7.3 Roosevelt e il New Deal

7.3 Roosevelt e il New Deal

La paura e la democrazia
In un discorso tenuto a San Francisco nel settembre 1932, durante la campagna elettorale, il candidato dei democratici alla presidenza, Franklin Delano Roosevelt, si impegnò con i propri elettori a stringere un New Deal, un “nuovo corso” sociale e politico che risollevasse il paese in crisi [ 8]. Vinte le elezioni nel mese di novembre (con 23 milioni di voti, contro i 16 di Hoover), Roosevelt s’insediò alla Casa Bianca nello stesso momento in cui Hitler vinceva le elezioni in Germania. In una fase storica in cui il fascismo sembrava divenire egemone in Europa, negli Stati Uniti l’esperimento politico e sociale del New Deal intendeva dimostrare che la democrazia liberale era capace di far fronte a una crisi senza precedenti, che generava incertezza, paura e instabilità. «La sola cosa di cui dobbiamo avere paura è la paura stessa!», disse il nuovo presidente nel discorso inaugurale del 4 marzo [▶ FONTI]. Paragonando la gravità della crisi allo stato di guerra, egli giustificò l’uso di poteri straordinari, che tuttavia non arrivarono ad alterare il quadro dello Stato di diritto, essendo impiegati proprio nell’ottica di superare un’emergenza che – questa sì – metteva in pericolo la tenuta democratica del paese. Le misure adottate dall’amministrazione Roosevelt furono infatti approvate con procedure d’emergenza o attuate attraverso la delega di amplissimi poteri dall’organo legislativo (il Congresso) a quello esecutivo (il governo) e lo stesso campo d’azione del governo federale fu nettamente ampliato; tuttavia, una volta approvate queste norme eccezionali, le prerogative del Congresso furono subito ripristinate.

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FONTI

Roosevelt e la “paura della paura”

Di seguito sono riportati alcuni passi del discorso, tenuto a Washington il 4 marzo 1933, con cui Franklin Delano Roosevelt inaugurò la sua presidenza. Fu questo il primo di una lunga serie di messaggi che Roosevelt rivolse alla nazione per risollevarne il morale piegato dalla Grande crisi e per spiegare le linee generali del suo programma di riforme politiche in ambito sociale ed economico.

Ritengo che questo sia soprattutto il tempo di dire la verità, tutta la verità, con sincerità e coraggio. Non si può rifuggire, oggi, dall’affrontare onestamente le attuali condizioni del nostro paese.

Questa grande nazione saprà sopportare ancora, come ha già saputo sopportare, e saprà anche risorgere alla prosperità. Lasciate dunque che io esprima la mia ferma convinzione che ciò di cui dobbiamo avere più paura è la paura stessa, da quella paura senza nome, irragionevole e ingiustificata, che paralizza i movimenti necessari per trasformare una ritirata in un’avanzata. [...]

I valori sono discesi a livelli fantasticamente bassi1; le imposte sono cresciute; la nostra capacità di pagamento è diminuita; ogni categoria di amministrazione deve tener conto di una notevole diminuzione delle sue entrate; i mezzi di scambio sono congelati nelle correnti commerciali2; per ogni dove si posano le foglie secche dell’iniziativa industriale; gli agricoltori non trovano mercati di sbocco per i prodotti della terra, e migliaia di famiglie hanno perduto i risparmi pazientemente accumulati in lunghi anni. Ancora più grave è la circostanza che una folla di disoccupati si trova di fronte al tetro problema della propria esistenza, mentre un numero non minore di cittadini continua a lavorare con scarso profitto. Solamente uno sciocco ottimista potrebbe negare l’oscura realtà del momento.

Eppure le nostre sciagure non derivano da alcun fallimento sostanziale. [...] L’abbondanza è alle soglie delle nostre case, ma la possibilità di valercene viene meno benché questi tesori ci siano a portata di mano. Questo accade perché quanti dominano nel campo dello scambio dei beni materiali, venuti meno dapprima al loro compito per ostinazione ed incompetenza, ammettono poi il loro fallimento ed abdicano alle loro responsabilità. Davanti al tribunale dell’opinione pubblica, condannati dal cuore e dalla mente degli uomini, stanno i sistemi di speculatori poco scrupolosi. [...]

