4.6 Il biennio rosso in Italia e lo squadrismo

4.6 Il biennio rosso in Italia e lo squadrismo

Smobilitazione e proteste
Alla fine del conflitto anche l’Italia, come gli altri paesi europei, dovette avviare un complesso percorso di smobilitazione delle truppe e di riconversione degli apparati produttivi. Lo sforzo bellico aveva reso necessario orientare l’intero comparto industriale verso la produzione di guerra, soprattutto attraverso le commesse pubbliche per la fornitura di armamenti; si trattava ora di riconvertire la produzione industriale alle esigenze della società in tempo di pace.

Occorreva inoltre riportare sotto controllo la forte inflazione, che si ripercuoteva sul tenore di vita dei ceti meno abbienti riducendone il potere d’acquisto. Ben presto si scatenarono infatti moti contro il carovita, come quelli che infiammarono l’estate del 1919 soprattutto nell’Italia centrosettentrionale: con assalti ai negozi per appropriarsi dei beni alimentari o atti di intimidazione nei confronti dei commercianti per ottenere i prodotti a prezzi più bassi. Vi furono però anche tentativi di calmierare i prezzi attraverso forme pacifiche di cooperazione (come la costituzione di gruppi di acquisto e cooperative di consumo). In molte zone rurali, dal Lazio alla Puglia e alla Sicilia, i contadini avviarono invece una pacifica occupazione delle terre incolte, rivendicando il possesso di ciò che ritenevano fosse stato loro promesso in tempo di guerra, quando il governo aveva fatto intendere che i contadini arruolati avrebbero potuto beneficiare di un miglioramento delle proprie condizioni economiche una volta finito il conflitto.

I partiti di massa
Come in gran parte dell’Europa, anche in Italia il dopoguerra fu segnato da una nuova e più ampia partecipazione dei cittadini alla vita politica e civile. A organizzare questo fenomeno non fu però la vecchia classe dirigente liberale, ormai lontana dalla società e inadeguata a reggere le sfide della nuova situazione, ma i moderni partiti di massa, tenuti ai margini della vita pubblica postrisorgimentale: i cattolici e i socialisti. La formazione politica che diede voce al mondo cattolico fu il Partito popolare, fondato da don Luigi Sturzo nel gennaio 1919. Dopo la loro lunga astensione dalla vita politica sotto l’Italia liberale – imposta dal non expedit papale – i cattolici avevano finalmente uno strumento di partecipazione politica indipendente dai condizionamenti diretti del Vaticano. Il programma del partito, ispirato ai valori evangelici, prevedeva una forte attenzione alle questioni sociali (anche se con un approccio interclassista), ma anche la richiesta di riforme istituzionali in favore delle autonomie locali, in contrasto con il centralismo statale. Sturzo intendeva inoltre contrastare da una parte la minaccia socialista, dall’altra gli eccessi del nazionalismo più radicale.

Il Partito socialista era invece dominato in questi anni dalla corrente massimalista [▶ par. 1.6] guidata da Giacinto Menotti Serrati, anche se l’ispirazione alla rivoluzione bolscevica era più teorica che pratica e una vera strategia rivoluzionaria era sostanzialmente assente; la componente riformista di Filippo Turati, che mirava invece a ottenere l’approvazione di riforme sociali rimanendo nell’ambito della politica democratica, era comunque ancora forte nel gruppo parlamentare e nel sindacato.

Le elezioni del novembre 1919, tenute con una legge elettorale proporzionale, segnarono una secca sconfitta del Partito liberale e dimostrarono la forza eccezionale del Partito popolare (20% dei voti, 100 deputati) e di quello socialista (32% dei voti, 156 deputati). Al tempo stesso, tuttavia, i risultati elettorali rivelarono l’incapacità degli uni e degli altri di ottenere, da soli, una maggioranza, o di formare un governo insieme. La conseguenza fu una situazione di paralisi politica generale.

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FONTI

Il Programma di San Sepolcro

La fondazione del movimento dei Fasci di combattimento, avvenuta a Milano in piazza San Sepolcro, fu un evento appena riportato dalle cronache, ma che avrebbe assunto ben altre proporzioni nella retorica celebrativa fascista.

Fu pubblicato sul quotidiano del nascente movimento fascista, Il Popolo d’Italia, il 24 marzo 1919.

Il documento restituisce i linguaggi ambigui e contraddittori, al tempo stesso progressisti e reazionari, nazionalisti e socialisti, rivoluzionari e conservatori, che caratterizzarono il fascismo delle origini.

Italiani! Ecco il programma di un movimento genuinamente italiano. Rivoluzionario perché antidogmatico; fortemente innovatore antipregiudiziaiolo.


