9.8 L’Italia fra il 1943 e il 1944

9.8 L’Italia fra il 1943 e il 1944

La situazione della penisola

Le disastrose campagne militari nei Balcani, in Unione Sovietica e in Africa oltre ai bombardamenti alleati sulle città dell’Italia centrale e settentrionale, minarono la popolarità del regime fascista. Nel marzo del 1943, nelle città industriali del Nord, e in particolare a Torino, si verificarono una serie di scioperi. Le proteste operaie – le prime da decenni – non si tradussero in aperta forma di opposizione politica, ma rappresentarono comunque un significativo termometro del malcontento sociale ed economico dovuto alle privazioni, alla fame, alle difficoltà di procurarsi i beni di prima necessità senza dover ricorrere al mercato nero.

Fu però l’avanzata delle forze alleate a infliggere il colpo decisivo al regime fascista. Il 10 luglio 1943 gli Alleati avviarono lo sbarco in Sicilia, di cui assunsero il controllo in poche settimane [ 22].

Dal 25 luglio all’8 settembre 1943

In questa situazione, nella seduta del Gran consiglio del fascismo convocata da Dino Grandi [▶ cap. 5.4], la notte fra il 24 e il 25 luglio 1943 Mussolini fu sostanzialmente sfiduciato dai suoi gerarchi: oltre a Grandi, anche Giuseppe Bottai e Galeazzo Ciano votarono infatti un ordine del giorno che ripristinava il controllo del re sulle forze armate. Nel pomeriggio Mussolini si recò da Vittorio Emanuele III, che lo esortò a dare le dimissioni; dopodiché il duce fu arrestato dai carabinieri. Anche se alla diffusione della notizia si scatenò una vera e propria ribellione popolare contro i simboli del potere fascista, la fine del regime di Mussolini fu sostanzialmente un’operazione dall’alto, guidata da una ristretta cerchia di gerarchi in contatto con i maggiori industriali e facente capo, in ultima analisi, al re. La destituzione di Mussolini fu considerata da questi l’unica speranza di evitare il collasso totale delle istituzioni e delle strutture produttive del paese.

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Vittorio Emanuele III nominò allora come nuovo presidente del Consiglio il generale Pietro Badoglio, che annunciò il proseguimento della guerra a fianco dell’Asse. Nonostante queste rassicurazioni, però, nel corso del mese di agosto le forze tedesche affluirono massicciamente, ancorché in modo discreto, sulla penisola. I sospetti di Hitler circa l’intenzione dell’Italia di defilarsi dalla guerra erano in effetti ben fondati: il 3 settembre fu firmato a Cassibile (vicino a Siracusa) l’armistizio con gli Alleati, annunciato da Badoglio al popolo italiano la sera dell’8 settembre con un discorso radiofonico. Il capo del governo invitava l’esercito a cessare ogni atto di ostilità verso le forze angloamericane e a reagire contro «eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza». Di fatto le truppe italiane si trovavano improvvisamente prive di una guida.

L’occupazione italiana e il crollo delle istituzioni

Così, mentre le forze armate italiane erano allo sbando, le divisioni della Wehrmacht prendevano controllo dei luoghi strategici e disarmavano i loro ex alleati. La confusione fu alimentata, il 9 settembre, dalla fuga di Vittorio Emanuele III e del governo Badoglio prima a Pescara e poi a Brindisi, già controllata dagli Alleati. Così, mentre in parte del Sud le strutture amministrative e burocratiche si mantennero attive, nei territori non ancora conquistati dagli Alleati le istituzioni statali crollarono e ogni senso di autorità si dissolse.

L’esercito fu sottoposto ai rastrellamenti tedeschi su tutti i fronti in cui era schierato; l’unica alternativa alla resa agli ex alleati era quella di opporsi loro con le armi. Ciò avvenne per esempio sull’isola greca di Cefalonia, dove, fra il 23 e il 28 settembre, migliaia di soldati della divisione Acqui furono uccisi dalle truppe tedesche incaricate di occupare l’isola. Le altre divisioni italiane furono neutralizzate e smantellate e oltre 600 000 soldati furono deportati in Germania.

