatlantico. Il piano era formalmente rivolto a tutti i paesi europei, ma Stalin impose a cechi e polacchi – loro malgrado – di rifiutarlo. Era infatti chiaro che l’accettazione di questi aiuti, accompagnati da un’intensa propaganda centrata sui valori dell’Occidente e del “Mondo libero”, comportava l’adesione alla sfera di influenza politica e militare statunitense.
Verso la divisione del mondo in blocchi
Il varo del piano Marshall rappresentò una grave sconfitta per Stalin e aprì una frattura insanabile fra i due blocchi attorno ai quali si andava organizzando il nuovo sistema internazionale: quello occidentale, guidato dagli Usa, e quello orientale, dominato dall’Urss [ 7]. Proprio al fine di gestire gli aiuti economici statunitensi, infatti, nell’aprile del 1948 nacque a Parigi l’Oece (Organizzazione europea di cooperazione economica), mentre in risposta alle mosse occidentali, già nel settembre 1947 era nato il Cominform, cioè l’Ufficio d’informazione dei partiti comunisti, che riuniva i rappresentanti dei partiti comunisti al potere (Urss, Polonia, Cecoslovacchia, Ungheria, Romania, Bulgaria, Iugoslavia) e dei due principali partiti comunisti occidentali, quello francese e quello italiano. Riprendendo in parte la funzione del Comintern [▶ cap. 3.4], sciolto nel maggio 1943, esso doveva svolgere compiti di coordinamento e di scambio di informazioni fra il centro e le periferie del comunismo internazionale, ma fu soprattutto uno strumento nelle mani di Mosca per disciplinare i partiti affiliati, impedendo deviazioni ideologiche eterodosse rispetto al modello staliniano.

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Quindi, nel 1949, fu costituito il Comecon (Consiglio di mutua assistenza economica), che consentì di coordinare gli scambi commerciali fra i paesi dell’Europa orientale e l’Unione Sovietica. Il mondo stava rapidamente scivolando verso una nuova contrapposizione globale, combattuta però con l’economia e la propaganda, anziché con le armi, e per questo battezzata “Guerra fredda”.
Fra il 1949 e il 1955 anche le alleanze militari si stabilizzarono intorno alle due “superpotenze”, come furono presto definite dalla pubblicistica Usa e Urss in virtù della loro preponderante influenza sulle vicende mondiali. Nell’aprile del 1949 fu infatti costituita l’Organizzazione del trattato nord atlantico, la Nato (North Atlantic Treaty Organization), l’organismo militare con cui i paesi dell’Europa occidentale, gli Stati Uniti e il Canada si garantivano solidarietà politica e assistenza militare, in caso di attacco esterno. Nel 1955, invece, per rispondere all’organizzazione militare dell’Occidente e in particolare al riarmo della Germania nel quadro della Nato – di cui diremo oltre – l’Unione Sovietica coordinò i paesi dell’Europa orientale all’interno di una struttura militare denominata Patto di Varsavia.