Per il problema politico:


Noi vogliamo:

a) Suffragio universale a scrutinio di lista regionale, con rappresentanza proporzionale, voto ed eleggibilità per le donne.

b) Il minimo di età per gli elettori abbassato ai 18 anni; quello per i deputati abbassato ai 25 anni. […]

d) La convocazione di una Assemblea Nazionale per la durata di tre anni, il cui primo compito sia quello di stabilire la forma di costituzione dello Stato.

e) La formazione di Consigli Nazionali tecnici del lavoro, dell’industria, dei trasporti, dell’igiene sociale1, delle comunicazioni, ecc. eletti dalle collettività professionali o di mestiere, con poteri legislativi, e diritto di eleggere un Commissario Generale con poteri di Ministro.


Per il problema sociale:


Noi vogliamo:

a) La sollecita promulgazione di una legge dello Stato che sancisca per tutti i lavori la giornata legale di otto ore di lavoro.

b) I minimi di paga.

c) La partecipazione dei rappresentanti dei lavoratori al funzionamento tecnico dell’industria.

d) L’affidamento alle stesse organizzazioni proletarie (che ne siano degne moralmente e tecnicamente) della gestione di industrie o servizi pubblici. […]


Per il problema militare: […]


c) Una politica estera nazionale intesa a valorizzare, nelle competizioni pacifiche della civiltà, la Nazione italiana nel mondo.


Il Popolo d’Italia, 24 marzo 1919

La scissione di Livorno
Nell’ottobre del 1919, al Congresso di Bologna, il Partito socialista aderì alla Terza Internazionale: caso unico nel panorama delle sinistre europee, divise tra un’ala radicale e una riformista, rispettivamente favorevoli o contrarie a una prospettiva rivoluzionaria sul modello bolscevico. Anche in Italia la rivoluzione russa accese gli animi e attrasse consensi vastissimi tra gli operai e i contadini che aspettavano l’avvento di un nuovo ordine sociale e politico. Tuttavia, nonostante i socialisti italiani proclamassero l’urgenza di «fare come in Russia», il Psi fu incapace di esercitare un’efficace azione politica nel quadro istituzionale esistente e al tempo stesso non abbastanza determinato verso un tentativo rivoluzionario di presa del potere.

Questo atteggiamento fu aspramente criticato dall’estrema sinistra del partito, e in particolare dagli esponenti del vivace ambiente torinese riunito intorno alla rivista L’Ordine nuovo, vicini all’esperienza e agli ideali sovietici. Proprio a partire da tale polemica, e dopo l’imposizione da parte di Lenin di rigide condizioni per l’adesione alla Terza Internazionale [▶ cap. 3.4], in seguito alle quali il Psi ritirò la sua adesione, al congresso di Livorno del gennaio 1921 si formò, per scissione dal Psi, il Partito comunista d’Italia (Pcd’I), alla cui guida si distinsero presto due giovani intellettuali ordinovisti, Palmiro Togliatti e Antonio Gramsci [ 10].

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Disordini sociali nelle città e nelle campagne
Come già accennato, la difficile transizione postbellica fu costellata da agitazioni urbane e rurali, moti insurrezionali, scontri armati, scioperi ricorrenti dei servizi pubblici. Anche in Italia, insomma, al conflitto mondiale seguì un “biennio rosso” di instabilità politica e di grande fermento sul piano delle lotte sociali e sindacali: nel 1920 il paese sembrava davvero alla vigilia di un mutamento rivoluzionario. L’occupazione delle fabbriche da parte degli operai [ 11], in particolare, fu un fenomeno di vaste proporzioni, che interessò complessivamente 4-500 000 lavoratori in diverse regioni, lasciando tracce profonde nell’immaginario sociale e culturale sia “proletario” sia “borghese”. Nel settembre 1920, al culmine di un ciclo di scontri d’intensità crescente, a Torino gli operai assunsero il controllo della Fiat e di altre fabbriche e diedero vita a nuovi organismi di gestione della produzione – i consigli di fabbrica, ispirati ai soviet russi –, cercando così di proporre un modello concreto di controsocietà proletaria. Dopo una trattativa estenuante, punteggiata da momenti drammatici che fecero temere uno scivolamento verso la guerra civile, la vertenza fu infine risolta con un compromesso proposto dal governo Giolitti: alle commissioni di fabbrica furono attribuiti alcuni poteri di controllo sulle scelte della dirigenza, anche se si trattava di prerogative per lo più formali, che non sovvertivano in alcun modo gli equilibri di potere interni alle aziende.

Dalla primavera del 1920, intanto, anche le campagne conobbero crescenti agitazioni che, pur originate dalla questione della proprietà della terra, erano animate dal sogno di un radicale rinnovamento dell’ordine politico e sociale. Nella Pianura Padana, in particolare, la disoccupazione che colpiva i braccianti stagionali diede luogo a frequenti episodi di conflitto sociale, con occupazioni dei campi, boicottaggi ai danni dei proprietari terrieri, scioperi agrari, incendi dolosi, fino, in casi estremi, alla minaccia o alla pratica della violenza fisica. Non meno radicale fu la protesta dei piccoli proprietari, preoccupati dalla prospettiva di perdere le proprie terre e determinati a difendere il proprio relativo benessere. L’aumento del costo della vita dovuto alla guerra e alla crisi del dopoguerra aveva infatti portato a un peggioramento delle loro condizioni, tanto che molti furono costretti a vendere le loro proprietà.