Ma la ricostruzione non esige solo modificazioni di indole morale. La nostra nazione domanda di poter agire, e immediatamente. Il nostro primo grande compito è di dare lavoro al popolo. Non è un problema insolubile, se affrontato con saggezza e coraggio. Può essere parzialmente risolto per mezzo di ingaggi diretti da parte del governo, affrontando la questione come si affronterebbe in caso di bisogno la mobilitazione per una guerra; ma nello stesso tempo non dimenticando che tale impiego di uomini va diretto al compimento di opere di grande utilità pubblica, realizzando progetti adatti a provocare e riorganizzare l’uso delle nostre grandi risorse nazionali. [...] Insomma, molti sono i mezzi per risolvere il problema, che non verrà tuttavia mai risolto soltanto col continuare a parlarne. Occorre agire: e dobbiamo agire rapidamente. […]

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Banche e moneta
Fermo oppositore di ogni dittatura, per dare forma al suo New Deal Roosevelt attinse elementi dalle tradizioni liberale, conservatrice e socialista, mescolandoli in una nuova sintesi. Facendo leva sul nuovo ruolo propulsivo assegnato allo Stato, il presidente dispiegò fin dall’inizio del suo mandato un attivismo febbrile. Nei “primi cento giorni” egli assegnò alla Federal Reserve Bank il ruolo di Banca centrale, preposta al controllo della politica monetaria e del sistema bancario. Il governo poteva così vigilare sull’operato e la salute degli istituti di credito, in modo da restituire fiducia ai cittadini, che infatti ripresero a depositarvi i loro risparmi. Si procedette inoltre al rifinanziamento pubblico dei mutui su terreni e abitazioni, in modo che i proprietari indebitati non si vedessero confiscare i beni immobili di cui non riuscivano più a pagare le rate di mutuo.
Nell’ambito della politica monetaria, l’amministrazione Roosevelt decise di abbandonare il gold standard [▶ cap. 2.5], cioè il sistema monetario internazionale basato sulla convertibilità della valuta in oro, che legava il valore della moneta circolante a quello delle riserve auree possedute dalla Banca centrale. Se il valore della moneta non doveva più corrispondere a una certa quantità fissa di oro, il dollaro poteva essere svalutato, rendendo più competitive le esportazioni, anche a costo di provocare un’aumento dei prezzi a causa di importazioni più care. Divenivano inoltre meno onerosi gli interessi sui prestiti, con conseguente stimolo degli investimenti: con un dollaro “meno costoso” perché svalutato, in altre parole, era più semplice ottenere denaro in prestito dalle banche, perché anche gli interessi da pagare erano meno pesanti che in passato, quando il potere d’acquisto della stessa quantità nominale di moneta era maggiore.
Lavori pubblici, agricoltura e industria
Per contrastare la povertà e la disoccupazione fu aumentato il sussidio per i disoccupati e, soprattutto, fu lanciata un’imponente campagna di lavori pubblici per creare posti di lavoro nella costruzione di infrastrutture e nella cura e manutenzione del territorio. Fu istituita a questo scopo la Tennessee Valley Authority, un’agenzia incaricata di realizzare progetti per la produzione di energia idroelettrica nel bacino del fiume Tennessee. La Public Works Administration impiegò invece milioni di disoccupati nella costruzione di scuole, strade, ponti e altre opere pubbliche. Il Civilian Conservation Corps, infine, impegnò squadre di lavoro giovanili nella tutela e nella valorizzazione del patrimonio naturale, in particolare quello boschivo.
Con l’Agricultural Adjustment Act il governo intervenne anche nel settore agricolo, sia acquistando parte della produzione eccedente e ridistribuendola ai più bisognosi, sia sostenendo i contadini affinché riducessero la produzione (in modo da far risalire i prezzi). Nell’industria, la National Recovery Administration, una degli enti più importanti creati dal New Deal, fu incaricata di favorire accordi tra imprenditori per attenuare la concorrenza, controllare i prezzi e applicare i salari minimi, nonché di limitare l’orario di lavoro al fine di combattere la disoccupazione [ 9].