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Gli esiti della dissoluzione dello Stato italiano furono particolarmente drammatici nelle zone del confine orientale, investite da vendette e rappresaglie in cui la lotta antifa­scista assumeva i tratti di una rivolta contadina. Nel corso del settembre 1943 alcune centinaia di italiani (fra 300 e 500) più o meno direttamente collegati al regime fascista furono uccisi e, in parte, gettati nelle ▶ foibe dell’Istria. Subito dopo l’armistizio, inoltre, le province di Trieste, Fiume, dell’Istria e del Friuli, insieme all’Alpenvorland (le province di Bolzano, Trento e Belluno) furono annesse al Reich, che istituì l’Adriatisches Küstenland (Litorale Adriatico) e stabilì un regime d’occupazione particolarmente oppressivo nei confronti delle locali popolazioni “slave”. La Risiera di San Sabba, a Trieste, diventò luogo di transito per la deportazione degli ebrei in Europa orientale e fu essa stessa centro di detenzione ed eliminazione di prigionieri politici [ 23].

Il governo fantoccio di Mussolini

Già il 12 settembre, intanto, Mussolini era stato liberato da un commando di paracadutisti tedeschi dal suo luogo di detenzione sul Gran Sasso. Pochi giorni dopo egli annunciò la costituzione, nel Nord Italia occupato dai tedeschi, della Repubblica sociale italiana (Rsi) o Repubblica di Salò, dal nome della cittadina del Lago di Garda in cui fu stabilita la sua capitale amministrativa. L’enfasi sulla dimensione repubblicana si connetteva alle origini rivoluzionarie del primo fascismo, del quale veniva recuperata anche la vena sociale attraverso progetti di socializzazione delle fabbriche, che rimasero solo nella teoria dato il contesto di crescente scarsità di risorse e mezzi in cui versava il paese. In realtà, il regime di Salò era poco più che uno Stato fantoccio nelle mani di Hitler e la sua funzione fu soprattutto quella di coadiuvare i nazisti nella repressione delle diverse forme di ribellismo che si andavano organizzando in chiave antinazista e antifascista.

Nel nuovo quadro dell’occupazione tedesca si inasprirono ulteriormente anche le politiche antiebraiche. Il 16 ottobre 1943, le Ss, agli ordini di Herbert Kappler e in diretto contatto con Himmler, fecero ingresso al Portico d’Ottavia, il ghetto di Roma, e compirono un rastrellamento che portò alla deportazione di oltre 1200 ebrei, tra i quali circa 200 bambini. Degli oltre mille deportati ad Auschwitz, soltanto 12 fecero ritorno in Italia nel 1945. Complessivamente, la stima più accreditata parla di circa 7500 vittime fra gli ebrei italiani nella Shoah.

Resistenza e guerra civile

Dopo l’euforia iniziale, le reazioni della società italiana alla dissoluzione del regime e dello Stato, e poi all’armistizio, non erano state univoche: alcuni non accettarono il nuovo corso e gridarono al tradimento in nome della lealtà verso il re, il duce o la patria, decidendo di arruolarsi nella Repubblica di Salò (costoro furono poi chiamati, con intento dispregiativo, “repubblichini”); altri scelsero semplicemente di tornare a casa dalla propria famiglia; molti, in particolare nelle campagne, attesero che passasse la guerra, come se fosse un cataclisma naturale.

Ci furono però anche molti italiani che fecero una scelta diversa, o rifiutandosi di aderire alle forze armate repubblichine e pagandone il prezzo con la detenzione o la morte (fra i 30 e i 50 000 internati militari morirono di freddo, per il lavoro forzato o per le esecuzioni); o contribuendo attivamente alla lotta per la liberazione del paese dall’occupazione nazista. Le prime forme di resistenza furono condotte dagli stessi reparti dell’esercito all’indomani dell’armistizio: il 10 settembre a Porta San Paolo, a Roma, i soldati italiani rifiutarono di consegnare le armi e tentarono di difendere la città dall’invasione delle truppe tedesche.

