PERCORSI STORIOGRAFICI

percorsi storiografici

PERCORSO

TESTI

TEMI

1 Germania nazista, Unione Sovietica staliniana e totalitarismo

p. 370

I. Kershaw, M. Lewin, Mito e consenso di massa nel regime staliniano e nazista tratto da Stalinismo e nazismo

– La forza del patriottismo come base di consenso

– Ossessione per la sicurezza dei regimi totalitari

T. Snyder, L’Europa orientale come luogo di sterminio tra Hitler e Stalin tratto da Terre di sangue

– L’Europa orientale come luogo di esperimento totalitario

– La sequenza degli stermini staliniani e di quelli nazisti

2 La crisi economica e le sue conseguenze sociali e politiche

p. 375

W. Schivelbusch, Il New Deal e il nuovo ordine postliberale tratto da Tre New Deal

– Germania nazista, Italia fascista e Usa rooseveltiani come parte di un ordine postliberale

Welfare e warfare come basi del progressismo del New Deal

A. Tooze, Il miracolo economico di Hitler in vista della guerra tratto da Il prezzo dello sterminio

– Evitabilità della scelta di nominare Hitler cancelliere tedesco

– Funzionalità della politica economica tedesca al riarmo, compresa la creazione di posti di lavoro

Crisi della democrazia o età del fascismo?

p. 382

G.L. Mosse, La democrazia di massa e l’ascesa dei regimi totalitari tratto da Il fascismo

– La capacità fascista di mobilitare consenso popolare

– Lunga tradizione antiparlamentare e antiliberale come chiave di legittimazione dei governi totalitari

M. Mazower, Critica e crisi delle democrazie parlamentari tratto da Le ombre dell’Europa

– La debolezza delle democrazie degli anni Venti e Trenta

– La contestazione dei sistemi parlamentari e liberali di fronte all’instabilità e alla crisi politica ed economica

La Shoah e la collaborazione

p. 387

C.R. Browning, Il ruolo di uomini comuni nello sterminio degli ebrei tratto da Uomini comuni

– Il contributo della polizia tedesca d’ordinanza allo sterminio degli ebrei

– La scelta omicida di uomini comuni

J.T. Gross, I vicini come assassini: un pogrom di ebrei in Polonia tratto da I carnefici della porta accanto

– Il ruolo delle popolazioni locali (polacche) nello sterminio degli ebrei

– Il crollo dell’ordine e il massacro dei vicini di casa

Resistenza, guerra civile e violenza

p. 393

C. Pavone, Il dramma della guerra civile tratto da Una guerra civile

– La rimozione della guerra civile nella memoria della Resistenza

– Il carattere feroce e fratricida dello scontro tra italiani

S. Peli, La guerra partigiana tra città e montagna tratto da Storie di Gap

– La violenza della Resistenza

– Il terrorismo urbano dei Gap

percorso 1

Germania nazista, Unione Sovietica staliniana e totalitarismo

L’Unione Sovietica di Stalin e la Germania di Hitler furono due esperimenti politici e sociali estremi. Per coglierne la radicale e terribile novità si è spesso fatto ricorso alla categoria di totalitarismo, anche se questa fu inventata per definire anzitutto il fascismo. In queste letture proponiamo due modi diversi di impostare la questione della comparazione tra i regimi totalitari. Il testo scritto a quattro mani dallo storico inglese Ian Kershaw e dallo storico ebreo lituano Moshe Lewin (vissuto in esilio negli Stati Uniti) tenta di definire una tipologia dei caratteri specifici dei regimi totalitari, quello nazista e quello staliniano: la personalità e il ruolo del capo, la propaganda di massa, il terrore. Lo storico americano Timothy Snyder invece cerca di descrivere le interazioni e le contrapposizioni tra il regime di Hitler e quello di Stalin, spiegando come le politiche totalitarie, con la loro dinamica genocida, colpirono ed eliminarono 14 milioni di persone tra le popolazioni civili comprese nello spazio intermedio dell’Europa orientale.