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La svolta del 1935
L’impegno su vasta scala e le straordinarie energie dell’azione riformistica di Roosevelt non bastarono tuttavia a stimolare la ripresa economica: la disoccupazione continuava a mantenersi a livelli molto alti. Per di più, la Corte Suprema, composta in maggioranza da giudici repubblicani, bocciò per incostituzionalità due delle misure più rilevanti: prima la National Recovery Administration Act, poi l’Agricultural Adjustement Act.

I provvedimenti fondamentali del New Deal, per alcuni aspetti ispirati alle teorie dell’economista inglese John Maynard Keynes [▶ idee], riconfiguravano infatti in modo radicale il rapporto tra la sfera politica e quella economica, promuovendo forme di interventismo statale in un paese dove gli interventi in ambito economico del governo erano considerati una minaccia ai valori dell’individualismo e dell’economia liberista.

In un clima di contrapposizione ideologica fra statalisti e liberisti e con il permanere di una difficile situazione economica, nel 1935 le critiche al New Deal si fecero insistenti e diffuse, anche per l’avvicinarsi delle elezioni presidenziali previste per l’anno seguente. Secondo i settori più conservatori dell’opinione pubblica e i grandi gruppi industriali e finanziari – che si ritenevano svantaggiati dalle misure messe in atto soprattutto nella misura in cui li costringevano a mantenere il costo del lavoro più alto di quanto richiedesse un mercato con tanti disoccupati – le riforme di Roosevelt avevano fallito.

Il presidente reagì avviando la fase del cosiddetto “secondo New Deal, con cui, invece di retrocedere, accoglieva alcune istanze più progressiste e radicali in due direzioni: quella della tutela del lavoro e dell’assistenza ai bisognosi. Il National Labor Relations Act (Wagner Act) ridisegnò le linee fondamentali dell’azione sindacale, riconoscendo i diritti dei lavoratori nelle contrattazioni con gli imprenditori. Il Social Security Act rafforzò invece il sistema pensionistico, previde tutele per i disoccupati e offrì assistenza alle donne-madri impoverite. Con il Works Progress Administration, uno dei più attivi istituti dell’amministrazione Roosevelt, il governo mirò infine a offrire ai disoccupati posti di lavoro, invece che sussidi, impiegando 8 milioni di americani – spesso lavoratori non specializzati – nella realizzazione di lavori pubblici (ponti, strade, fognature, parchi, alcuni dei quali sono divenuti un patrimonio collettivo ancora oggi visibile).

Il New Deal di Roosevelt

Provvedimento

Ambito di intervento

Contenuti e scopi

Riforma della Federal Reserve Bank

Settore bancario

Assegnazione di funzioni di Banca centrale per il controllo dell’affidabilità del mercato bancario

Abbandono del gold standard

Politica monetaria

Svalutazione del dollaro per stimolare le esportazioni

Tennessee Valley Authority

Produzione energetica

Approvvigionamento energetico e creazione di posti di lavoro

Civilian Conservation Corps

Tutela del territorio

Stimolo per l’occupazione giovanile

Agricultural Adjustment Act

Agricoltura

Ridistribuzione della produzione eccedente e sostegno finanziario ai contadini

National Recovery Administration

Industria

Attenuazione della concorrenza e controllo dei prezzi

National Labor Relations Act

Relazioni sindacali

Tutela dei diritti sindacali

Public Works Administration Works Progress Administration

Lavori pubblici

Creazione di posti di lavoro coinvolgendo imprenditori privati Impiego di 8 milioni di disoccupati nella costruzione di infrastrutture, alle dipendenze dirette dello Stato

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Limiti e declino della spinta riformista
Roosevelt fu capace di mediare fra la prospettiva progressista del suo programma elettorale e la base del Partito democratico, che aveva la sua roccaforte negli Stati del Sud. I deputati meridionali, che rappresentavano un elettorato prevalentemente rurale, miravano soprattutto a tassare le imprese ferroviarie, le banche e altre industrie del Nord. Non erano però contrari a promuovere la modernizzazione amministrativa, lo sviluppo di infrastrutture e le politiche sociali contro la povertà. Il Partito democratico era così sostenuto da un blocco sociale ed elettorale che promuoveva un progetto riformista anche grazie al vasto appoggio delle forze razziste degli Stati del Sud: sulla base di questa contraddizione esso avrebbe governato la politica americana nel quindicennio successivo.

