9.6 Le prime sconfitte naziste

9.6 Le prime sconfitte naziste

Dall’assedio di Leningrado alla svolta di Stalingrado

All’inizio di settembre del 1941, due mesi prima dell’attacco giapponese a Pearl Harbor, i tedeschi avevano intanto iniziato l’assedio di Leningrado, destinato a durare oltre 900 giorni (fino al gennaio 1944). Gli abitanti della città cercarono di resistere in ogni modo, anche tenendo aperte le università e gli esercizi commerciali, ma i collegamenti e i rifornimenti erano assicurati soltanto da precarie piste tracciate sui laghi ghiacciati Ladoga e Onega [ 16]; oltre un milione di persone morì di fame, molte delle quali nel corso dell’inverno 1942-43, quando le temperature scesero a 40 gradi sotto zero.

Nella primavera del 1942, dopo una battuta d’arresto invernale, l’offensiva tedesca si diresse anche in direzione dei campi petroliferi del Caucaso. In questa marcia verso sud, l’esercito tedesco godette di un ampio appoggio fra la popolazione grazie all’annuncio dello scioglimento dei tanto odiati colcos [▶ cap. 6.2]. L’esercito sovietico, invece, subì perdite impressionanti, spesso dovute alla ferma volontà di Stalin di evitare ogni forma di ritirata tattica, esponendo le truppe all’accerchiamento.

Nonostante ciò, i tedeschi erano sempre più in difficoltà nel reintegrare mezzi e divisioni. In estate la loro avanzata, sostenuta anche dalle meno efficienti forze ungheresi, rumene e italiane, si arrestò a Stalingrado (attuale Volgograd), dove oltre due milioni di soldati si combatterono ferocemente, via per via, casa per casa, dal 17 luglio 1942 al 2 febbraio 1943, causando la morte di oltre 700 000 soldati dell’Asse e di oltre un milione di sovietici, fra militari e civili [ 17]. In novembre la Wehrmacht, pur a un prezzo altissimo, riuscì a circondare l’Armata rossa e a cingerla d’assedio in alcuni quartieri occidentali lungo il fiume Volga. Fu un assedio drammatico ed epico, che portò lo scrittore Vassilij Grossman a dire: «Stalingrado è bruciata. Stalingrado è in cenere. È morta. La gente vive nelle cantine. Tutto è consumato dal fuoco... Molti impazziscono».

La resistenza della città, tuttavia, non fu vana. Nel giro di poche settimane, fra novembre e dicembre, le forze sovietiche riuscirono a circondare e a isolare la Sesta Armata tedesca, rovesciando le sorti dei combattimenti. Hitler ordinò al feldmaresciallo von Paulus di battersi a oltranza, attivando un ponte aereo per inviare armi e rifornimenti ai soldati sotto assedio. Tuttavia, dopo terribili scontri, all’inizio di febbraio i 200 000 uomini al comando di von Paulus e i circa 300 000 effettivi dei suoi alleati si arresero, segnando così la fine della battaglia e l’avvio della controffensiva sovietica.

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Particolarmente tragica, in questo contesto, fu la sorte dell’Ottava Armata italiana, l’Armir (Armata italiana in Russia) che combatté a fianco della Wehrmacht fra il luglio 1942 e il marzo 1943. Schierata lungo il fiume Don e composta prevalentemente da alpini mal equipaggiati per l’inverno russo, l’armata fu travolta dalle forze sovietiche e costretta a una catastrofica ritirata.