10.2 Il difficile dopoguerra

Gli spostamenti di popolazioni
Anche se in Europa, formalmente, le armi cessarono di sparare l’8 maggio 1945, la Seconda guerra mondiale non finì da un giorno all’altro. Le conseguenze del conflitto, che – come e più della Grande guerra – era stato “totale”, continuarono a pesare sulle popolazioni civili anche nei mesi e negli anni a venire. All’indomani della pace, masse di profughi, di reduci dei campi di concentramento e di ex prigionieri di guerra si aggiravano in territorio tedesco senza casa e senza meta; si calcola che nella sola Europa centrale siano stati assistiti e rimpatriati circa 46 milioni di persone fra il 1938 e il 1948
[ 8].
Le terre dell’Europa centrorientale uscirono distrutte e sfigurate dalla Seconda guerra mondiale. L’occupazione nazista aveva provocato un radicale sconvolgimento sociale e nazionale attraverso le politiche di deportazione, di reinsediamento e di repressione di molte popolazioni assoggettate, che raggiunse il culmine col genocidio delle comunità ebraiche. Nelle ultime battute della guerra, fra il 1944 e il 1945, quasi 5 milioni di profughi appartenenti alle popolazioni tedesche, che vivevano nelle città dell’Europa centrorientale e tra cui il regime nazista aveva trovato largo seguito, fuggirono precipitosamente, in preda alla para di ritorsioni, sotto l’incalzare dell’Armata rossa.
Nell’immediato secondo dopoguerra, a differenza del periodo successivo alla Grande guerra, in cui si erano costituiti nuovi Stati e disegnati nuovi confini, lo scopo di definire comunità nazionali più omogenee fu perseguito soprattutto spostando le popolazioni. In particolare, oggetto dei trasferimenti forzati furono molte delle minoranze presenti negli Stati dell’Europa centrorientale. Fra il 1945 e il 1947, oltre 7 milioni di tedeschi furono cacciati dalla Polonia, dalla Cecoslovacchia, dalla Romania, dalla Iugoslavia e dall’Ungheria. Tali trasferimenti furono autorizzati dalla Conferenza di Potsdam, con la raccomandazione di garantire «trattamenti umanitari» che in realtà furono quasi sempre disattesi.

Chi

Quando

Da dove

Verso dove

Quanti

Tedeschi

1944-45

Iugoslavia

Germania occupata

300 000

Polacchi

1944-46

Urss

Polonia

1 480 000

Ucraini

1945-46

Polonia (confini 1945)

Ucraina sovietica

480 000

Tedeschi

1945-49

Polonia (confini 1945)

