PERCORSI STORIOGRAFICI

percorsi storiografici

PERCORSO

TESTI

TEMI

1 La cultura antigiolittiana: culla di fascismo o di democrazia?

p. 170

S. Lupo, Il radicalismo antidemocratico tratto da Il fascismo. La politica in un regime totalitario

– La ricerca di una nuova classe dirigente
– Il rapporto degli intellettuali con la guerra
– Il nesso tra pensiero ed azione

E. Gentile, Il ruolo degli antigiolittiani tratto da Le origini dell’Italia contemporanea. L’età giolittiana

– La varietà della cultura antigiolittiana
– La necessità di una riforma del sistema giolittiano
– La ricerca di una “vera” democrazia

2 La Grande guerra e l’inizio del secolo della violenza

p. 175

S. Audoin-Rouzeau/A. Becker, L’amnesia della violenza tratto da La violenza, la crociata, il lutto. La Grande guerra e la storia del Novecento

– L’impatto traumatico della violenza bellica sulla società e sulla cultura
– La forza pervasiva della propaganda 

N. Ferguson, Il piacere della guerra tratto da Il grido dei morti. La prima guerra mondiale: il più atroce conflitto di ogni tempo

– L’esperienza della Grande guerra nelle trincee
– La memoria letteraria dell’orrore bellico

3 Rivoluzioni russe dal basso e dall’alto

p. 182 

R.E. Pipes, Il partito totalitario bolscevico tratto da Il regime bolscevico. Dal terrore rosso alla morte di Lenin

– Il colpo di Stato d’Ottobre
– La guerra civile
– L’estraneità dei contadini al conflitto tra “rossi” e “bianchi”

A. Graziosi, I bolscevichi e le campagne tratto da L’Unione Sovietica di Lenin e di Stalin

– Il fascino universale dell’Ottobre
– La sollevazione anarchica dei contadini
– La sorprendente alleanza dei bolscevichi con le campagne 

percorso 1

La cultura antigiolittiana: culla di fascismo o di democrazia?

L’opposizione all’ordine politico e sociale incarnato dal primo ministro liberaldemocratico Giovanni Giolitti rappresentò il motivo comune della cultura di inizio Novecento, inaugurando una lunga stagione di incomprensioni e contrapposizioni tra il ceto intellettuale e la classe dirigente italiana. Secondo Salvatore Lupo, quella cultura fu la matrice di un radicalismo antipolitico, che contestò con veemenza il principio di rappresentanza parlamentare, intrecciandosi con il nazionalismo e finendo per alimentare correnti che confluirono nel fascismo. Secondo Emilio Gentile, invece, la cultura antigiolittiana fu caratterizzata da un atteggiamento ambivalente verso la politica, che oscillò tanto verso la riforma in senso democratico quanto verso la svolta in direzione autoritaria. Il mito di uno Stato nuovo fu dunque il fulcro di questo radicalismo nazionale, che alimentò le aspirazioni al rinnovamento dell’Italia giolittiana, liberale e postrisorgimentale.

testo 1
Salvatore Lupo

Il radicalismo antidemocratico

La cultura di inizio Novecento fu intimamente antidemocratica e nazionalista, tesa a minare il principio di rappresentazione incarnato dal parlamento e ad esaltare l’unità organica della nazione. Perciò, essa costituì un terreno d’incontro per i radicali di destra e di sinistra, che si opponevano all’Italia giolittiana, contribuendo, dopo la Grande guerra, ad aprire la strada al fascismo.