Perciò la legislazione sociale riguardò solo poco più della metà della popolazione in età lavorativa, che tendeva a coincidere con quella maschile, bianca e sindacalizzata. I sindacati avevano la loro base tradizionale nelle regioni urbane e industriali nordorientali e centroccidentali, ma negli anni di crisi avevano visto aumentare a dismisura le iscrizioni, riuscendo a mobilitare le diverse comunità etniche e cominciando a radicarsi anche nel Sud. Nonostante il loro coinvolgimento sul terreno della lotta sociale, tuttavia, le popolazioni afroamericane continuarono a essere vittime di gravi discriminazioni e a vedersi negati i più elementari diritti sociali e civili [ 10]. Anche le donne si trovarono in una posizione sfavorevole, essendo oggetto di strategie e rappresentazioni contraddittorie, in cui gli stimoli e le aperture all’ascesa sociale si accompagnavano al tradizionale invito a tornare al focolare domestico, per non competere con gli uomini in un mercato del lavoro sconvolto dalla disoccupazione.

Nonostante questi evidenti limiti, il consenso degli elettori nei confronti di Roosevelt rimaneva ampio, anche presso le classi più disagiate. Così, nel novembre del 1936 egli vinse con ampio margine le elezioni presidenziali. Sul piano politico si era però determinata la formazione di una nuova coalizione democratica, che includeva, oltre ai tradizionali interlocutori (gli agricoltori del Sud e gli operai del Nord), le comunità di recente immigrazione (irlandesi, italiani, polacchi e così via), gli agricoltori beneficiari della politica di sussidi, i sindacati, i neri emigrati al Nord, gli intellettuali, parte dei grandi uomini d’affari delle coste atlantica e pacifica.

  idee

Il New Deal e il keynesismo

L’esperienza della Grande guerra aveva mutato drasticamente i rapporti tra la sfera politica e quella economica statunitensi, stimolando un massiccio intervento dell’autorità statale tanto nel processo di produzione quanto in quello di ridistribuzione delle risorse. Dopo una breve inversione di tendenza nel corso degli anni Venti, in cui il ruolo economico dei governi fu decisamente ridotto, la Grande crisi del 1929 richiese nuovamente forme estese e attive di statalismo economico. Il New Deal di Roosevelt fu uno dei più vasti programmi di riforme economiche e sociali attuati nel mondo occidentale in questa fase storica.

Il keynesismo

A incoraggiare questi orientamenti fu, fra le altre cose, il pensiero dell’inglese John Maynard Keynes (1883-1946), uno dei più importanti e influenti economisti del Novecento, protagonista di un percorso intellettuale del tutto eterodosso. In ambito economico, la sua opera maggiore è la Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, pubblicata nel 1936, nel contesto successivo alla Grande crisi del 1929.

Pur essendo fermamente avverso al marxismo, fra gli anni Venti e gli anni Trenta Keynes sviluppò una riflessione sempre più critica verso il liberismo, cioè la corrente del pensiero economico che tendeva a riconoscere autonomia completa alle leggi del mercato. La teoria economica classica o ortodossa afferma che la libera azione delle forze economiche tende a creare un naturale equilibrio tra la domanda e l’offerta di un bene sul mercato. Al contrario, Keynes muoveva dal cosiddetto paradosso della povertà in mezzo all’abbondanza: periodici squilibri fra domanda e offerta generavano crisi di sovrapproduzione che, a loro volta, creavano disoccupazione, secondo il meccanismo che abbiamo visto in atto durante la crisi del 1929. Nella sua analisi diventarono dunque fondamentali gli interventi dell’autorità statale volti a sostenere la domanda attraverso investimenti pubblici e politiche fiscali, con l’obiettivo di realizzare la piena occupazione e di operare un’equa ridistribuzione dei redditi. Al contrario delle prospettive liberali classiche volte a mantenere un rigido controllo sui bilanci pubblici, le proposte keynesiane prevedevano una vasta spesa statale, un disincentivo dei risparmi e un sostegno ai consumi. Anche se queste misure avessero avviato un processo generalizzato di aumento dei prezzi (inflazione), con conseguente diminuzione del potere d’acquisto della popolazione, la crescita dell’economia, e dunque dei salari, avrebbe evitato un nuovo deficit della domanda di beni e scongiurato nuove crisi.