La ripresa della guerra d’Africa

In concomitanza con l’intensificazione degli scontri intorno a Stalingrado e in risposta a un’esplicita richiesta d’aiuto da parte sovietica, nella notte tra il 7 e l’8 novembre 1942 gli Alleati angloamericani sbarcarono in Africa settentrionale, in modo da impegnare le potenze dell’Asse anche su questo fronte. Con la cosiddetta “operazione Torch” essi riuscirono ad assumere il controllo dello stretto di Gibilterra, fino ad allora in mano alla Spagna di Franco – formalmente fuori dal conflitto ma di fatto vicina alla Germania di Hitler – e a conquistare il Marocco e l’Algeria, che si trovavano sotto il dominio temporaneo della Francia di Vichy. Le forze coloniali francesi, dispiegate nel Maghreb e inizialmente leali al regime di Vichy, si spostarono allora su posizioni vicine a France Libre, il movimento di resistenza fondato a Londra da Charles De Gaulle e poi diventato una forza combattente antinazista in Europa e nelle colonie. Proprio in Marocco, a Casablanca, nel gennaio del 1943, Roosevelt e Churchill avevano stabilito di condurre la guerra fino alla resa incondizionata della Germania, escludendo qualsiasi possibilità di una pace separata.

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Il feldmaresciallo Erwin Rommel – soprannominato la “volpe del deserto” – muoveva intanto le truppe dell’Afrikakorps dalla Libia, allora sotto governo italiano, verso il canale di Suez. Dopo una rapida avanzata dall’Egitto, le forze britanniche guidate dal generale Montgomery sconfissero le forze tedesche e italiane a El Alamein, non lontano da Alessandria d’Egitto, presso l’allora confine con la Libia. La battaglia si protrasse dalla fine di ottobre alla fine di novembre del 1942: le forze dell’Asse, ormai esauste, si ritirarono in modo caotico verso la Libia e la Tunisia, ma la loro capitolazione definitiva arrivò soltanto nel maggio 1943, con la cattura di 250 000 soldati tedeschi e italiani. Acquisito un saldo controllo dell’Africa settentrionale, le truppe angloa­mericane potevano ora preparare lo sbarco in Sicilia, in modo da avvicinarsi anche da sud ai territori europei sotto il dominio nazifascista.

9.7 Le politiche di sterminio e la Shoah

Il prezzo del “Nuovo ordine” nazista

Il “Nuovo ordine europeo” presupponeva la distruzione degli Stati nati dalla Grande guerra e l’asservimento del continente al soddisfacimento dei bisogni materiali del Reich. La politica dello “spazio vitale” (Lebensraum) [▶ cap. 8.3], infatti, aveva allo stesso tempo ragioni economiche e ideologiche: se fra i suoi principali obiettivi vi era la conquista dell’Ucraina, il “granaio d’Europa” che avrebbe garantito alla società tedesca le risorse alimentari necessarie, essa si esprimeva anche nel disegno di annientamento dell’Unione Sovietica, patria del bolscevismo.

La conquista dell’Est, inoltre, rispondeva alle istanze di un’utopia agraria e coloniale combinata con il sogno della purezza razziale. Così, mentre prendeva possesso dei territori dell’Europa orientale, Hitler mirava a riorganizzarne il composito quadro nazionale e sociale attraverso il trasferimento delle popolazioni “slave” e il reinsediamento di nuove comunità tedesche. Furono perciò abbozzati piani per sterminare con la fame fino a 30 milioni di “slavi”, abitanti per lo più nelle città sovietiche.

La sistematica eliminazione degli ebrei dell’Est

Al centro della visione nazista del nuovo ordine in Europa orientale c’era anche la risoluzione della “questione ebraica”. Occupazioni e conquiste territoriali – a partire dall’invasione della Polonia – avevano paradossalmente reso la Germania nazista un grande Stato multinazionale, con un notevole aumento della popolazione ebraica (prevalentemente concentrata nell’Est europeo). Al fine di promuovere una complessiva e radicale ristrutturazione dello spazio europeo e delle sue caratteristiche demografiche e culturali, si pensò dunque a un progetto organico e pianificato di deportazione ed eliminazione degli ebrei. Le autorità tedesche presero in considerazione una varietà di opzioni, come il trasferimento degli ebrei oltre gli Urali o in terre lontane, come il Madagascar, ma nessuna di queste ipotesi si rivelò realizzabile. Poi, il 31 luglio 1941, Hermann Göring, uno dei massimi gerarchi del regime, ordinò a Heinrich Himmler, capo dell’Ufficio di sicurezza centrale del Reich, di preparare la “soluzione finale del problema ebraico”.