Fin dalla fine dell’Ottocento si erano formate leghe contadine che nel dopoguerra si moltiplicarono e si politicizzarono, diventando per lo più socialiste (le “leghe rosse”) o cattoliche (le “leghe bianche”). Queste associazioni funzionavano da potente strumento di organizzazione dei lavoratori, di soccorso e assistenza per i disoccupati, nonché da rudimentali centri di formazione politica. Nei frangenti di grave agitazione sociale, i capi delle leghe assumevano un notevole potere locale, tanto che alcuni di loro amavano presentarsi come “piccoli Lenin”.

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Il fascismo agrario
In questo quadro di crisi politica e sociale prese forma il fascismo agrario, che attingeva a una lunga tradizione di pratiche violente dei proprietari terrieri nei confronti dei braccianti. Si trattava di piccoli gruppi (“squadre”) [ 12] di giovani che avevano fatto la guerra, o di giovanissimi che rimpiangevano di non avervi potuto partecipare, convinti che la “nuova” Italia – un’Italia dei “giovani” contro i “vecchi” – fosse già nata sui campi di battaglia. Essi vagheggiavano infatti un modello comunitario e militarizzato di società – il “cameratismo” – ispirato alle forme di solidarietà sperimentate dai soldati nelle trincee o nelle file di formazioni d’assalto come gli Arditi. Gli squadristi, che tra loro si chiamavano appunto “camerati”, erano avvezzi all’uso della violenza fisica, tanto che il loro emblema era un manganello. Nelle loro incursioni, spesso svolte con il ricorso a camion e autocarri per ampliarne il raggio d’azione e muoversi con rapidità, sottoponevano le loro vittime a percosse che non di rado portavano alla morte (configurandosi come veri e propri assassini politici) o le costringevano a pesanti umiliazioni come per esempio a ingerire olio di ricino, un forte purgante. Distinto dal fascismo urbano per l’organizzazione più militarizzata e per il tratto più spiccatamente antisocialista, lo squadrismo agrario tendeva a sfuggire al controllo dello stesso Mussolini, che però ne intuì subito il potenziale politico.

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La diffusione della violenza
Non a caso, infatti, il fenomeno dello squadrismo divenne presto un tratto distintivo del nascente movimento fascista. Le prime azioni delle squadre fasciste nelle città furono realizzate a Trieste, Pola e in tutta l’Istria nell’estate del 1920: emblematico fu l’incendio del Narodni Dom, la Casa del Popolo slovena a Trieste, il 13 luglio. Dal novembre seguente, la violenza squadrista dilagò poi in Emilia, in tutta la Pianura Padana, in Toscana, in Umbria e in Puglia. La geografia dello squadrismo fascista del 1921-22 tendeva a coincidere con quella in cui più forte e radicale era stato il massimalismo socialista nel 1919-20. I capi delle leghe socialiste furono aggrediti, intimiditi, uccisi; le strutture delle cooperative, dei sindacati e delle Case del Lavoro, nonché le sedi della stampa socialista, furono devastate e incendiate. Anche le leghe cattoliche, soprattutto nella bassa Lombardia e in Veneto, furono prese di mira dai fascisti. Ondate crescenti di violenza finirono così col distruggere una capillare rete di associazioni, unica nel suo genere in tutta Europa, che si era formata tra fine Ottocento e inizio Novecento e che aveva offerto ai contadini un sistema di protezione, formazione e aggregazione sociale e politica.

Socialisti e comunisti tentarono una reazione armata, ma mancavano di preparazione tecnica e di determinazione politica: la costituzione nell’estate del 1921 degli “Arditi del popolo” [ 13], da contrapporre agli squadristi, fu tardiva e comunque insufficiente, anche a causa dell’atteggiamento tollerante mostrato dalle forze dell’ordine nei confronti della violenza fascista.

Così, tra il 1920 e il 1922 si combatté una guerra civile strisciante tra fascisti da una parte e socialisti o comunisti dall’altra. Spesso bastava l’esibizione di una bandiera o l’intonazione di canti politici per le vie o nelle piazze di un paese a far scattare una sequenza di provocazioni simboliche e scontri fisici, rappresaglie organizzate e vendette personali [ 14]. La violenza politica divenne un’esperienza quasi quotidiana, che provocò una lunga scia di sangue (oltre 3000 morti, secondo le stime più attendibili).

Storie. Il passato nel presente - volume 3
Storie. Il passato nel presente - volume 3
Dal 1900 a oggi