Dobbiamo andare al cuore del problema, se intendiamo dare il giusto rilievo alla radicalità delle due svolte che nel 1922-25 e nel 1943-45 vennero a spezzare il corso della nostra più che secolare vicenda unitaria; se vogliamo evitarci l’imbarazzo di credere in una storia d’Italia dominata da sempiterna continuità, dove in un certo senso «il fascismo non è mai esistito». E il cuore del problema consiste in un esperimento cruciale di mobilitazione collettiva orbata1 da ogni meccanismo di rappresentanza, che a suo tempo affascinò molte coscienze, in Italia e all’estero, che tutt’oggi dice qualcosa sulla debolezza della democrazia, e, a contrario, sulla sua forza. […]

Per comprendere da dove venisse questa discontinuità dobbiamo fare un passo indietro e analizzare sia pure schematicamente, come si conviene a questa sede introduttiva, il legame tra le politiche del fascismo e quelle formatesi nel periodo precedente. […]

La problematica era stata in origine agitata dagli eredi della Destra storica, e si era espressa a diversi livelli, nella letteratura colta e popolare, nel giornalismo, in una varia pubblicistica. Il giovanissimo Gaetano Mosca2 aveva sostenuto sin dal 1884 che il suffragio allargato portava inevitabilmente alla Camera una classe politica formata da arrivisti e piccolo-borghesi senz’arte né parte, gente che faceva appunto della politica la propria fonte di vita. Quest’idea avrebbe avuto grande successo nel nuovo secolo, anche tra personaggi che difficilmente il conservatore Mosca avrebbe pensato simpatetici con le sue idee. Sergio Panunzio3, uno dei maggiori intellettuali del sindacalismo rivoluzionario, si dichiarava nel 1911 «quasi completamente d’accordo» con lui: quello della sovranità popolare rappresentava un problema inconsistente, mentre proprio per quanto riguardava la classe politica Panunzio disegnava un’alternativa e candidava se stesso, cioè gli uomini provenienti dal sovversivismo, facendosi forte del viatico fornito dal grande economista Vilfredo Pareto4 . Questi, come l’altro liberista Maffeo Pantaleoni5 , si era andato spostando nel corso dei primi anni del secolo da posizioni democratiche a posizioni nazionaliste. «Nelle prossime battaglie sociali – profetizzava Pareto – vinceranno quelli che non avranno ritegno ad adoperare la forza, né troppa ripugnanza a spargere il sangue; e pare molto probabile che costoro sorgeranno dalle classi popolari, ove si serbano incolumi le energie della razza». Le sue simpatie andavano in effetti alle élites pugnaci e «vitali»; però è chiaro che tra di esse l’economista preferiva quelle borghesi, da lui incitate a «svegliarsi», a mettere da parte gli scrupoli legalitari e umanitari, a promuovere finanche «una grande guerra europea» per ricacciare indietro il socialismo «almeno per mezzo secolo». Il terzo protagonista di questo celeberrimo dibattito sulla democrazia e le élites fu Roberto Michels6, l’intellettuale tedesco (ma italiano di adozione) proveniente dalla sinistra sindacalista, cioè da una vecchia ostilità verso le burocrazie socialriformiste che svirilizzavano le passioni rivoluzionarie. Il punto d’arrivo però lo collocava vicino a Mosca e a Pareto. A suo dire il partito politico moderno, il Partito socialista che tale modello rappresentava al massimo grado, tendeva a trasformarsi in una dittatura degli uomini dell’apparato, in uno strumento di scalata al potere sociale di persone e gruppi. Nulla può mai spezzare la «ferrea legge dell’oligarchia», e al massimo si realizza una «circolazione delle élites», cioè una loro mera alternanza. […]