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I primi massacri degli ebrei in Europa orientale erano in realtà già in corso. Nel vuoto di potere che si era aperto fra la ritirata sovietica e l’avanzata nazista, le popolazioni locali – soprattutto polacchi, lituani, lettoni e ucraini – si scatenarono contro le comunità ebraiche, uccidendo, torturando e saccheggiando. I pogrom costituivano una pratica di lunga tradizione [▶ cap. 1.2], ma furono esasperati dalle condizioni brutali della guerra del 1941, dalla convinzione che l’occupazione sovietica avesse favorito la comunità ebraica e dalla volontà di impadronirsi dei loro beni da parte dei contadini.

Queste azioni erano condotte su iniziativa dei comandanti nazisti locali, che le intensificarono dopo aver ottenuto un ampio mandato da Berlino. Proprio nel luglio 1941, per esempio, cominciarono una serie di massacri nel bosco di Ponary in Lituania, dove i tedeschi, con la collaborazione delle forze nazionaliste lituane, fucilarono oltre 70 000 ebrei, ossia la maggior parte della comunità ebraica di Vilnius, nota come la “Gerusalemme del Nord”. Fra il 29 e il 30 settembre 1941, a Babij Jar, alle porte di Kiev, furono uccisi oltre 33 000 ebrei, con l’attiva collaborazione della polizia ausiliare ucraina. Agirono invece autonomamente le truppe rumene, che avevano preso il controllo della Bessarabia e delle coste intorno al Mar Nero: a seguito di un attentato contro il comando di occupazione rumeno, fra il 22 e il 24 ottobre 1941 la quasi totalità della comunità ebraica di Odessa, oltre 20 000 individui, fu massacrata per rappresaglia [ 18].

Intanto, fra ottobre e novembre, Hitler ordinò la deportazione degli ebrei tedeschi verso est, nei ghetti di Minsk, Riga e Kaunas, che erano ormai cresciuti a dismisura, insieme a quelli polacchi di Varsavia, Lodz e Lublino [ 19]. Gli ebrei sovietici continuavano invece a essere eliminati per fucilazione a centinaia di migliaia.

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Verso la pianificazione dello sterminio

Le fucilazioni e i massacri sul campo si erano accompagnati, fin dall’autunno 1939, ad altri metodi di “purificazione” razziale e genetica della popolazione nazionale, che contemplavano anche l’eliminazione di individui: vittime di malattie incurabili, di patologie mentali o di gravi disabilità fisiche erano considerati espressione di una degenerazione dell’umanità, oltre che un costo economico dovuto alle necessità della loro assistenza sanitaria. Condotto in segreto e formalmente concluso nell’agosto del 1941, il programma eutanasia [▶ cap. 8.3] portò all’uccisione deliberata di oltre 200 000 pazienti da parte di medici e infermieri. Nel settembre 1941, gli specialisti di questo programma trasformarono il castello di Chelmno (in Polonia, vicino a Lodz) in un campo di concentramento, nel quale sperimentarono anche l’uso del gas contro un gruppo di ebrei.

Anche sulla base di queste esperienze, durante la Conferenza di Wannsee (alle porte di Berlino) del gennaio 1942, avvenuta nel quadro delle crescenti difficoltà del­l’operazione Barbarossa, furono ratificati dei piani di sterminio organici, ufficialmente presentati come un’«evacuazione verso est». Nella “soluzione finale della questione ebraica” [▶ Fonti] dovevano essere coinvolti tutti i ministeri e gli apparati dello Stato, anche se erano le Ss a prendersi carico dell’organizzazione complessiva delle operazioni.