Germania occupata

8 275 000

Tedeschi

1946

Cecoslovacchia

Germania e Austria occupate

3 000 000

Tedeschi

1946-49

Romania e Ungheria

Germania occupata

360 000

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Unica eccezione, in questo quadro, fu la Polonia. Questa subì sia una ridefinizione dei confini (ampiamente estesi verso occidente a spese della Germania, in modo tale da compensare le annessioni dei suoi territori orientali all’Urss), sia un enorme spostamento di popolazioni, dovute al fatto che, alorché gli ucraini (spesso provenienti dalle campagne circostanti) si impadronirono di città come Leopoli, svuotate della precedente popolazione ebrea e polacca, i polacchi della Galizia si spostarono nelle zone abbandonate dai tedeschi a ovest, come la Slesia (soprattutto intorno a Breslavia).
Disgregazione sociale e distruzione materiale
La composizione della popolazione europea era cambiata, a causa della guerra, anche dal punto di vista degli equilibri di genere: nel 1945 e per i due decenni successivi, il numero delle donne superò decisamente quello degli uomini, morti in massa durante il conflitto; il fenomeno fu particolarmente accentuato a Est, e in particolare in Unione Sovietica, dove ad aggravare la situazione vi era un’enorme quantità di bambini orfani o abbandonati.
La popolazione europea doveva naturalmente fare i conti anche con i danni materiali della guerra. Molte città tedesche, e in particolare Dresda, Amburgo, Colonia e Berlino, erano state quasi completamente distrutte dai bombardamenti alleati, mentre molti centri urbani polacchi e sovietici, da Varsavia a Kiev, erano stati teatro di terribili combattimenti: le loro macerie avrebbero segnato il paesaggio urbano per oltre un decennio [ 9]. Le reti di comunicazione e di trasporto erano gravemente compromesse, mentre il commercio era per lo più affidato al baratto e al mercato nero.
La cultura della seconda metà degli anni Quaranta cercò di fare i conti con l’immane tragedia che si era abbattuta sull’Europa, che era in realtà frutto di sue profonde pulsioni distruttive e autodistruttive [▶ altri LINGUAGGI, p. 414]. Tuttavia, quel cupo pessimismo che aleggiava nell’immediato dopoguerra, avrebbe presto lasciato il campo all’entusiasmo della ricostruzione.
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Resistenza e guerre civili
Di fronte a questi problemi, i discorsi politici puntarono a esaltare la vittoria sulla Germania e la liberazione dal fascismo, con l’intento di creare un nuovo consenso postbellico. Fin dal 1945 si creò e si diffuse quindi una visione mitica della Resistenza, che tendeva a enfatizzare la lotta dei popoli contro il nazifascismo, imputando alla Germania l’intera responsabilità per quanto era accaduto e nascondendo le vaste e attive complicità che si erano manifestate in tutta Europa.
Il richiamo all’antifascismo era altresì funzionale a riunificare società europee – dalla Francia all’Ucraina, dall’Italia alla Iugoslavia – profondamente lacerate da vere e proprie guerre civili che continuavano ad alimentare i conflitti del dopoguerra. Rappresaglie, vendette, rese dei conti più o meno spontanee dei vincitori contro gli sconfitti insanguinarono i mesi successivi alla fine ufficiale del conflitto. In Europa occidentale la consegna delle armi da parte dei partigiani si svolse in tempi relativamente brevi, consentendo di ripristinare un ordine civile fondato sul monopolio legittimo della forza da parte dell’autorità statale. La guerriglia partigiana nell’Est, soprattutto nelle foreste lituane, bielorusse, polacche e ucraine, continuò invece ben oltre il 1945, spesso fino ai primi anni Cinquanta, combattendo prima i nazisti, poi i sovietici
L’onda lunga della fine della guerra e delle sue attese di liberazione giunsero fino alle colonie. Mentre i britannici scelsero presto una strategia di disimpegno, francesi, olandesi e belgi continuarono a difendere i loro possedimenti oltremare, nei quali tuttavia, come vedremo, cresceva il fermento antioccidentale.
Epurazioni e processi
Nel frattempo, le nuove autorità avviarono i processi di epurazione degli organismi amministrativi statali, con l’intenzione di punire ed espellere le figure più compromesse con i passati regimi nazisti, fascisti e collaborazionisti. Queste operazioni procedettero però in modo lento e incerto, e furono presto interrotte dall’esigenza di fare argine contro il “comunismo” o contro l’“imperialismo”, a causa della crescente tensione internazionale fra Unione Sovietica e Stati Uniti. Non pochi ex funzionari della polizia politica fascista e nazista, nonché importanti collaborazionisti del regime di Hitler in tutta Europa furono riassorbiti dagli apparati di Stato del dopoguerra, a Est come a Ovest. Altri, per evitare possibili incriminazioni, vendette o condanne, fuggirono nella Spagna di Franco o nel Portogallo di Salazar, oppure si nascosero sotto la protezione delle dittature latinoamericane (soprattutto in Argentina), dove cercarono di ricostruirsi una vita sotto falso nome.

Durante la Conferenza di Potsdam, gli Alleati avevano deciso di impartire una punizione esemplare e di risonanza mondiale ai principali responsabili del regime nazista, che fungesse da monito per le generazioni a venire. A Norimberga, fra il novembre 1945 e l’ottobre 1946, si celebrò così un solenne processo contro 24 dei principali esponenti del regime nazista: fra questi, il più importante era il ministro dell’Aviazione Hermann Göring, il quale, condannato a morte, si suicidò la notte prima dell’esecuzione [ 10]. I principali capi d’accusa del processo, condotto dal procuratore americano Robert Jackson e da quello sovietico Iona Nikitenko, riguardavano i crimini contro la pace, i crimini di guerra e i crimini contro l’umanità. La seconda e la terza tipologia di reati erano subordinate alla prima e poiché la responsabilità di aver violato la pace era interamente attribuita alla Germania, ogni altro autore di crimini di guerra e di crimini contro l’umanità era escluso dal procedimento. I vincitori e i loro comportamenti bellici – dall’eccidio sovietico di Katyn ai bombardamenti atomici statunitensi di Hiroshima e Nagasaki [▶ cap. 9.10] – non furono quindi messi in discussione (se non da qualche intellettuale isolato), né tanto meno sottoposti a processo.

