La reticenza1 nei confronti del problema della violenza appare particolarmente incresciosa nel caso della Prima guerra mondiale. E questo perché una delle peculiarità di quel conflitto durato quattro anni e mezzo deriva proprio dal fatto che le sue modalità di scontro hanno raggiunto livelli di violenza senza precedenti. Violenze fra combattenti, contro i prigionieri e infine contro i civili. Tentare un’indagine su queste violenze, diversificate, multiformi, ma sempre collegate a sistemi di rappresentazione omogenei e coerenti, costituisce una premessa indispensabile sia per comprendere a fondo il conflitto del 1914-18 sia per interpretare la lunga traccia che esso ha lasciato nel mondo occidentale, e soprattutto europeo, dal 1918 fino ai giorni nostri. Capire la Grande guerra equivale a un tentativo di capire tutto ciò, iniziando dal combattimento. […]
Tale violenza infatti, di cui abbiamo sottolineato il carattere radicale e radicalmente nuovo, non fu soltanto massicciamente accettata dalle popolazioni belligeranti, ma altresì messa in atto da decine di milioni di uomini per quattro anni e mezzo. E più inquietante ancora è il fatto che società, nelle quali la violenza non era mai stata tanto controllata, rimossa, disattuata, passarono in tempi particolarmente brevi a uno stato di guerra in cui ebbe libero sfogo un’aggressività estrema. In pochi giorni gli europei della «civiltà delle buone maniere» lasciano, praticamente senza alcuna transizione, lavoro, famiglia, vita sociale raffinata e civile per assumere comportamenti del tutto opposti. Basti pensare, per esempio, ai riservisti2: costoro, che non hanno esperienza di caserma, come le truppe in servizio attivo, vengono praticamente immersi in una dimensione di violenza senza che sia loro concesso pressoché nessun tempo di adattamento. Cosi succede a Marc Bloch che, rientrato dalle vacanze a Parigi il 1° agosto 1914, riceve il battesimo del fuoco sulla frontiera belga appena tre settimane dopo. Tale repentino cambiamento fu accompagnato, inoltre, da un altrettanto rapido crollo – come già osservato – delle barriere abitualmente alzate contro certi eccessi della guerra: in Europa, le peggiori «atrocità» a danno dei soldati nemici, feriti o prigionieri, ma anche contro i civili, si sono generalmente verificate durante i primi giorni e le prime settimane di scontro. E nessun invasore ne fu esente, né i tedeschi in Belgio, in Francia o nella Polonia russa, né gli austro-ungarici in Serbia, né i russi nella Prussia orientale. Anche i francesi commisero sorprendenti brutalità in un territorio presunto «loro», la parte dell’Alsazia che avevano riconquistata all’inizio della guerra.
Il grado di tensione della violenza nella Grande guerra – soprattutto nelle prime settimane -, la sua accettazione massiccia e la sua altrettanto diffusa assunzione da parte di milioni di individui, originari di ogni parte del continente europeo e appartenenti a tutte le categorie sociali, costituiscono sicuramente una contro-prova di capitale importanza. Un’inaudita violenza si integrò con facilità sconcertante nella vita quotidiana di ciascuno, civili e soldati, e a tal punto da diventare cosa normale e da essere infine accettata per più di quattro anni, anche se certamente a prezzo di grandi mutamenti. […]
Invasioni, occupazioni, malversazioni, manifestazioni di razzismo, atrocità, deportazioni e massacri di civili hanno accompagnato la radicalizzazione del combattimento sui campi di battaglia: tutto quanto succede in questo ambito tra il 1914 e il 1918 è parte integrante del processo di totalizzazione della guerra nel secolo xx, al pari dei fenomeni concentrazionari direttamente legati a quegli eventi. E tuttavia, la memoria del conflitto ha praticamente annullato tali realtà. Si è verificata una «sconfitta della memoria», dovuta a un’iperamnesia nei confronti di coloro che – secondo i casi – erano visti come gli eroi o le