 >> pagina 371 
testo 1
Ian Kershaw/Moshe Lewin 

Mito e consenso di massa nel regime staliniano e nazista

Il confronto tra stalinismo e nazismo, anche attraverso la categoria di totalitarismo, aiuta a comprendere meglio le differenze tra i due regimi, che, in modi diversi, attraverso l’organizzazione di partito e il mito del capo, riuscirono a conquistare una vasta popolarità.

Vi sono state caratteristiche comuni al regime stalinista e a quello nazista che li hanno distinti da altri regimi dispotici e dittatoriali dello stesso periodo e dell’epoca successiva. [...] L’intrusione senza precedenti in tutti gli aspetti della vita esercitata da entrambi i sistemi attraverso nuove tecniche di mobilitazione di massa e inusitati livelli e forme di repressione e terrore, sono caratteristiche che li pongono sullo stesso piano, distinguendoli dalle altre dittature moderne. Ciò corrispose a una «richiesta totale» che entrambi i regimi avanzarono alle rispettive società. Come è potuto avvenire tutto questo? Come accadde che società tanto diverse abbiano prodotto, quasi simultaneamente, regimi i quali, con tutti i loro elementi contrastanti, sottoposero la popolazione a richieste che andavano oltre ogni limite fino ad allora conosciuto, e furono pronti a sostenerle con nuovi e inauditi livelli di repressione, persecuzione e terrore? [...]

Nel caso della Germania, le forze che sostennero il regime dittatoriale, come pure quelle che vi si opposero, sono state ampiamente studiate, mentre ciò è avvenuto in misura assai minore per il sistema sovietico. Sappiamo, tuttavia, che Stalin in Unione Sovietica, come Hitler in Germania, godette di enorme popolarità. Nel frattempo, attraverso documenti privati tenuti ben nascosti per decenni e fonti di archivio, cominciano a trapelare notizie sull’opposizione. Arriveremo forse a scoprire che l’opposizione e il dissenso furono più diffusi di quanto non pensassimo? Vi sono certamente diverse indicazioni in questo senso ma è ancora troppo presto per affermarlo. Durante la guerra in Russia si verificarono più episodi di collaborazionismo con i nazisti di quanto ci si sarebbe potuto aspettare. Ma la portata di tali episodi, dichiarati o occultati che fossero, richiede ulteriori indagini. [...]

A differenza del primo bolscevismo, con la sua base largamente proletaria, lo stalinismo cercò di ottenere il sostegno di altri settori della società al di fuori dei lavoratori dell’industria. L’edificazione di un potente paese industriale e il ritorno al patriottismo affascinarono molti. Quali che fossero tuttavia le altre forze favorevoli, la vera base sociale, malgrado l’intenso indottrinamento ideologico, non fu costituita dagli operai ma dalla burocrazia e da una intelligencija in espansione. La massa eterogenea proveniente da questi settori guadagnò sempre maggiore visibilità e, infine, divenne socialmente e politicamente dominante tra i membri del partito e nel regime nel suo complesso. Anche qui, ricerche sufficientemente elaborate sull’adesione al partito realizzate (e tuttora in corso) nel caso dello Nsdap, oltre a chiarire le differenze delle strutture sociali, potranno fornire approcci metodologici che potrebbero trovare proficua applicazione al caso sovietico. [...]

La trama di menzogne intessuta nella creazione artificiosa del culto di Stalin servì, secondo l’espressione di Lewin, come «alibi» per nascondere il fatto che egli non era affatto l’erede designato e incontrastato di Lenin. Hitler, sebbene la sua «divinizzazione» sia stata in larga misura un prodotto accuratamente confezionato dalla propaganda nazista, non ebbe bisogno di un analogo «alibi». Dal 1921 in poi, non vi fu mai un rivale alla sua altezza per la leadership dello Nsdap. Il culto della sua persona iniziò molto presto – nell’autunno del 1922, sotto lo stimolo iniziale della marcia su Roma di Mussolini. E i suoi seguaci parlavano già di lui come del «salvatore» della Germania prima ancora che cominciasse a pensarlo lui stesso. Con la rifondazione dello Nsdap nel 1925, il culto della leadership si sviluppò come strumento fondamentale dell’unità del partito e della coesione ideologica. Sembrerebbe quanto meno probabile che questa differenza possa spiegare – lasciando da parte i disturbi della personalità – la cronica insicurezza di Stalin e la facilità con la quale faceva ricorso al terrore contro i suoi seguaci, rispetto alla fiducia che Hitler riponeva (nonostante un carattere diffidente e sospettoso) nella lealtà personale dei suoi paladini. Un aspetto che non aveva nulla a che fare con l’effettiva sicurezza. Nonostante le elaborate precauzioni adottate per la sicurezza del dittatore, vi furono infatti diversi tentativi di assassinare Hitler (non ad opera del suo seguito, tuttavia), anche prima dell’attentato del 19441; nessuno invece cercò mai di uccidere Stalin, nonostante che la sua paranoia si fosse trasmessa a un sistema nel quale nessuno si sentiva più al sicuro e avesse steso sulla vita politica del paese una pesante cortina di decadimento morale.