Fra i crimini nazisti, invece, non fu annoverato lo sterminio degli ebrei, privo di uno statuto giuridico specifico. Nonostante la scoperta dei campi di concentramento e di sterminio nazisti da parte delle forze sovietiche e angloamericane avesse permesso di dare una misura alla tragedia che si era consumata in Europa, sulla tragedia degli ebrei d’Europa scese una coltre di silenzio e di oblio pubblico. Ciò non impedì tuttavia lo sviluppo di una riflessione giuridica imperniata sul tema del “genocidio”. Questo termine, coniato nel 1944 dall’avvocato ebreo polacco Raphael Lemkin, intendeva definire un fenomeno radicalmente nuovo: il tentativo di sterminare un gruppo umano per ragioni inerenti la nazionalità, la razza, l’etnia o la religione. Nel 1948 fu anche firmata a New York una Convenzione per la prevenzione dei genocidi, dalla quale furono però esclusi, per volontà dell’Unione Sovietica, eventuali crimini motivati da ragioni sociali o di classe.

Un altro grande processo si tenne a Tokyo, dall’aprile 1946 al novembre 1948, contro 28 esponenti dell’Impero giapponese, accusati di crimini di guerra e di crimini contro l’umanità. L’imperatore, considerato tradizionalmente di natura divina, fu escluso dal processo e dall’eventuale condanna, che avrebbe avuto contraccolpi destabilizzanti sulla società giapponese. Al contrario, le autorità americane erano convinte che la più alta istituzione dovesse garantire lo svolgimento del processo per favorire il rinnovamento dell’ordine politico del Giappone.

altri linguaggi

Il dopoguerra fra cinema e letteratura

Le società europee, profondamente traumatizzate dalle brutali esperienze belliche, cercarono rapidamente di liberarsi del peso del passato più recente. Tuttavia, i segni della catastrofe del 1939-45 rimasero presenti ovunque a lungo, con le macerie che ingombravano i paesaggi urbani di larga parte del vecchio continente. La cultura, il cinema e la letteratura europee rispecchiarono queste contraddizioni, elaborandone interpretazioni che ebbero larga circolazione sociale.

La rappresentazione del dopoguerra tedesco

In Germania – dove fra il 1944 e il 1945 l’offensiva aerea alleata aveva provocato distruzioni terribili – l’osservazione della realtà assumeva un valore centrale e tendeva a coincidere con la rappresentazione, a tratti documentaristica, della guerra e delle sue conseguenze. Esemplare in questo senso fu il film del regista italiano Roberto Rossellini, massimo esponente del neorealismo, autore del lungometraggio Germania anno zero (1947), in cui sono narrate le vicende del giovane Edmund, che cerca in ogni modo di sopravvivere fra le macerie di Berlino.

Analogamente, lo scrittore tedesco Heinrich Böll, ambientava il suo romanzo E non disse nemmeno una parola (1953) sullo sfondo di una Colonia rasa al suolo dai bombardamenti, dove si incontra una coppia separata dalla guerra. Un suo altro romanzo, L’angelo tacque, scritto nello stesso periodo, fu messo nel cassetto e pubblicato molti decenni dopo perché affrontava troppo direttamente il tema ancora doloroso delle catastrofiche distruzioni belliche.

Fare i conti con il passato

Gli anni Cinquanta segnarono la fase del confronto della cultura e della società tedesche con le proprie responsabilità nell’avvento al potere e nel sostegno del nazismo. Tra i più originali esami di coscienza in ambito letterario vi fu Il tamburo di latta (1959) del giovane scrittore Günther Grass. Il romanzo racconta del piccolo Oskar Matzerath, che smette di crescere all’età di tre anni per protesta contro il mondo degli adulti e comincia a girare la Germania, suonando il suo tamburo di latta, per raccontarne le tragedie.