L’influenza di Keynes sul New Deal

Nel delineare i contenuti del New Deal, i collaboratori di Roosevelt furono attenti alla lezione di Keynes, pur non avendo mai avuto con lui rapporti diretti. Le teorie keynesiane ispirarono le politiche volte a contrastare il ciclo economico recessivo attraverso l’ampliamento dei poteri del governo e il varo di grandi opere pubbliche. A sua volta, Keynes guardò con ammirazione all’esperimento rooseveltiano del New Deal. Durante una visita negli Stati Uniti, nel 1934, quando incontrò anche il presidente Roosevelt, ebbe a dire: «Qui, non a Mosca, c’è il laboratorio economico del mondo».

Una nuova crisi e il riarmo
La prosperità economica degli anni Venti, comunque, non era tornata e la disoccupazione continuava ad attestarsi oltre il 15% della forza lavoro. Per di più, la crisi economica si riacutizzò improvvisamente nell’estate del 1937 e il 19 ottobre dello stesso anno si replicò il crollo della Borsa di New York (la cosiddetta “recessione di Roosevelt”), con una conseguente nuova radicalizzazione del conflitto politico e sociale. Nel 1938-39 il presidente sembrava ormai aver esaurito il suo slancio riformatore e aver perduto il suo carisma; il mondo imprenditoriale gli rivolgeva l’accusa di attuare politiche “socialiste” e i deputati più conservatori del Partito democratico, eletti nelle circoscrizioni del Sud, frenavano la riorganizzazione delle agenzie del New Deal, come la Tennessee Valley Authority.
Dopo anni di isolazionismo, sanciti dalle leggi di neutralità, la politica estera tornava a occupare l’agenda del presidente. Mentre la situazione internazionale si faceva cupa e preoccupante, con l’ascesa delle potenze fasciste sul vecchio continente e l’espansione giapponese in Asia, nel suo ▶ discorso dell’Unione, nel gennaio 1939, Roosevelt annunciò una politica di riarmo. E solo con la modifica delle leggi di neutralità del 1939, che consentì di vendere armi a Francia e Regno Unito, in effetti, l’apparato industriale statunitense riprese a funzionare a pieno ritmo, portando il paese fuori dalla crisi.

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7.4 La rivoluzione messicana

Il Messico fra Otto e Novecento
Come altri paesi latinoamericani, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento il Messico era stato interessato da importanti trasformazioni economiche e sociali. Dagli anni Settanta dell’Ottocento il paese era dominato dalla figura di Porfirio Díaz, ex generale e capo incontrastato di un regime semidittatoriale. Tuttavia, i suoi tentativi di consolidare un autonomo sviluppo economico e politico si scontrarono – ancor più che con la volontà degli Stati Uniti di intervenire nelle vicende messicane con un’azione militare diretta, sconsigliata dalle dimensioni del paese centroamericano – con l’acquisizione del controllo da parte di uomini d’affari statunitensi delle risorse minerarie e petrolifere del paese, di vasti appezzamenti terrieri e della rete ferroviaria nazionale.
Nel 1910 il Messico fu investito da un importante processo rivoluzionario [ 11]. A differenza di altre rivoluzioni dell’epoca, la rivoluzione messicana rimase isolata sul piano internazionale, anche perché appariva a prima vista come uno dei frequentissimi cambi di governo che avevano scandito la storia ottocentesca dell’America Latina e che erano spesso enfaticamente definiti “rivoluzioni”. In realtà, si trattò di un profondo sconvolgimento sociale, che coinvolse l’intero mondo contadino messicano.
La rivoluzione scoppiò a partire dalla rivalità tra Díaz e Francisco Madero, un giovane possidente di orientamento liberale che si era candidato alla presidenza nel 1910, raccogliendo intorno a sé molte delle forze che auspicavano la fine del regime di Díaz. Fra queste vi erano le masse rurali, che aspettavano da tempo una riforma agraria che ridistribuisse la terra, ora concentrata nelle mani di pochi latifondisti. Díaz fu costretto a lasciare il governo e il paese a causa delle proteste e dei disordini, lasciando la presidenza all’acclamato Madero. Tuttavia nel 1913 egli fu assassinato nel corso di un golpe militare appoggiato dalla componente più reazionaria della società messicana.