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Il 13 ottobre il re e il governo Badoglio, legittimi rappresentanti di uno Stato ristretto al Mezzogiorno d’Italia, dichiararono guerra alla Germania: l’Italia diveniva così cobelligerante degli Alleati, affiancandoli con un’unità militare chiamata Corpo italiano di liberazione. Le forze angloamericane, tuttavia, faticavano a risalire la penisola, che rimaneva in gran parte sottoposta all’occupazione nazista.

Nelle regioni centrosettentrionali cominciarono così a costituirsi le prime formazioni partigiane per la lotta contro la Repubblica di Salò e l’occupante tedesco, raccolte intorno agli antifascisti che, fuggiti in esilio o detenuti al confino o in prigione, erano rientrati in Italia o erano stati scarcerati. I comunisti svolsero un ruolo primario nell’organizzazione delle prime bande armate (Brigate Garibaldi), insieme ai socialisti (Brigate Matteotti) e ai membri del Partito d’azione (Brigate Giustizia e libertà), quest’ultimo fondato nel 1942 con il proposito di raccogliere liberali e socialisti insieme agli eredi del gruppo antifascista Giustizia e libertà [▶ cap. 5.1]. Non mancarono comunque anche formazioni di orientamento cattolico e monarchico.

Le bande, in realtà, si componevano spesso per caso, senza troppo badare alle affiliazioni politiche. Ad esse si associarono anche un numero crescente di disertori, dopo che un bando della Repubblica di Salò, nel mese di novembre, aveva imposto una nuova campagna di reclutamento. Fra l’autunno e l’inverno del 1943 i maggiori nuclei partigiani si radunarono sulle montagne piemontesi e liguri, nell’alto Adriatico, sulla dorsale appenninica e nell’alto Lazio. Nelle città, in particolare a Roma, Milano e Torino, si formarono gruppi clandestini dediti soprattutto alla propaganda; l’anno successivo alcuni di questi (per lo più di orientamento comunista) si sarebbero organizzati in Gruppi d’azione patriottica (Gap), piccole squadre che compivano imboscate e attentati contro gli obiettivi nemici.

I partigiani non dovevano combattere solo gli invasori tedeschi. La Guardia nazionale repubblicana, cioè il corpo di polizia della Repubblica sociale, e le Brigate nere, i gruppi di squadristi fascisti volontari, ebbero un ruolo importante, in coordinamento con le forze d’occupazione naziste, sia nei rastrellamenti dei partigiani, sia nelle rappresaglie contro la popolazione (soprattutto contadina) che offriva sostegno logistico o anche solo riparo e nutrimento ai partigiani. In questo senso, la guerra di liberazione fu anche, a tutti gli effetti, una guerra civile fra italiani collocati su fronti opposti [ 24].

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I partiti politici e il Cln

Intanto, già fra il 25 luglio e l’8 settembre del ‘43, si erano ricostituiti i partiti politici antifascisti: il Partito comunista italiano (Pci), l’unica organizzazione politica rimasta sempre attiva, clandestinamente, anche all’interno del paese; il Partito socialista italiano di unità proletaria (Psiup), la Democrazia cristiana (Dc), erede del Partito popolare; il Partito democratico del lavoro; il Partito liberale italiano (Pli) e il Partito d’azione (Pda) entrambi nati nel 1942.

Il 9 settembre 1943, in una Roma non ancora occupata dai tedeschi, i rappresentanti di questi partiti costituirono il Comitato di liberazione nazionale (Cln), presieduto da Ferruccio Parri, esponente del Pda. Il Cln aveva il compito di dare una direzione politica alla lotta armata e fornì il modello per la costituzione di comitati di liberazione locali in molte zone dell’Italia centrosettentrionale.