Nello stesso anno il regista tedesco Fritz Lang girò Il diabolico Dottor Mabuse, completando la trilogia che aveva cominciato negli anni Venti e Trenta. Implicita controfigura di Hitler, il dottor Mabuse, grazie alle sue virtù ipnotiche, compie una serie di delitti efferati al fine di accumulare potere e ricchezza, coltivando la prospettiva della “distruzione del mondo”.

I fantasmi del passato avrebbero continuato ad ossessionare l’opinione pubblica tedesca (occidentale) nei decenni successivi. Un film di Rainer Werner Fassbinder, Il matrimonio di Maria Braun (1978), mostra come la vita di una donna, abbandonata dal marito partito per la guerra e poi disperso in Unione Sovietica, fosse segnata da abiezioni e compromissioni morali di ogni sorta, pur di riuscire a sopravvivere nel brutale dopoguerra.

10.3 Dopoguerra e ripresa in Europa, Urss e Giappone

Istituzioni e società in Europa occidentale
Di fronte al problema acuto della ricostruzione economica e politica, in Europa occidentale fu da subito chiaro che sarebbe stato impossibile un puro e semplice ritorno al passato prebellico. Fin dal 1941 la Carta atlantica – il documento, sottoscritto da Churchill e Roosevelt, che avrebbe poi ispirato la nascita dell’Onu – aveva definito l’obiettivo di una “restaurazione” della democrazia, ma nel dopoguerra era ormai chiaro che le nuove istituzioni avrebbero dovuto farsi carico anche di istanze sociali di ridistribuzione delle risorse e di intervento pubblico nella sfera economica, fino ad allora trascurate dalle democrazie liberali.
Sul piano politico, l’obiettivo di scongiurare un ritorno del fascismo portò all’instaurazione di democrazie costituzionali più attrezzate a far fronte a possibili derive totalitarie. In questo senso, una particolare attenzione fu attribuita all’equilibrio fra poteri e organi dello Stato, in modo che non si potessero ricreare le condizioni per un monopolio nella gestione del potere esecutivo, tale da favorire l’ascesa di nuovi dittatori o la presa del potere da parte di partiti autoritari.

Il dopoguerra vide l’affermazione del pluralismo politico e sociale, con la ricostituzione dei partiti, la nascita di nuovi soggetti politici e la rinascita dei movimenti sindacali, che incanalavano la volontà di partecipazione delle masse alla costruzione dei nuovi assetti sociali e politici. Tuttavia, l’incipiente clima di contrapposizione fra Est e Ovest non mancò di esasperare le tensioni sociopolitiche interne, arrivando a giustificare forme selettive di limitazione delle libertà.

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Il Welfare nel Regno Unito

Le prime forme di legislazione sociale postbellica furono attuate nel Regno Unito, paese che solo in parte aveva conosciuto la guerra sul proprio territorio – e mai l’occupazione – e aveva dunque problemi parzialmente diversi da quelli degli altri paesi dell’Europa occidentale. Già durante il conflitto, l’economista liberale William Beveridge si era pronunciato contro il sistema del laissez faire (“lasciar fare” in francese), che affidava la ricostruzione economica alle iniziative degli individui senza l’intervento statale. Egli infatti scrisse un programma, noto come “rapporto Beveridge”, che invocava un’estensione della legislazione sociale, in particolare attraverso il passaggio dal sistema delle assicurazioni (il cittadino riceve servizi o sussidi in base alle rate versate) a quello della “sicurezza sociale”, estesa universalmente a tutti i cittadini [▶ FONTI, p. 418].