Sotto la direzione del colonnello delle Ss Adolf Eichmann, le reti ferroviarie smistavano i convogli di deportati diretti ai campi di sterminio, prevalentemente localizzati nella Polonia sotto il controllo del Governatorato generale [ 20]. I campi di sterminio erano molto diversi dai campi di concentramento, dove pure i prigionieri morivano a decine di migliaia a seguito di esecuzioni, maltrattamenti e privazioni di ogni sorta; essi erano essenzialmente costruiti intorno a due strutture: le camere a gas, stanze nelle quali i detenuti, apparentemente condotti per fare la doccia, erano uccisi con lo Zyklon B (un gas letale) e i forni crematori, dove i Sonderkommando, letteralmente “unità speciali”, formate per la maggior parte da prigionieri ebrei, erano costretti ad assolvere il terribile compito di bruciare i corpi che provenivano dalle camere a gas. Tutte queste operazioni avvenivano sotto il controllo di speciali reparti delle Ss, composti anche da collaborazionisti locali, che sorvegliavano le strutture e gestivano il processo di selezione e di eliminazione delle vittime.

FONTI

La “soluzione finale” di Wannsee

Non esiste alcun documento che attesti un ordine scritto da parte di Adolf Hitler riguardante l’avvio dello sterminio degli ebrei. Esso fu piuttosto un processo connesso alla guerra sul fronte orientale, accelerato dalle crescenti difficoltà incontrate nell’inverno 1941-42. La Conferenza di Wannsee, un breve incontro che si tenne vicino a Berlino il 20 gennaio 1942, fu convocata da Reinhard Heydrich, il capo dell’Sd, il Servizio di sicurezza delle Ss, per informare un gruppo ristretto delle operazioni in corso sotto il nome in codice di “soluzione finale della questione ebraica”. Nessuno dei presenti oppose obiezioni; il verbale della riunione fu redatto da Adolf Eichmann, uno dei maggiori responsabili della Shoah, secondo le istruzioni di Heydrich, che intendeva coordinare il lavoro dei diversi ministeri competenti.

All’inizio il capo della Polizia di sicurezza1 e dell’Sd, l’Obergruppenführer2 della Ss Heydrich, ha comunicato di essere stato incaricato dal maresciallo del Reich3 della preparazione della soluzione finale della questione ebraica in Europa e ha accennato al fatto che la riunione era stata convocata allo scopo di chiarire alcune questioni fondamentali. Il desiderio, espresso dal maresciallo del Reich, di ricevere un piano dei provvedimenti da adottare riguardo all’organizzazione, l’attuazione e i mezzi materiali necessari [...], presuppone una preventiva concertazione delle questioni che interessano tutte le istanze centrali in vista di una sincronizzazione delle linee di condotta.

La responsabilità della direzione della soluzione finale della questione ebraica spetta, senza riguardo a questioni di confini geografici, al Reichsführer della Ss4 e capo della polizia tedesca (capo della Polizia di sicurezza e dell’Sd).

Il capo della Polizia di sicurezza e dell’Sd ha quindi passato rapidamente in rassegna i momenti salienti della battaglia condotta finora contro questo avversario:

a) il respingimento degli ebrei dai singoli territori di insediamento del popolo tedesco;
b) il respingimento degli ebrei dallo spazio vitale del popolo tedesco.

Nel tentativo di pervenire a questi obiettivi, l’unica soluzione possibile provvisoriamente adottata è stata quella di accelerare il ritmo dell’emigrazione degli ebrei dal territorio del Reich, ponendovi mano in maniera pianificata.

[...] Tutti gli uffici si rendevano conto degli svantaggi inerenti a questa accelerazione dell’emigrazione. Tuttavia, in mancanza di altre soluzioni possibili, essi hanno dovuto accettarli.

[...] All’emigrazione è ormai subentrata, quale ulteriore possibilità di soluzione, secondo quanto preventivamente approvato dal Führer, l’evacuazione degli ebrei verso est.

Sebbene queste operazioni rappresentino soltanto una scappatoia, tuttavia, a questo riguardo, vengono fatte, sin da ora, esperienze pratiche della massima importanza ai fini della futura soluzione finale della questione ebraica.