Si poneva a questo punto, però, un rilevante nodo politico. I partiti del Cln erano contrari a collaborare con il governo Badoglio e la monarchia, che ritenevano responsabile del Ventennio fascista. L’impasse fu risolta dal segretario del Pci, Palmiro Togliatti, che, approdato il 27 marzo 1944 a Salerno di ritorno da Mosca, dichiarò di accantonare l’ideale repubblicano del Cln, così da superare la contrapposizione politica con il governo monarchico del Sud. La cosiddetta “svolta di Salerno” di Togliatti, che corrispondeva all’interesse sovietico a stabilire rapporti con il governo italiano, fu suggerita o comunque approvata da Stalin. In ogni caso, essa sancì la formazione del primo governo di unità nazionale che, ancora presieduto da Badoglio, vedeva però la partecipazione di tutti i partiti antifascisti. La soluzione della questione istituzionale era differita a un referendum fra monarchia e repubblica da tenersi nel dopoguerra.

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La liberazione di Roma

Gli Alleati erano intanto bloccati presso la linea di difesa Gustav, poco sopra Napoli. Peraltro, nella loro lenta avanzata non mancarono violenze dell’esercito angloamericano contro i civili. Fra il gennaio e il marzo del 1944 feroci combattimenti si svolsero intorno all’abbazia di Montecassino, che fu più volte bombardata. A gennaio le forze alleate avevano tentato di creare una testa di ponte al di là delle linee nemiche con lo sbarco di Anzio, ma non erano riuscite a penetrare rapidamente lungo i 60 chilometri che le separavano da Roma.

La capitale era stata proclamata “▶ città aperta”, ma nemmeno tale status la risparmiò del tutto dai bombardamenti e dai combattimenti. I mesi dell’occupazione nazista furono inoltre segnati da gravi violenze da parte delle forze di occupazione: su tutte, la strage delle Fosse ardeatine, compiuta il 24 marzo 1944, dopo che un camion di 33 riservisti altoatesini era stato fatto saltare in aria dai “gappisti” in via Rasella. L’immediata rappresaglia portò alla fucilazione di 335 civili e militari (dieci individui per ogni soldato ucciso) detenuti nelle carceri romane. Solo il 4 giugno 1944, alla vigilia del grande sbarco alleato in Normandia, le forze angloamericane entrarono a Roma [ 25].

L’organizzazione della Resistenza

Alla liberazione della capitale seguì un periodo di trasformazioni politiche che portò a una maggiore organizzazione della lotta ai nazifascisti. Vittorio Emanuele III, come aveva promesso nei mesi precedenti, lasciò i suoi poteri al figlio Umberto, mentre Ivanoe Bonomi prese il posto di Badoglio alla guida di un nuovo governo composto dalle forze politiche del Cln.

Nel corso del 1944 si dispiegò inoltre un intenso sforzo di politicizzazione delle bande partigiane, soprattutto a fronte delle numerose nuove reclute, che suscitavano competizione fra i partiti. In vista di una vittoria che appariva possibile e imminente, infatti, le file partigiane conobbero un tumultuoso afflusso di nuovi giovani nel­l’estate del 1944, fino a raggiungere una consistenza numerica di oltre 200 000 uomini e donne [▶ protagonisti].

La maggior parte dei partigiani si concentravano nelle aree montuose alpine e appenniniche, da dove muovevano per compiere operazioni di sabotaggio e azioni di guerriglia contro la Wehrmacht e le forze della Rsi, anche grazie agli armamenti forniti dagli Alleati tramite lanci paracadutati. Le donne erano impiegate soprattutto come “staffette”, cioè con funzioni di collegamento fra le unità, di supporto logistico, di trasporto di armi. Nelle città, invece, alle piccole cellule dei Gap, dedite ad atti di terrorismo contro obiettivi militari selezionati, si affiancarono le Squadre d’azione patriottica (Sap), più numerose e specializzate in operazioni di sabotaggio.