La vittoria del Partito laburista, che nel luglio 1945 sconfisse sorprendentemente il vincitore della guerra Winston Churchill, condusse all’applicazione concreta di misure ispirate a questi principi [ 11]. Ne derivò una profonda trasformazione dello Stato, più dinamico e interventista, in particolare attraverso l’istituzione del Servizio sanitario nazionale. Era la prima vera affermazione del Welfare State (“Stato del benessere”, o “Stato sociale”), un sistema di assistenza sociale volto a proteggere il cittadino dalla culla alla barafrom cradle to the grave», nelle parole di Beveridge) e sul cui modello furono presto lanciate in tutta l’Europa occidentale politiche di nazionalizzazione delle industrie e di pianificazione dell’economia, in cui integrare, seppur limitandola in parte, la libera iniziativa individuale, garantendo una più ampia ripartizione della ricchezza.
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FONTI

Il “rapporto Beveridge”

William Beveridge, nonostante fosse un economista di orientamento liberale, era sensibile alle riforme sociali e fu il principale autore di un rapporto, redatto da una Commissione per la riforma dell’assicurazione sociale. Presentato nel dicembre 1942 il rapporto circolò in oltre 70 000 copie, diventando largamente popolare nonostante il carattere tecnico del testo. Nel documento, dopo aver presentato i risultati di un’indagine sullo stato dei servizi sociali nel Regno Unito, Beveridge definiva le premesse teoriche per riforme sociali riguardanti assicurazioni, salari, previdenza, sanità. Tali riforme sarebbero state adottate nel dopoguerra, fra il 1945 e il 1951, dal Partito laburista.

[...] Nel passaggio da questa prima indagine complessiva dell’assicurazione sociale al prossimo compito – quello di fare raccomandazioni – fin d’ora possono essere abbozzati tre principi guida.

Il primo principio è che qualsiasi proposta per il futuro, mentre dovrebbe usare in pieno l’esperienza raccolta in passato, non dovrebbe essere limitata dalla considerazione di interessi settoriali affermati nell’acquisizione di quella esperienza. Ora, quando la guerra sta abolendo punti di riferimento di ogni sorta, è opportuno usare l’esperienza in un campo ben definito. Un momento rivoluzionario nella storia del mondo è un tempo per le rivoluzioni, non per le riparazioni.

Il secondo principio è che l’organizzazione dell’assicurazione sociale dovrebbe essere trattata come solo una parte di una politica complessiva di progresso sociale. L’assicurazione sociale pienamente sviluppata può offrire sicurezza di reddito; è un attacco alla Miseria. Ma la Miseria è solo uno di cinque giganti sulla strada della ricostruzione e in qualche modo il più facile da attaccare. Gli altri sono la Malattia, l’Ignoranza, lo Squallore e l’Ozio.

Il terzo principio è che la sicurezza sociale deve essere compiuta attraverso la cooperazione tra lo Stato e l’individuo. [...] Lo Stato nell’organizzare la sicurezza non dovrebbe soffocare l’incentivo, l’opportunità, la responsabilità; nello stabilire un minimo nazionale, dovrebbe lasciare spazio e incoraggiamento per l’azione volontaria da parte di ogni individuo per provvedere più di quel minimo per sé stesso e per la propria famiglia.

[…]

Il Piano per la Sicurezza Sociale definito nel Rapporto è un piano per vincere la libertà dal bisogno mantenendo i redditi. Ma l’adeguatezza del reddito non è sufficiente in sé stessa. La libertà dal bisogno è solo una delle libertà essenziali del genere umano. Qualsiasi Piano per la Sicurezza Sociale in senso stretto assume una politica sociale concertata in molti campi, la maggior parte dei quali sarebbe inappropriata da discutere in questo Rapporto.