In entrambi i casi il «mito» della leadership sul quale si fondava il culto della personalità fu «accettato» in diversa misura da larghi strati della popolazione. E in entrambi i casi l’edificazione e la popolarità del culto furono possibili grazie allo sfruttamento e alla distorsione, in situazioni di crisi, di elementi presenti da tempo nella cultura politica – tradizioni e ideologie legate allo statalismo imperiale nel caso di Stalin, preesistenti aspettative del «grande uomo» sostenute dalla destra tedesca nel caso di Hitler. La personificazione compiuta attraverso la propaganda delle «conquiste» e delle caratteristiche «positive» di ciascun regime contribuì a fornire ai due dittatori quella base plebiscitaria di consenso che rappresentò una delle componenti fondamentali del loro potere.


Tratto da Stalinismo e nazismo: dittature a confronto, Editori Riuniti, Roma 2002

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testo 2
Timothy Snyder 

L’Europa orientale come luogo di sterminio tra Hitler e Stalin

Nelle “terre di sangue”, comprendenti Polonia, Lituania, Bielorussia e Ucraina, l’azione totalitaria della Germania di Hitler e dell’Unione Sovietica di Stalin, nonché la loro reciproca interazione, provocarono una sequenza di stermini delle popolazioni civili, nel periodo tra il 1933 e il 1945: le carestie sovietiche e la Shoah si inserirono in questo tragico quadro.

Nel cuore dell’Europa, in poco più di un decennio, i regimi nazista e sovietico eliminarono circa 14 milioni di persone. Il luogo in cui inesorabilmente le vittime morirono, le terre di sangue, si estendeva dalla Polonia centrale alla Russia occidentale, includendo anche la Bielorussia, l’Ucraina e gli Stati baltici. Nel corso del consolidamento del nazionalsocialismo e dello stalinismo (1933-1938), dell’occupazione congiunta tedesco-sovietica della Polonia (1939-1941) e poi della guerra tra Germania e Unione Sovietica (1941-1945), una violenza di massa mai avvenuta in precedenza si diffuse in queste regioni mietendo vittime fra gli stessi abitanti, principalmente ebrei, bielorussi, ucraini, polacchi, russi e baltici. Furono uccisi 14 milioni di persone nello spazio di soli dodici anni, tra il 1933 e il 1945, mentre Hitler e Stalin erano al potere. Anche se le loro patrie divennero terreno di scontro solo agli inizi degli anni Quaranta, furono le politiche omicide di cui erano vittime, più che le perdite belliche, a colpire le popolazioni. La Seconda guerra mondiale fu il conflitto più letale di tutta la storia e circa la metà del totale dei soldati caduti sui campi di battaglia di tutto il mondo perirono qui, in queste regioni, nelle terre bagnate dal sangue. Ma non uno solo dei 14 milioni di morti era un soldato in servizio effettivo. La maggior parte era costituita da donne, bambini e anziani. Nessuno portava armi e molti erano stati privati di tutti i loro averi, compresi gli abiti.

