Emilio Gentile - Il ruolo degli antigiolittiani

testo 2
Emilio Gentile

Il ruolo degli antigiolittiani

La cultura antigiolittiana è stata a lungo considerata una forza antidemocratica che contribuì all’ascesa del fascismo. Tuttavia, le critiche nei confronti della classe dirigente giolittiana, ritenuta corrotta e dispotica, miravano anche a un rinnovamento delle istituzioni democratiche, incarnando dunque una vitale spinta riformista.

I nazionalisti erano soltanto una delle molteplici correnti antigiolittiane, che nel corso del primo decennio del secolo sorsero e si moltiplicarono, sia a destra che a sinistra e al centro, fino a costituire un vasto ed eterogeneo fronte di oppositori sempre più tenaci e aggressivi del sistema di potere dello statista piemontese. C’è prima di tutto un equivoco da eliminare parlando dell’antigiolittismo.

È ancora opinione diffusa che esso, come fenomeno, sia stato caratterizzato dalla incapacità di comprendere la nuova politica liberale, iniziata da Giolitti per favorire il progresso delle classi lavoratrici e l’inserimento delle masse nella vita dello Stato. È un’opinione infondata. Gli esponenti più rappresentativi1 dell’antigiolittismo avevano, in principio, favorito o accettato come un fatto compiuto la svolta di fine secolo, valutando positivamente i risultati immediati da essa ottenuti, ed erano favorevoli a una politica di riforme. […]


Gran parte degli antigiolittiani non aveva prevenzione verso i motivi che avevano ispirato la nuova politica liberale, mirante ad attrarre le classi lavoratrici nello Stato. Anche i più sensibili alla conservazione dell’ordine costituito erano ormai persuasi che lo Stato non potesse ignorare le classi popolari, ma dovesse contribuire a migliorare le loro condizioni di vita, conquistare il loro consenso, promuovere un più rapido cammino nella modernizzazione, accettando la nuova realtà che si formava per gli effetti della rivoluzione industriale. Essi però non credevano che la prassi giolittiana, così come si manifestò nel corso degli anni, fosse la più adatta per raggiungere gli obiettivi che Giolitti per primo, fra gli uomini di parte liberale, aveva indicato alla classe dirigente. La maggior parte degli antigiolittiani, anche se di orientamenti radicalmente diversi, era concorde nell’analisi del sistema giolittiano, coralmente giudicato inadeguato, secondo i diversi punti di vista, sia per una politica di riforme democratiche a vantaggio delle classi più colpite o meno favorite dallo sviluppo capitalistico; sia per un impegno più efficace e attivo in funzione di questo sviluppo, nell’ambito della competizione internazionale; sia, infine, per sollecitare e ottenere una maggiore adesione delle masse allo Stato nazionale. […]


Sembrava dominante un sentimento di accettazione passiva di questo stato di cose, quasi fosse una inevitabile contropartita pagata alla democrazia giolittiana per avere in cambio la stabilità politica e il progresso economico. Si trattava, invece, secondo i vociani, d’una profonda crisi di ideali: «Ogni ideale svanisce. I partiti non esistono più, ma soltanto gruppetti e clientele. Dal parlamento il triste stato si ripercuote nel paese. Ogni partito è scisso [ ... ] Le grandi idee cadono di fronte a uno spappolamento e disgregamento morale di tutti i centri di unione. Oggi uno è a destra, domani lo trovi a sinistra; ma questa vecchia scena della politica vien complicata dal fatto che, se indaghi, ci vedi del brutto sotto ed è più grave perché nessuno ha più sensibilità per accorarsene e criterio per conoscerne il valore».

E si arrivava alla conclusione che il giolittismo, con la politica di stabilizzazione moderata, aveva contribuito attivamente a rendere grigia e mediocre la vita nazionale.

Esaminata in una prospettiva storica, l’accusa sembra quanto meno ingenua. Pochi periodi della storia italiana sono, infatti, così ricchi di conflitti politici, di vitalità intellettuale, di lotte sociali. Ma attraverso le accuse dell’antigiolittismo noi possiamo avere l’immagine della realtà come era percepita dai contemporanei, un’immagine che alimentava l’insoddisfazione per il presente, il sentimento di rivolta contro il sistema giolittiano, e la ricerca di nuove soluzioni politiche. Sarebbe inoltre errato pensare che queste «lamentazioni» sullo stato del paese fossero manifestazioni di astratto moralismo, di estetismo individualista, e tali da suscitare scettici inviti a disertare la lotta e l’impegno civile. Il vero malessere, al contrario, era attribuito proprio alla mancanza di impegno civile, all’indifferenza, alla mancanza di lotta, allo stemperamento delle ideologie in una pratica di compromessi e di indulgenze verso le questioni di principio per conseguire la soddisfazione d’interessi particolari. La critica al parlamento non conduceva inevitabilmente al rifiuto delle istituzioni rappresentative. […]