vittime delle trincee e a un’amnesia rispetto a tutti gli altri. Il paradosso permetterà all’eredità della cultura di brutalità e di brutalizzazione degli anni 1914-18 di dare i suoi frutti in tempi successivi a prezzo di nuove vittime, provocate dai prolungamenti del conflitto3. La violenza di guerra era stata resa fatto comune, ampliando smisuratamente il suo campo d’applicazione. Peggio, tale normalizzazione era stata talmente interiorizzata dalle stesse vittime che perlopiù esse non vendicarono nel tempo lo statuto di vittime eccezionali. Inoltre, ovunque si poté vedere soltanto quanto già si credeva, fenomeno che gli storici hanno prolungato a lungo descrivendo e analizzando non ciò che vedevano negli archivi ma i fatti che credevano di dover vedere. Se negli anni Venti e Trenta l’impegno delle democrazie ha fallito nei confronti dei totalitarismi che così bene sapevano strumentalizzare la violenza di guerra e poi la sua negazione, quelle stesse democrazie hanno interiorizzato o rimosso secondo il caso, le violenze e i loro oblii. Dinanzi al ricordo ipertrofico4 delle sofferenze dei combattenti, l’amnesia concernente il trattamento delle vittime civili del primo conflitto mondiale si inscrive nel nucleo vivo di quella rimozione. Il prolungato oblio caduto sulle malversazioni subite dai civili o sullo sterminio degli armeni offrì in seguito l’impunità a coloro che vollero reiterarle. […]
[L’avvio della guerra fu segnato dall’efficienza delle mobilitazioni generali e in molti casi dalla partecipazione di volontari, uomini e, addirittura, donne.]
Rimane tuttavia ancora ben difficile da capire in che modo tale iniziale coinvolgimento abbia potuto resistere al passaggio dalla guerra immaginata a quella reale e mantenersi vivo malgrado la presa di coscienza che quella guerra immaginata era in realtà, secondo la bella formula di Marc Ferro5, una guerra «immaginaria». Tutto succede in effetti come se gli schemi di rappresentazione, cristallizzatisi a fine luglio – inizio agosto 1914, periodo in cui nulla si sapeva del tipo di guerra a venire e in cui, inoltre, era dominante l’idea di un conflitto a breve termine che avrebbe implicato soltanto sacrifici limitati, fossero sopravvissuti alla prova delle perdite del 1914 e degli anni successivi, così come agli immani sacrifici richiesti non unicamente alle truppe ma altresì, e sempre di più, alle popolazioni civili. Una rappresentazione dunque che non venne scalfita dal lutto di massa. Così gli europei continuarono a ritenere giustificato, nel corso dei quattro anni che seguirono, il sentimento originariamente provato nell’estate del 1914. Senza dubbio un’affermazione di tal genere può sembrare shockante: ormai da lungo tempo i nostri usi storiografici non sono forse propensi a porre l’accento – a costo di una fascinazione talora esclusiva – su ogni manifestazione di rifiuto della guerra? I rifiuti, e sarebbe assurdo negarlo, furono effettivamente numerosi e svariati; il fatto di analizzarli oggi permette, in virtù della loro stessa marginalità, di proporre una cronologia e una geografia più sfaccettate a proposito del consenso al conflitto […]. Ma da qualsiasi prospettiva li si affronti, il loro peso non bilancia quello dei consensi, e dei consensi mantenuti. Fino alla fine la Grande guerra è, a tutti gli effetti, rimasta la guerra di tale consenso. Per quali motivi il significato attribuitole già nei primi giorni del conflitto non fu massicciamente rimesso in questione nel corso degli anni successivi? In ciò probabilmente risiede gran parte del mistero inerente la Grande Guerra, e in ogni caso di quella sua parte riguardante la «seconda accettazione», l’accettazione cioè della lunghezza della guerra e di tutte le sofferenze, un consenso che si prolungò oltre l’adesione istantanea del primo momento.
tratto da La violenza, la crociata, il lutto. La Grande guerra e la storia del Novecento, Einaudi, Torino 2002