Auschwitz fu il luogo di morte più noto fra quelli compresi nelle terre di sangue. Oggi è il simbolo dell’Olocausto che rappresenta il male di un secolo. Ma le persone registrate come lavoratori ad Auschwitz ebbero almeno la possibilità di rivivere nelle memorie e nei libri scritti dai superstiti. E sappiamo che sono morte lì. Un numero molto maggiore di ebrei, perlopiù polacchi, fu gassato in altri campi di sterminio tedeschi, meno noti, dove morivano pressoché tutti: Treblinka, Chełmno, Sobibór, Belz˙ec. Molti altri ebrei polacchi, russi o baltici furono fucilati sul ciglio di fosse comuni. La maggior parte di questi morì vicino al luogo in cui aveva vissuto: nella Polonia occupata, in Lituania, in Lettonia, nella Repubblica federativa sovietica dell’Ucraina e nella Bielorussia, parte dell’Urss dal 1922. I tedeschi deportarono ebrei da altri paesi e li trasferirono nelle terre di sangue per ucciderli. Arrivavano ad Auschwitz a bordo di treni che provenivano dall’Ungheria, dalla Cecoslovacchia, dalla Francia, dall’Olanda, dalla Grecia, dal Belgio, dalla Jugoslavia, dall’Italia e dalla Norvegia. Prima di essere fucilati o gassati, anche gli ebrei tedeschi furono deportati nelle terre di sangue a Łódź, Kaunas, Minsk o Varsavia. La gente che viveva nell’isolato nel quale ora sto scrivendo, nel nono distretto di Vienna, fu deportata ad Auschwitz, Sobibór, Treblinka e Riga: tutti luoghi situati nelle terre di sangue.

L’uccisione di massa degli ebrei da parte dei tedeschi però non ebbe luogo in Germania. Hitler era un uomo politico antisemita in un paese in cui la comunità ebraica rappresentava meno dell’uno per cento della popolazione tedesca quando lui divenne cancelliere nel gennaio del 1933 e circa un quarto dell’uno per cento all’inizio della Seconda guerra mondiale. Nel corso dei primi sei anni di governo del Führer, agli ebrei tedeschi fu permesso (in situazioni umilianti e privati dei propri beni) di emigrare, infatti la maggior parte di coloro che avevano assistito alla vittoria di Hitler nelle elezioni nel 1933 morì di cause naturali. L’uccisione di 165 000 ebrei tedeschi fu in sé un crimine agghiacciante, ma rappresentò solo una piccola parte della tragedia degli ebrei europei: meno del 3 per cento delle uccisioni avvenute durante l’Olocausto. Solo quando nel 1939 la Germania nazista invase la Polonia e nel 1941 l’Unione Sovietica, l’idea visionaria di Hitler di eliminare gli ebrei dall’intera Europa trovò fertile terreno nelle due maggiori comunità di ebrei europei.

L’Olocausto, per i tedeschi, pose in secondo piano gli altri progetti di sterminio. Hitler non solo voleva sradicare gli ebrei, ma voleva anche distruggere la Polonia e l’Unione Sovietica in quanto Stati, voleva uccidere le classi dominanti e decine di milioni di slavi (russi, ucraini, bielorussi, polacchi). Se la guerra della Germania contro l’Unione Sovietica fosse andata come pianificato, 30 milioni di civili sarebbero morti di fame durante il primo inverno e in seguito decine di milioni sarebbero stati espulsi, trucidati, assimilati o resi schiavi. Benché questi piani non siano stati realizzati, fornirono i fondamenti morali della politica tedesca d’occupazione dell’Est. Durante la guerra i tedeschi eliminarono in egual misura ebrei e non, principalmente affamando i prigionieri di guerra sovietici (più di 3 milioni) e gli abitanti delle città assediate (oltre un milione) o uccidendo civili nel corso di «rappresaglie» (più di mezzo milione, soprattutto di bielorussi e polacchi).

Durante la Seconda guerra mondiale l’Unione Sovietica sconfisse la Germania nazista sul fronte orientale, ottenendo in tal modo la gratitudine di milioni di persone nei confronti di Stalin e un ruolo fondamentale nella definizione dell’ordine postbellico in Europa. Ma le uccisioni di massa attuate da Stalin erano impressionanti quanto quelle ordinate da Hitler. Anzi, in tempo di pace furono peggiori. Con il pretesto di difendere e modernizzare l’Unione Sovietica, negli anni Trenta Stalin fu responsabile della morte per fame di milioni di concittadini e della fucilazione di 750 000 persone. Stalin massacrò i propri connazionali con la stessa efficienza con cui Hitler eliminò gli abitanti di altri paesi. Dei 14 milioni di persone deliberatamente sterminate nelle terre di sangue tra il 1933 e il 1945, un terzo lo si deve ai sovietici.