Già nel mese di gennaio del 1944, inoltre, si era costituito un Comitato di liberazione Alta Italia (Clnai) con il compito di unificare la direzione politica della Resistenza; a giugno si costituì anche il suo braccio armato, il Corpo volontari della libertà (Cvl). Rispetto ad altri scenari europei (come la Polonia o la Iugoslavia), il movimento di liberazione italiano riuscì dunque a conservare un notevole grado di coesione e di unità, anche se non mancarono contrasti interni, anche violenti (come a Porzûs, il paesino friulano dove, nel febbraio 1945, diciassette membri delle Brigate Osoppo furono uccisi dai partigiani comunisti in seguito ai contrasti derivanti dalla cooperazione fra le Brigate comuniste italiane con quelle iugoslave).

  protagonisti

I partigiani italiani

In un conflitto in cui fu cancellata ogni distinzione tra fronte e retrovie, tra soldati e civili, assunse particolare rilievo la figura del partigiano, ossia del combattente ribelle e irregolare: “ribelle” perché combatteva il potere costituito dei regimi fascisti e nazisti in nome di una nuova legalità antifa­scista (democratica, socialista o comunista); “irregolare” perché, sebbene le brigate partigiane non fossero prive di gerarchie e di­sciplina, esse non costituivano l’esercito ufficiale di uno Stato.

Gli antifascisti militanti

Le figure più significative della Resistenza italiana muovevano da un convinto antifascismo, spesso in continuità con precedenti esperienze di opposizione al regime mussoliniano, condotte nel corso degli anni Trenta attraverso l’emigrazione all’estero o la cospirazione clandestina in patria. Accanto ai rappresentanti storici dei partiti antifascisti – come il comunista Luigi Longo, il socialista Sandro Pertini (futuro presidente della Repubblica italiana) e l’azionista Ferruccio Parri – vi erano anche molti intellettuali in via di formazione, come i partigiani raccontati da Luigi Meneghello, anch’egli partigiano nelle Brigate Giustizia e libertà, ne I piccoli maestri (1964). Durante la lotta partigiana, costoro elaborarono molte riflessioni, testimoniate da numerose pagine di diario, volantini di propaganda e fogli sparsi che riportano il resoconto delle discussioni svolte all’interno delle bande. I più consapevoli e preparati, in genere, erano a capo dei gruppi e incoraggiavano la politicizzazione degli elementi più giovani, formatisi sotto la dittatura e dunque privi di coscienza antifascista.

La Resistenza popolare

Tuttavia, la maggioranza dei partigiani non era diventata tale per consapevole scelta ideologica. Buona parte dei partigiani era formata da renitenti alla leva imposta dalla Repubblica di Salò o da soldati sbandati, cioè rimasti privi di una guida o fuggiti dai propri reggimenti in seguito all’armistizio dell’8 settembre, che miravano anzitutto a salvarsi dalla punizione per diserzione. In quale banda partigiana e sotto quale bandiera politica essi andassero a combattere dipendeva spesso dal caso. Erano spesso la prossimità geografica, un contatto di fiducia o una comune esperienza (militare più che politica) a spingere per l’adesione a un gruppo piuttosto che a un altro.

Talvolta, il caso decideva addirittura lo schieramento in cui combattere: con i partigiani o con i “repubblichini”. Anche sulla base della sua esperienza personale, lo scrittore Italo Calvino, nel suo romanzo Il sentiero dei nidi di ragno (1947), racconta la Resistenza attraverso gli occhi di un giovanissimo protagonista, Pin: «basta un nulla, un passo falso, un impennamento dell’anima e ci si trova dall’altra parte, […] dalla brigata nera, a sparare con lo stesso furore, con lo stesso odio».

Erano letture della Resistenza – quelle di Meneghello e Calvino – lontane dall’immagine eroica e nobile che si dava di essa nell’immediato dopoguerra.