Il problema politico, che emerge nel corso del periodo giolittiano, non verte dunque sulla accettazione o sul rifiuto del principio democratico, inteso in senso lato, come libera partecipazione del popolo alla politica, ma sulla reale capacità del sistema giolittiano di promuovere la partecipazione, di rappresentare le esigenze e le aspirazioni della collettività. Per gli antigiolittiani il sistema giolittiano era una falsa democrazia, sia in un senso tradizionale, perché non garantiva il corretto funzionamento del sistema liberale sotto l’impero della legge codificata; sia in senso moderno, perché non interpretava o non rappresentava (anche al di là del rispetto formale per la legge codificata) le nuove forze sociali2 emergenti dallo sviluppo economico, portatrici di nuovi valori, non più riconducibili nell’ambito dello Stato liberale.


tratto da Le origini dell’Italia contemporanea. L’età giolittiana, Laterza, Roma-Bari 2003

 >> pagina 174 

Il LINGUAGGIO della storiografia

Riconduci ciascuna delle seguenti espressioni allo storico che l’ha utilizzata e contestualizzala rispetto alla tesi sostenuta nei testi che hai letto (massimo 5 righe).


a) Politica di stabilizzazione moderata.

b) I nazionalisti erano soltanto una delle molteplici correnti antigiolittiane.

c) Convergenza tra l’estrema destra del nazionalismo e l’estrema sinistra del sindacalismo rivoluzionario.

d) I sindacalisti erigono la nazione, anziché la classe, a soggetto della rivoluzione.

Storie A CONFRONTO

Individua la tesi di fondo dei due testi proposti aiutandoti con lo schema di inizio sezione e compila la seguente scheda di sintesi e comparazione dei documenti.


  Il radicalismo antidemocratico
Il ruolo degli antigiolittiani 
TESI    
ARGOMENTAZIONI    
PAROLE CHIAVE    
 >> pagina 175 

Dal dibattito storiografico Al DEBATE

La domanda a cui i due saggi proposti intendono dare risposta è la seguente: qual è il ruolo degli intellettuali italiani negli anni che precedono l’avvento del regime fascista?


a) Creazione dei gruppi di lavoro La classe si divide in due gruppi che sostengono tesi opposte:

La cultura antigiolittiana, che trovava espressione nella rivista La Voce, è stata…

Gruppo 1: … culla di fascismo.

Gruppo 2: … baluardo di democrazia.


b) competenza DIGITALE Laboratorio di ricerca a casa e in classe In classe si propone la lettura del lemma che l’Enciclopedia online Treccani dedica a La Voce (www.treccani.it/enciclopedia/la-voce/). In seguito, all’interno di ciascun gruppo, con la guida dell’insegnante, vengono raccolte alcune informazioni sulla rivista sfogliandone le uscite e leggendo alcuni articoli dei suoi editorialisti attraverso l’archivio online del Gabinetto Vieusseux.


c) Preparazione di argomentazioni e controargomentazioni Ciascun gruppo prepara le proprie argomentazioni e riflette sulle possibili repliche alle tesi del gruppo antagonista. Possono essere richiamate in via esemplificativa le argomentazioni utilizzate dagli storici dei brani presenti nel percorso.


d) Dibattito Ciascun gruppo sceglie uno o più relatori che espongano almeno tre argomentazioni a favore della propria tesi, sostenendole con prove della loro validità (esempi, analogie, fatti concreti, dati statistici, opinioni autorevoli, principi universalmente riconosciuti, ecc.). In seguito, ciascun gruppo espone le controargomentazioni rispetto alle argomentazioni antagoniste. Con la guida dell’insegnante si conclude il dibattito con la sintesi e il bilanciamento delle posizioni.