W. Beveridge, Alle origini del Welfare State: il rapporto su assicurazioni sociali e servizi assistenziali, F. Angeli, Milano 2010

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La Francia del dopoguerra
Invasa dalla Germania nel 1940, la Francia aveva ufficialmente sostenuto il “Nuovo ordine” nazista con la formazione del regime di Vichy, che, fra le altre cose, aveva attivamente collaborato alla deportazione e allo sterminio degli ebrei. Ciononostante, l’attiva partecipazione della Resistenza diretta dal generale De Gaulle alla liberazione dall’occupazione tedesca consentì alla Francia di presentarsi, nel dopoguerra, fra i paesi vincitori. Terminata la guerra, tuttavia, De Gaulle decise di ritirarsi dalla scena pubblica, lasciando un vuoto che avrebbe colmato solo molti anni dopo, nel 1958, con il ritorno alla vita politica attiva.
La Quarta Repubblica, la cui nascita fu sancita da un referendum popolare nell’ottobre 1946 [ 12], era caratterizzata da marcate continuità con il sistema politico parlamentare della Terza Repubblica, a partire dalla cronica instabilità dei governi e dalla difficoltà di costituire maggioranze solide e coese nell’Assemblea nazionale. Le principali forze politiche che la animavano furono in questi anni il Partito socialista, il Partito comunista e il Movimento repubblicano popolare (di ispirazione cristianodemocratica).
Nella seconda metà degli anni Quaranta, lo Stato francese adottò severe politiche per la ricostruzione delle infrastrutture distrutte dalla guerra, anche grazie alla svalutazione del franco e agli aiuti economici statunitensi. Come tutta l’Europa occidentale, dall’inizio degli anni Cinquanta la Francia conobbe così una fase di intensa crescita economica, che portò all’espansione impressionante delle aree urbane e industriali a discapito delle campagne. Nel frattempo, furono adottate ed estese le misure volte a garantire un certo grado di sicurezza sociale e furono messe a punto forme di ampia pianificazione economica che si tradussero nella nazionalizzazione dei settori chiave dell’energia, delle banche e dei trasporti.
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Inclusa fra i cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell’Onu, la Francia aderì anche alla Nato e al sistema di alleanze politico-militare occidentale. Il paese era però attraversato da un veemente sentimento antiamericano, che derivava da ragioni di nazionalismo politico e culturale: da un lato, la volontà di conservare la sovranità nazionale di fronte alle strategie “imperialiste” americane nella Guerra fredda; dall’altro, l’avversione per la cultura di massa proveniente da oltreoceano, considerata consumista e materialista. Questo sentimento, trasversale al quadro delle forze politiche, fu abilmente interpretato e sfruttato tanto dai comunisti quanto dai gollisti, come venivano chiamati gli esponenti del gruppo politico ispirato dalla dottrina nazionalista, ma antifascista e democratica di Charles De Gaulle.

Il trionfo di Stalin in Urss
L’Unione Sovietica aveva perduto in guerra circa 27 milioni di cittadini, soprattutto nelle regioni occidentali: una catastrofe demografica da cui si sarebbe ripresa lentamente, anche perché sulla scia della critica situazione postbellica intervenne, nel 1946-47, una nuova terribile carestia, che colpì soprattutto l’Ucraina, ma portò morte ed epidemie ovunque. Nonostante ciò, uscita vincitrice dalla guerra, l’Unione Sovietica era la più grande potenza militare che fosse mai stata presente in Europa e si trovava ora protetta da un sistema di sicurezza sulla frontiera occidentale, garantito dalle nuove conquiste territoriali.

Il prestigio dell’Armata rossa, il mito della resistenza di Stalingrado [▶ cap. 9.6] e l’ascendente della figura di Stalin [ 13] si irradiavano su tutto il vecchio continente – non solo tra le forze comuniste e progressiste –, portando un messaggio di possibile rinnovamento sociale e politico. Il tentativo di presentare il sistema comunista come un valido modello alternativo al capitalismo si fece sempre più insistente nella propaganda sovietica, soprattutto con il precipitare delle relazioni fra Usa e Urss e con l’inizio della Guerra fredda. Ma l’influenza del modello sovietico andava ben oltre l’Europa, suggerendo una via di indipendenza politica e di modernizzazione economica ai movimenti anticoloniali che, come vedremo, si andavano affermando in Africa e in Asia.