Tratto da Terre di sangue. L’Europa nella morsa di Hitler e Stalin, Rizzoli, Milano 2011

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Il LINGUAGGIO della storiografia

Riconduci ciascuna delle seguenti espressioni allo storico che l’ha utilizzata e contestualizzala rispetto alla tesi sostenuta nei testi che hai letto (massimo 5 righe).


a) Il regime stalinista e quello nazista “fanno parte della stessa famiglia”.

b) L’uccisione di massa degli ebrei da parte dei tedeschi non ebbe luogo in Germania.

c) Stalin eliminò i propri connazionali con la stessa efficienza con cui Hitler eliminò gli abitanti di altri paesi.

d) Il “mito” della leadership.

Storie A CONFRONTO

Individua la tesi di fondo dei due testi proposti aiutandoti con lo schema di inizio sezione e compila la seguente scheda di sintesi e comparazione dei documenti.


Mito e consenso di massa nel regime staliniano e nazista

L’Europa orientale come luogo di sterminio tra Hitler e Stalin

TESI

ARGOMENTAZIONI

PAROLE CHIAVE

RIASSUMERE un testo argomentativo

CLIL Leggi la recensione comparsa sul The Guardian al libro di Timothy Snyder da cui è tratto il testo 2, sottolinea i concetti chiave e riportali in uno schema di sintesi.

He found himself treading upon “bottomless, unsteady earth” crawling with small flies. The novelist Vasily Grossman, then a Red Army soldier, was walking across the still-settling wasteland where the extermination camp of Treblinka had stood until nine months before. As Timothy Snyder writes, Grossman “found the remnants: photographs of children in Warsaw and Vienna; a bit of Ukrainian embroidery; a sack of hair, blonde and black”. The loose soil, flung around by peasants digging for Jewish gold, was still “throwing out crushed bones, teeth, clothes, papers”.

The history of modern Europe, and especially of its fearsome 20th century, is like that field: unsteady under the scholar’s foot. Forgotten stuff works its way to the surface. Some historians use metal-detectors to snatch out something flashy. Others do patient archaeology, relating the tiniest object in each stratum to its context. Snyder is the second kind.

In this book, he seems to have set himself three labours. The first was to bring together the enormous mass of fresh research – some of it his own – into Soviet and Nazi killing, and produce something like a final and definitive account. (Since the fall of communism, archives have continued to open and witnesses – Polish, Ukrainian, Belarussian especially – have continued to break silence.) But Snyder’s second job was to limit his own scope, by subject and by place. He is not writing about the fate of soldiers or bombing victims in the second world war, and neither is he confining himself to the Jewish Holocaust. His subject is the deliberate mass murder of civilians – Jewish and non-Jewish – in a particular zone of Europe in a particular time-frame.

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percorso 2

La crisi economica le sue conseguenze sociali e politiche

La Grande crisi del 1929 interruppe drammaticamente la fase di straordinaria espansione americana e al tempo stesso gli sforzi di ricostruzione dell’assetto economico, sociale e politico che l’Europa aveva intrapreso dopo il 1918. Lo storico tedesco Wolfgang Schivelbusch ha analizzato le tendenze e le correnti comuni al New Deal rooseveltiano, al fascismo e al nazismo, interpretandole come diverse varianti di una reazione al modello liberista e liberale fondato sulle libere forze del mercato. D’altro canto, lo storico inglese Adam Tooze ha analizzato la crisi dell’ordine politico ed economico internazionale degli anni Venti, costruito intorno all’ascesa del nuovo potere globale degli Stati Uniti, l’avvento al governo del nazionalsocialismo e le politiche di riarmo con cui il regime di Hitler rispose alla crisi economica.

testo 1
Wolfgan Schivelbusch

Il New Deal e il nuovo ordine postliberale

Nonostante fosse ancorato a un regime democratico, il New Deal rooseveltiano condivideva con l’Italia fascista e la Germania nazista le tendenze a superare il liberalismo e a creare un nuovo ordine in cui le autorità statali svolgevano un ruolo inedito e decisivo.