Dietro l’apparenza della considerazione scientifica e avalutativa c’è un’idea decisamente negativa della politica liberaldemocratica, la tensione verso la costruzione di una qualche alternativa. Solo apparentemente diverso è il contenuto delle aspre polemiche ispirate nel corso dei primi anni del secolo al liberalismo radicale, secondo le quali nel detestabile sistema protezionistico determinatosi in Italia a partire dal 1887 i politici rappresentano la componente essenziale di aggregazioni interclassiste costituite per saccheggiare il pubblico erario e «tosare» i contribuenti. Un grande intellettuale fortemente schierato in questo senso, Gaetano Salvemini7, ci ha lasciato una raffigurazione destinata a enorme fortuna, quella della politica come campo d’azione – soprattutto nel Sud – della piccola borghesia degli spostati, che ne fanno una professione e impinguano8 per questa via le loro magre entrate a danno della collettività e in alleanza col governo corruttore. Quest’ultimo, com’è noto, è rappresentato nel primo quindicennio del secolo XX da Giovanni Giolitti9, il quale diviene così, agli occhi di un vario radicalismo, di destra, di sinistra e anche di centro, il rappresentante idealtipico di ogni deplorevole compromesso: massimo tra i quali, quello tentato con il socialismo riformista. Con il protezionismo, con la politica delle opere pubbliche, con il sostegno finanziario alle cooperative, con la legislazione sociale o con altri provvedimenti, la politica dei giolittiani e quella dei riformisti – ribadisce Arturo Labriola10 (come gli altri sindacalisti rivoluzionari fortemente influenzato dal liberismo) – servono a privilegiare interessi di gruppi sociali ristretti e lobbies, aristocrazie operaie o cricche affaristiche, a spese della grande maggioranza che resta silente e incapace di farsi valere. È un coro che, con accenti anche molto diversi, accomuna molti dei protagonisti del multiforme schieramento antigiolittiano, tendente rapidamente a farsi antisocialista anche nella sua componente più linearmente democratica, quella salveminiana. Il padre fondatore del nazionalismo italiano, Enrico Corradini11, sarà ben felice di riscuotere consensi sulla sua idea che ogni socialismo rappresenti «un tirocinio di continuo e progressivo parassitismo sulla nazione». […]

In tema di trasversalismo, il percorso più clamoroso di questo primo Novecento è quello destinato a culminare nella convergenza tra l’estrema destra del nazionalismo, la quale troverà nel 1910 un momento di prima, parziale solidificazione con la fondazione dell’Ani (Associazione nazionalista italiana), e l’estrema sinistra del sindacalismo rivoluzionario, che dopo essersi a lungo mantenuta ai margini del Psi finisce alla fine del decennio per orientarsi fuori e contro di esso. Il sindacalismo rappresenta un’altra corrente del grande fiume antigiolittiano, un’altra teoria e pratica anticompromissoria12. Ad apprezzarlo sono gli esponenti del «vario» nazionalismo che si esprime ne La Voce13 e nelle altre battagliere riviste politico-culturali di questo periodo; è Corradini; è, come si è visto, Pareto. In ambiente francese, forniscono modelli di riferimento per la convergenza tra i due settori estremi il gran maestro del sindacalismo, Georges Sorel14, e i nazionalisti dell’Action française15. In più, Corradini aggiunge la sua letteraria commozione per la sofferenza degli emigrati, che a suo dire richiede una politica di espansione coloniale: tema imperial-populistico che suscita l’entusiasmo del poeta Giovanni Pascoli16 per l’Italia «grande proletaria», che finalmente, portando le sue armi in Libia (1911), si è mossa. Su questo terreno il nazionalismo effettua un primo sfondamento verso l’area socialista, nei settori moderati che guardano a Leonida Bissolati17 e a Ivanoe Bonomi18, nonché, appunto, in quelli estremisti del sindacalismo. Nazionalismo e sindacalismo si riconoscono a vicenda come «dottrine di energia e di volontà», come avanguardie che contro il positivismo travestito da marxismo e il moderatismo di sempre, la folla e la gente comune, la borghesia vile e la plebe servile, creano esse la storia, anche (o soprattutto) mediante la violenza – perché solo la lotta forma gli individui, le classi, i popoli. Il radicalismo liberista funge, come si è detto, da idioma comune tra le due ali estreme, ma anche tra esse e i gruppi intermedi. Darwinismo sociale, organicismo, irrazionalismo confluiscono tumultuosamente in un crogiolo che alfine vedrà i sindacalisti erigere la nazione, anziché la classe, a soggetto della rivoluzione; e non, come talvolta erroneamente si è detto, scegliere la nazione anziché la rivoluzione.


tratto da Il fascismo. La politica in un regime totalitario, Donzelli, Roma 2000

Storie. Il passato nel presente - volume 3
Storie. Il passato nel presente - volume 3
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