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All’interno il sistema repressivo, allentatosi durante la guerra, fu riportato a piena efficienza da Lavrentij Pavlovič Berija, che, a capo del Nkvd (il commissariato degli Interni) dal 1938 al 1945, manteneva ancora di fatto il controllo dei servizi di sicurezza. Le misure repressive colpivano milioni di cittadini e lavoratori, ma anche rifugiati ed ex prigionieri di guerra (oltre 4 milioni) che si trovavano in Germania o nelle zone sotto controllo occidentale nel 1945: essi furono rimpatriati e spesso incarcerati perché sospettati di complicità con il nemico.

A partire dal 1948, alla stretta interna si accompagnò una chiusura nazionalista, impregnata fra l’altro di antisemitismo. Il suo apparente ispiratore fu Andrej Ždanov, il quale – sotto il diretto controllo di Stalin – promosse una crociata culturale contro il cosmopolitismo in nome della grandezza russa, cercando al tempo stesso di elaborare i presupposti filosofici per una scienza, una matematica, una biologia, una letteratura conformi al marxismo sovietico.

Nel clima paranoico del tardo stalinismo, la scoperta del cosiddetto “complotto dei medici” (ottobre 1952), cioè l’idea – rivelatasi falsa – che un gruppo di medici ebrei avesse causato la morte di alcuni dirigenti sovietici, sembrò preludere a operazioni di persecuzione degli ebrei su vasta scala. Tuttavia, la morte di Stalin, il 5 marzo 1953, fermò questi sviluppi e aprì la difficile strada della successione.
Le democrazie popolari nell’Europa dell’est
Come ebbe a dire Stalin in riferimento alla Seconda guerra mondiale: «Questa guerra non somiglia a quelle del passato; chiunque occupi un territorio vi impone il proprio sistema sociale. Chiunque può imporre il proprio sistema fin dove il suo esercito è in grado di avanzare». In Europa orientale, la costruzione di regimi ispirati al modello sovietico, denominati “democrazie popolari”, fu in effetti favorita dal conflitto, non solo per ragioni militari (l’occupazione dei territori da parte dell’Armata rossa), ma anche per le sue conseguenze sociali: l’eliminazione di buona parte delle classi medie e alte, lo sterminio degli ebrei e lo spostamento forzato delle comunità tedesche comportarono infatti un generale livellamento sociale ed economico, rendendo più semplice l’introduzione del sistema comunista.

Per ottenere il controllo politico sui governi dell’Europa orientale, Stalin ripropose la strategia dei Fronti popolari, perseguita in Europa occidentale fra le due guerre, adattandola al nuovo contesto [▶ cap. 8.5]. Si formarono così vaste alleanze di socialisti, comunisti e altre forze antifasciste, che costituirono governi di “unità nazionale” con l’esclusione dei rappresentanti del vecchio regime. In un primo tempo si svolsero libere elezioni, con cui queste alleanze conquistarono il governo. I comunisti non ne detenevano la maggioranza, ma i sovietici riuscirono a manipolare le elezioni e a fare in modo che i ministeri-chiave, come la Difesa e gli Interni, andassero nelle mani dei comunisti locali, i quali rispondevano agli orientamenti e alle direttive di Mosca. In questo modo i comunisti monopolizzarono il potere in Polonia nel 1947, in Cecoslovacchia nel 1948 e in Ungheria nel 1949; in questi paesi, sulla falsariga dei processi di Mosca del 1936-38 [▶ cap. 6.3], furono messi in scena procedimenti giuridici farseschi contro gli oppositori [▶ protagonisti, p. 422].

Storie. Il passato nel presente - volume 3
Storie. Il passato nel presente - volume 3
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