Nei vent’anni precedenti la Prima guerra mondiale, l’Italia, la Germania e gli Stati Uniti avevano visto l’ascesa di movimenti di riforma e di protesta che mettevano in luce il fallimento del liberalismo nel gestire gli effetti economici e sociali dell’età moderna. All’inizio illuminato e progressista, il liberalismo sembrava ora avere esaurito la propria vitalità, degenerando in un ordine economico che polarizzava sempre più la società tra ricchi e poveri, e in un sistema politico tanto obsoleto per la società di massa di fine Ottocento, quanto l’assolutismo feudale lo era stato per l’emergente società borghese un secolo prima. Lo stesso valeva per la cultura liberale che, si pensava, non serviva più alla causa dell’emancipazione e dell’illuminismo, e si era ridotta a un’industria dello svago, volta ad assicurare il dominio dei pochi sulla moltitudine. Ancor più che le disuguaglianze economiche, ciò che disgustava le élite critiche era la produzione di massa di una cultura dozzinale e manipolatrice destinata al popolo. Per la generazione nata intorno al 1870, che aveva raggiunto la maturità nell’ultimo decennio del secolo, la mercificazione della cultura era intollerabile soprattutto perché andava nel senso diametralmente opposto a quello di un elevato ideale di patria, con il quale erano cresciuti e che aveva animato le guerre per l’unità nazionale in tutti e tre i paesi. Tale ideale veniva accantonato, mentre la società entrava in una fase di avidità senza freni. Alla Guerra di secessione negli Stati Uniti era seguita l’età d’oro dei robber barons, i «baroni della rapina»1; all’unificazione tedesca nel 1871 la speculazione finanziaria e una serie di crolli in borsa; alla fondazione dello Stato nazionale in Italia la corruzione parlamentare.

Chi si considerava moderno nel 1890 non era più liberale. Qualcuno optava per l’estetismo. Altri si dedicavano a salvare la natura dalla devastazione capitalista o ad affrancare2 la tecnologia dalle pretese illimitate del profitto. Altri ancora cercavano un’alternativa all’anarchia del laissez-faire nell’organizzazione sociale, nella disciplina e, alla fine, nel nazionalismo, che tentava di ridare vita agli ideali emersi negli anni della formazione dello Stato nazionale. Uno degli obiettivi ricorrenti della generazione postliberale alla svolta del secolo era quello di affrancare lo Stato dagli affaristi, promuovendolo dal semplice ruolo di sorvegliante al servizio del capitale a quello di direttore di polso che indica a chi ha i soldi che cosa fare.

Le motivazioni dei postliberali non erano poi così disinteressate come affermavano. Una volta chiuse le estreme frontiere del capitalismo del laissez-faire ed eliminate le opportunità offerte dal liberismo, restavano poche porte aperte alla mobilità economica e sociale. A differenza dell’alta borghesia finanziaria e industriale, la classe media poteva migliorare la propria condizione solo attraverso l’istruzione e la formazione professionale. L’esigenza di trovare aspirazioni diverse dall’ideale dell’imprenditorialità liberale fece nascere una figura professionale di nuovo tipo, quella dell’amministratore o del tecnocrate3. In mancanza di risorse di capitale proprie, gli appartenenti alla nuova classe dirigente si consideravano la vera élite, collocata dalle proprie qualifiche tecniche e professionali al di sopra degli imprenditori e la cui vocazione era di dirigere l’economia, la società e, a conti fatti, l’intera nazione.

Le concezioni postliberali di un nuovo ordine economico, sociale e statale avevano due fonti d’ispirazione: la teoria socialista di una sintesi tra economia e Stato, e il modello prussiano del controllo statale dell’economia. Alla svolta del secolo, mentre parte della classe media finiva per aderire al socialismo, erano sorte diverse interpretazioni originali di tale sintesi. Messo da parte il dogma marxista del proletariato, il socialismo cristiano, quello nazionale, quello prussiano e altri ancora offrivano dottrine salvifiche per chiunque, a prescindere dalla classe di appartenenza.