A differenza di quanto era stato sostenuto da una visione tesa a rappresentare un popolo unanimemente antifascista, la Resistenza era in realtà composta da una varia umanità, protagonista anche di gesta tutt’altro che eroiche. Come disse Emanuele Artom, giovane partigiano ebreo piemontese ucciso nel 1944, i partigiani erano «un complesso di individui in parte disinteressati e in buona fede, in parte arrivisti politici, in parte soldati sbandati che temono la deportazione in Germania, in parte spinti dal desiderio di avventura, in parte da quello di rapina».

Guerra civile, guerra di popolo e “zone grigie”

Dai racconti di Beppe Fenoglio, anch’egli giovane partigiano e poi scrittore, emerge anche un altro aspetto: quello della contrapposizione fra italiani e della consapevolezza che fosse in corso una guerra civile, a partire dall’autunno del 1943. Una guerra particolarmente dura, quindi, che non ammetteva prigionieri ed esponeva le popolazioni civili alla minaccia di rappresaglie fasciste e naziste. Il coinvolgimento dei civili, peraltro, è un dato strutturale della Resistenza italiana, che non fu solo un movimento armato, ma implicò anche una varietà di azioni di collaborazione e assistenza da parte della popolazione e una vasta rete di solidarietà e complicità non meno rischiose della lotta armata.

Proprio per questo, accanto a tante famiglie che rischiarono tutto, parte delle popolazioni rurali rimase indifferente o addirittura ostile alla causa dei partigiani, visti come intrusi nella vita delle loro comunità e un pericolo per le proprie vite e i propri beni. Fu, questo, uno dei nuclei più ampi di quella “zona grigia” costituita da coloro che non fecero una scelta di parte, rimanendo spettatori passivi della guerra civile tra fascismo e antifascismo.

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Verso un nuovo inverno di guerra

Raramente i partigiani ingaggiavano battaglie in campo aperto, dove prevalevano la superiore forza organizzativa e l’armamento pesante del nemico. Tuttavia, nell’estate del 1944 furono costituite le cosiddette “repubbliche partigiane”, ampie aree affrancate dall’occupazione nazista e poste sotto il controllo delle forze resistenziali. Le esperienze più importanti, di ampiezza e durata variabile, avvennero in Carnia, ad Alba (nelle Langhe), in Val d’Ossola e nella zona di Montefiorino (Emilia-Romagna). Nonostante il loro eccezionale valore simbolico e una significativa forza militare, tuttavia, nel giro di qualche mese, se non di qualche settimana, le repubbliche partigiane furono destinate a soccombere di fronte alle truppe fasciste e naziste.

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Al rafforzamento della Resistenza corrispose infatti l’intensificazione delle politiche repressive, anche per il trasferimento di truppe tedesche dal fronte orientale alla penisola. Fra l’estate e l’autunno del 1944 le forze di occupazione compirono una serie di stragi (come quelle di Sant’Anna di Stazzema, Civitella di Chiana, Padule di Fucecchio e Monte Sole), in cui furono uccisi oltre 3600 civili. La più grave avvenne fra il 29 settembre e il 5 ottobre 1944: 771 abitanti dei comuni attorno al Monte Sole, fra cui il più importante è Marzabotto, furono massacrati dai nazisti come rappresaglia per le azioni, svolte in quei territori, della Brigata “Stella rossa”.

Mentre nell’agosto 1944, in un contesto internazionale di generale progresso delle forze alleate, veniva liberata Firenze, si affacciava la speranza che non vi sarebbe stato un altro inverno di guerra. Tuttavia, in autunno il fronte si attestò lungo la linea Gotica, un sistema di fortificazioni difensive approntate dal feldmaresciallo tedesco Albert von Kesselring, capo delle forze tedesche di occupazione, che riuscirono ad arrestare l’avanzata alleata verso il Centro-Nord [ 26]. Alla fine di novembre, il feldmaresciallo inglese Harold Alexander chiese alle formazioni partigiane di sospendere le loro attività e di attestarsi su posizioni difensive, mentre annunciava che le forze alleate avrebbero interrotto la loro avanzata lungo la penisola italiana durante l’inverno. La fine della guerra era ancora rimandata.

Storie. Il passato nel presente - volume 3
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