percorso 2

La Grande guerra e l'inizio del secolo della violenza

La Prima guerra mondiale è ormai riconosciuta dalla storiografia come l’evento matrice della violenza del Novecento, il momento di rottura in cui la società ottocentesca nel suo complesso si autodistrusse, aprendo la strada ad uno scontro fra sistemi sociali, politici ed economici che coinvolse il mondo intero. I due storici francesi Stéphane Audoin-Rouzeau e Annette Becker hanno inteso la Grande guerra come una tragedia, espressione di culture di guerra profondamente radicate nella società europea tra Otto e Novecento. In particolare, al centro della loro analisi è l’impatto che il conflitto ebbe sulla società, a causa anche del ricorso alla propaganda da parte degli Stati europei, che si richiamava alla diffusa simbologia della crociata, della violenza e del lutto. Niall Ferguson, storico britannico, ha invece interpretato il conflitto del 1914-18 come il più grave errore della storia moderna, frutto di processi politici ed economici tutt’altro che inevitabili. Nelle pagine qui riportate egli cerca di capire perché, nonostante atrocità, sofferenze e miserie di ogni sorta, i soldati abbiano combattuto tanto a lungo.
testo 1
Stéphane Audoin-Rouzeau/Annette Becker

L’amnesia della violenza

La Grande guerra fu caratterizzata da una violenza di tipo nuovo che trasformò la società europea, al fronte come nelle retrovie. Le varie forme di violenza che si radicalizzarono sui campi di battaglia ma non risparmiarono le popolazioni civili lasciarono un’eredità duratura, che si ripropose nei conflitti del dopoguerra e che riemerse in versioni più estreme durante la Seconda guerra mondiale.

La reticenza1 nei confronti del problema della violenza appare particolarmente incresciosa nel caso della Prima guerra mondiale. E questo perché una delle peculiarità di quel conflitto durato quattro anni e mezzo deriva proprio dal fatto che le sue modalità di scontro hanno raggiunto livelli di violenza senza precedenti. Violenze fra combattenti, contro i prigionieri e infine contro i civili. Tentare un’indagine su queste violenze, diversificate, multiformi, ma sempre collegate a sistemi di rappresentazione omogenei e coerenti, costituisce una premessa indispensabile sia per comprendere a fondo il conflitto del 1914-18 sia per interpretare la lunga traccia che esso ha lasciato nel mondo occidentale, e soprattutto europeo, dal 1918 fino ai giorni nostri. Capire la Grande guerra equivale a un tentativo di capire tutto ciò, iniziando dal combattimento. […]


Tale violenza infatti, di cui abbiamo sottolineato il carattere radicale e radicalmente nuovo, non fu soltanto massicciamente accettata dalle popolazioni belligeranti, ma altresì messa in atto da decine di milioni di uomini per quattro anni e mezzo. E più inquietante ancora è il fatto che società, nelle quali la violenza non era mai stata tanto controllata, rimossa, disattuata, passarono in tempi particolarmente brevi a uno stato di guerra in cui ebbe libero sfogo un’aggressività estrema. In pochi giorni gli europei della «civiltà delle buone maniere» lasciano, praticamente senza alcuna transizione, lavoro, famiglia, vita sociale raffinata e civile per assumere comportamenti del tutto opposti. Basti pensare, per esempio, ai riservisti2: costoro, che non hanno esperienza di caserma, come le truppe in servizio attivo, vengono praticamente immersi in una dimensione di violenza senza che sia loro concesso pressoché nessun tempo di adattamento. Cosi succede a Marc Bloch che, rientrato dalle vacanze a Parigi il 1° agosto 1914, riceve il battesimo del fuoco sulla frontiera belga appena tre settimane dopo. Tale repentino cambiamento fu accompagnato, inoltre, da un altrettanto rapido crollo – come già osservato – delle barriere abitualmente alzate contro certi eccessi della guerra: in Europa, le peggiori «atrocità» a danno dei soldati nemici, feriti o prigionieri, ma anche contro i civili, si sono generalmente verificate durante i primi giorni e le prime settimane di scontro. E nessun invasore ne fu esente, né i tedeschi in Belgio, in Francia o nella Polonia russa, né gli austro-ungarici in Serbia, né i russi nella Prussia orientale. Anche i francesi commisero sorprendenti brutalità in un territorio presunto «loro», la parte dell’Alsazia che avevano riconquistata all’inizio della guerra.


Il grado di tensione della violenza nella Grande guerra – soprattutto nelle prime settimane -, la sua accettazione massiccia e la sua altrettanto diffusa assunzione da parte di milioni di individui, originari di ogni parte del continente europeo e appartenenti a tutte le categorie sociali, costituiscono sicuramente una contro-prova di capitale importanza. Un’inaudita violenza si integrò con facilità sconcertante nella vita quotidiana di ciascuno, civili e soldati, e a tal punto da diventare cosa normale e da essere infine accettata per più di quattro anni, anche se certamente a prezzo di grandi mutamenti. […]