K. Pätzold-E. Schwarz, Ordine del giorno: sterminio degli ebrei. La conferenza del Wannsee del 20 gennaio 1942 e altri documenti sulla “soluzione finale”, Bollati Boringhieri, Torino 2000

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Geografia e bilancio dello sterminio

La “soluzione finale” fu composta in realtà da diversi programmi, fra i quali l’“operazione Reinhard”, che colpì soprattutto gli ebrei polacchi: alla fine del 1943, quando molti dei campi istituiti all’interno di questo programma furono chiusi per l’avanzata dell’Armata rossa, circa 150 000 ebrei erano stati uccisi a Chelmno, 200 000 a Sobibor, 550 000 a Belzec e 750 000 a Treblinka. Fin dal 1940, inoltre, era stato edificato un campo di concentramento e di sterminio a Oswiecim, meglio nota con il nome tedesco di Auschwitz, dove inizialmente furono detenuti soprattutto prigionieri politici polacchi. A poca distanza venne aperto anche un altro enorme campo, quello di Birkenau, inizialmente come stabilimento della Ig Farben, l’azienda chimica che produceva lo Zyklon B e che utilizzava anche i prigionieri nei suoi impianti. Il campo di Birkenau restò aperto fino all’arrivo delle truppe sovietiche (27 gennaio 1945), uccidendo complessivamente oltre un milione di ebrei greci, ungheresi, francesi, olandesi, italiani e polacchi.

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Il numero complessivo di ebrei uccisi durante la Seconda guerra mondiale si aggira intorno ai 6 milioni. Come si è visto, in Polonia, Ucraina, Lituania, Lettonia, Estonia, così come in Serbia, dove ogni forma di istituzione statale locale era collassata, larghissima parte delle comunità ebraiche fu annientata sul posto. Diverso fu il caso in cui le autorità nazionali conservarono almeno parte del proprio potere: in Danimarca, per esempio, la maggior parte della comunità ebraica fu risparmiata dalle deportazioni. Dalla Francia, invece, furono deportati circa 75 000 ebrei, per lo più quelli privi di cittadinanza francese perché emigrati dall’Europa orientale. In Romania furono assassinati soprattutto gli ebrei delle nuove province acquisite nel 1918 o nel 1941, mentre furono salvati quelli appartenenti al vecchio regno. Infine, in Ungheria, 450 000 ebrei, sopravvissuti per larga parte della guerra, furono deportati solo con l’occupazione diretta da parte dei nazisti e la formazione del governo delle Croci Frecciate dopo il marzo 1944 [▶ cap. 8.4].

Oltre agli ebrei (più della metà erano ebrei polacchi), nei campi furono uccisi anche cittadini polacchi (circa 3 milioni) e ucraini (anch’essi circa 3 milioni), prigionieri di guerra sovietici (fra 2 e 3 milioni), bielorussi (circa un milione e mezzo), zingari (le stime oscillano fra 220 000 e 500 000), disabili (270 000), omosessuali (tra 5000 e 15 000) e testimoni di Geova (tra 2500 e 5000).

Nonostante circolassero notizie sempre più precise circa la sorte che li attendeva nei campi, gli ebrei generalmente si avviarono con rassegnazione ai luoghi di detenzione. Solo in alcuni casi si ribellarono. Alla vigilia della chiusura del ghetto di Varsavia, il 19 aprile 1943, primo giorno della Pasqua ebraica, scoppiò una rivolta tanto coraggiosa quanto disperata [ 21]. I giovani militanti del Bund (il movimento socialdemocratico ebraico), armati con mezzi rudimentali e improvvisati, impegnarono le Ss per settimane di duri combattimenti casa per casa. Infine, il ghetto fu messo a ferro e fuoco e i resistenti ebrei furono uccisi. Il 16 maggio, il generale tedesco Stroop telegrafò a Hitler il seguente messaggio: «Il quartiere ebraico di Varsavia non esiste più».

Storie. Il passato nel presente - volume 3
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