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La componente contadina della rivoluzione
La rivoluzione fu appoggiata dal mondo contadino, mobilitato dallo stesso Madero, come si è visto, con la promessa di una riforma agraria. Alla guida delle masse rurali emersero due figure di riferimento: Pancho (Francisco) Villa, un fuorilegge diventato capo guerrigliero, alla testa degli allevatori del Nord, ed Emiliano Zapata, che chiamò alla rivolta i contadini nullatenenti del Sud. Tuttavia, fra queste due figure carismatiche mancò l’accordo: Pancho Villa, vicino al mito del Far West americano intriso di individualismo, predicava la necessità di costituire piccole proprietà contadine; Zapata, invece, sensibile agli ideali comunisti, lottava per la formazione di comunità contadine in cui la proprietà fosse collettiva [ 12]. Priva di una direzione unitaria, la rivoluzione rimase dominata da moti contadini anarchici, precipitando nel caos.
Nel 1913 un ufficiale militare, Victoriano Huerta, depose e assassinò Madero, ma suscitò una vasta protesta e la guerra civile, che lo costrinsero a dimettersi l’anno successivo. Nel 1915 un seguace di Madero, Venustiano Carranza, assunse il comando dell’esercito costituzionale e diventò presidente provvisorio. Intanto, tra il marzo 1916 e il febbraio 1917, dopo una serie di incidenti di confine, il presidente statunitense Wilson intervenne con l’esercito al fine di catturare Pancho Villa, ma senza successo [▶ cap. 1.5]. Nel 1917 Carranza varò quindi una Costituzione (la “Costituzione di Querétaro”), che conteneva due fondamentali novità: la terra e le ricchezze minerarie venivano dichiarate proprietà della nazione e veniva bandita la loro alienazione permanente, cioè la loro cessione a titolo definitivo; un altro importante articolo garantiva il diritto di sciopero, la libertà di associazione sindacale e stabiliva la giornata lavorativa di otto ore. Queste innovazioni però non furono mai realizzate. In particolare, la mancata riforma agraria lasciò le terre ai latifondisti. Nel quadro di queste lotte per la terra vennero assassinati Zapata, nel 1919, e Villa, nel 1923.

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Solo nel 1920 si raggiunse una certa stabilità, con la presidenza di Alvaro Obregón, un generale che restaurò l’ordine pubblico grazie a un colpo di Stato in cui fu ucciso Carranza. Obregón avviò una parziale distribuzione delle terre, riformò il sistema scolastico e stipulò un accordo tra il governo messicano e le compagnie petrolifere americane al fine di ottenere il riconoscimento diplomatico del potente vicino.
La guerra cristera e il regime di Cárdenas
 I fermenti rivoluzionari, sia pur meno intensi, continuarono a scuotere la società messicana tra gli anni Venti e Trenta, quando si cercò di consolidare il nuovo ordine istituzionale. Particolarmente violenta fu la cosiddetta guerra cristera (1926-29), combattuta dal governo autocratico e anticlericale di Elías Calles, autore di provvedimenti restrittivi della libertà religiosa, contro le masse contadine del Messico centrale. Guidate dalle autorità ecclesiastiche locali, esse furono ribattezzate spregiativamente cristeros per via del loro motto: Viva Cristo Rey, cioè “Viva Cristo re”. La guerra si concluse nel 1929 a seguito di concessioni a vantaggio della Chiesa, che in cambio ritirò il suo appoggio ai guerriglieri cristeros.
Ad attuare importanti riforme nel paese fu il successore di Calles, Lázaro Cárdenas [ 13]. Egli promosse una vasta riforma agraria che non solo ridistribuiva la terra, ma ne sollecitava la gestione collettiva. Varò inoltre riforme per la nazionalizzazione dell’industria petrolifera, che fu bene accolta dai lavoratori e dai sindacati messicani, ma che al contempo alimentò le tensioni con gli Stati Uniti, interessati a mantenere la propria influenza e un controllo più o meno diretto sulle risorse naturali. La sintesi eterogenea di socialismo e nazionalismo del governo di Cárdenas formò un regime autoritario, corporativo e populista [▶ idee, p. 273], che mirava a guadagnare il consenso delle masse contadine senza urtarne la sensibilità religiosa. Il perno di questo regime era il partito unico, il Partido de la Revolucion Mexicana.

Storie. Il passato nel presente - volume 3
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