Invasioni, occupazioni, malversazioni, manifestazioni di razzismo, atrocità, deportazioni e massacri di civili hanno accompagnato la radicalizzazione del combattimento sui campi di battaglia: tutto quanto succede in questo ambito tra il 1914 e il 1918 è parte integrante del processo di totalizzazione della guerra nel secolo xx, al pari dei fenomeni concentrazionari direttamente legati a quegli eventi. E tuttavia, la memoria del conflitto ha praticamente annullato tali realtà. Si è verificata una «sconfitta della memoria», dovuta a un’iperamnesia nei confronti di coloro che – secondo i casi – erano visti come gli eroi o le vittime delle trincee e a un’amnesia rispetto a tutti gli altri. Il paradosso permetterà all’eredità della cultura di brutalità e di brutalizzazione degli anni 1914-18 di dare i suoi frutti in tempi successivi a prezzo di nuove vittime, provocate dai prolungamenti del conflitto3. La violenza di guerra era stata resa fatto comune, ampliando smisuratamente il suo campo d’applicazione. Peggio, tale normalizzazione era stata talmente interiorizzata dalle stesse vittime che perlopiù esse non vendicarono nel tempo lo statuto di vittime eccezionali. Inoltre, ovunque si poté vedere soltanto quanto già si credeva, fenomeno che gli storici hanno prolungato a lungo descrivendo e analizzando non ciò che vedevano negli archivi ma i fatti che credevano di dover vedere. Se negli anni Venti e Trenta l’impegno delle democrazie ha fallito nei confronti dei totalitarismi che così bene sapevano strumentalizzare la violenza di guerra e poi la sua negazione, quelle stesse democrazie hanno interiorizzato o rimosso secondo il caso, le violenze e i loro oblii. Dinanzi al ricordo ipertrofico4 delle sofferenze dei combattenti, l’amnesia concernente il trattamento delle vittime civili del primo conflitto mondiale si inscrive nel nucleo vivo di quella rimozione. Il prolungato oblio caduto sulle malversazioni subite dai civili o sullo sterminio degli armeni offrì in seguito l’impunità a coloro che vollero reiterarle. […]


[L’avvio della guerra fu segnato dall’efficienza delle mobilitazioni generali e in molti casi dalla partecipazione di volontari, uomini e, addirittura, donne.]


Rimane tuttavia ancora ben difficile da capire in che modo tale iniziale coinvolgimento abbia potuto resistere al passaggio dalla guerra immaginata a quella reale e mantenersi vivo malgrado la presa di coscienza che quella guerra immaginata era in realtà, secondo la bella formula di Marc Ferro5, una guerra «immaginaria». Tutto succede in effetti come se gli schemi di rappresentazione, cristallizzatisi a fine luglio – inizio agosto 1914, periodo in cui nulla si sapeva del tipo di guerra a venire e in cui, inoltre, era dominante l’idea di un conflitto a breve termine che avrebbe implicato soltanto sacrifici limitati, fossero sopravvissuti alla prova delle perdite del 1914 e degli anni successivi, così come agli immani sacrifici richiesti non unicamente alle truppe ma altresì, e sempre di più, alle popolazioni civili. Una rappresentazione dunque che non venne scalfita dal lutto di massa. Così gli europei continuarono a ritenere giustificato, nel corso dei quattro anni che seguirono, il sentimento originariamente provato nell’estate del 1914. Senza dubbio un’affermazione di tal genere può sembrare shockante: ormai da lungo tempo i nostri usi storiografici non sono forse propensi a porre l’accento – a costo di una fascinazione talora esclusiva – su ogni manifestazione di rifiuto della guerra? I rifiuti, e sarebbe assurdo negarlo, furono effettivamente numerosi e svariati; il fatto di analizzarli oggi permette, in virtù della loro stessa marginalità, di proporre una cronologia e una geografia più sfaccettate a proposito del consenso al conflitto […]. Ma da qualsiasi prospettiva li si affronti, il loro peso non bilancia quello dei consensi, e dei consensi mantenuti. Fino alla fine la Grande guerra è, a tutti gli effetti, rimasta la guerra di tale consenso. Per quali motivi il significato attribuitole già nei primi giorni del conflitto non fu massicciamente rimesso in questione nel corso degli anni successivi? In ciò probabilmente risiede gran parte del mistero inerente la Grande Guerra, e in ogni caso di quella sua parte riguardante la «seconda accettazione», l’accettazione cioè della lunghezza della guerra e di tutte le sofferenze, un consenso che si prolungò oltre l’adesione istantanea del primo momento.


tratto da La violenza, la crociata, il lutto. La Grande guerra e la storia del Novecento, Einaudi, Torino 2002

Storie. Il passato nel presente - volume 3
Storie. Il passato nel presente - volume 3
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