Il corrispettivo americano di tali movimenti fu il progressismo, dal quale il New Deal avrebbe tratto molte idee; anzi, numerosi sostenitori del New Deal avevano esordito tra le fila di quel movimento. Il progressismo, che tanta influenza ebbe sul giovane Franklin Delano Roosevelt4, si rifaceva, a sua volta, al modello prussiano-tedesco.

Nel 1912, Roosevelt citava i riformatori tedeschi come modelli per un nuovo equilibrio tra libertà individuale e responsabilità collettiva: «Essi hanno superato la libertà del singolo di fare ciò che vuole dei propri beni e hanno scoperto che era necessario porre un freno a tale libertà a vantaggio della libertà del popolo». Inoltre tutti i maggiori esponenti del progressismo, compreso Woodrow Wilson5, avevano studiato in università tedesche o in università americane organizzate secondo il modello tedesco. Nel corso degli studi avevano imparato ad apprezzare la teoria hegeliana6 di uno Stato forte e il militarismo prussiano come il metodo più efficace per organizzare una società moderna, che non poteva più essere dominata dai principi anarchici del liberalismo. Tale influenza vide il suo apice nel celebre saggio di William James7, The Moral Equivalent of War (1910), che sottolineava l’importanza fondamentale della disciplina, dell’ordine e della pianificazione. Ironia volle che pochi anni dopo i progressisti americani bollassero il militarismo prussiano come il flagello dell’umanità e sostenessero che l’America aveva il dovere morale di entrare in guerra in difesa della libertà e della democrazia.

Il militarismo dei progressisti americani ricorda quello di Mussolini e della sua corrente nel Partito socialista italiano, che considerava la Grande guerra come un mezzo per la rivoluzione mondiale. Per i tecnocrati del progressismo americano, l’ingresso in guerra significava qualcosa di più della difesa della democrazia: era la loro occasione di prendere la guida dello Stato. In una sola mossa sarebbero forse riusciti a ottenere ciò che i magnati dell’industria avevano sempre impedito in tempo di pace; un sostanziale rinnovamento dell’economia, della società, dell’intera nazione. Nel linguaggio dei progressisti, i termini warfare8 e welfare9 diventarono spesso intercambiabili.

I progressisti conservarono le proprie elevate aspirazioni per tutto il corso del conflitto. Sotto l’egida del «socialismo di guerra», le redini della società e dell’economia erano state messe improvvisamente e apparentemente nelle mani di funzionari specializzati, che dovevano rispondere non a proprietari privati, ma alla nazione stessa. E che si consideravano gli unici leader legittimi del popolo americano. L’euforia di quei giorni era pari a quella che ci sarebbe stata agli esordi del New Deal. Nel 1917, la relazione di uno dei dirigenti del tempo di guerra a Washington avrebbe potuto essere scritta nel 1933:

L’entusiasmo per il servizio sociale è epidemico. Sta sorgendo una ricca messe di nuovi enti. Noi andiamo e veniamo dalla capitale; riempiamo gli uffici di macchine per scrivere e mettiamo nuove insegne; facciamo telefonate frenetiche, senza badare a spese, ricorriamo a ogni espediente per un «lavoro promozionale» efficace. È tutto molto entusiasmante, stimolante, inebriante.

I burocrati progressisti erano animati dalla convinzione di trovarsi all’inizio di una nuova età illuminata di «collettivismo democratico»10. Uno di loro esultava: «Il laissez-faire è defunto. Viva il controllo sociale: controllo sociale che non solo ci permette di fare fronte alle rigorose esigenze belliche, ma anche di gettare le basi per la pace e la fratellanza che verranno».


Tratto da Tre New Deal. Parallelismi tra gli Stati Uniti di Roosevelt, l’Italia di Mussolini e la Germania di Hitler, 1933-1939, Tropea, Milano 2008

Storie. Il passato nel presente - volume 3
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