4.5 L’eredità della guerra in Italia

4.5 L’eredità della guerra in Italia

Una pace incerta

In Italia, paese che pure figurava tra le potenze vincitrici, il dopoguerra si presentò carico di incertezze e tensioni. In seguito alla vittoria sull’Impero austro-ungarico l’opinione pubblica nazionale aspirava a importanti acquisizioni territoriali, come ricompensa per il lungo e sanguinoso conflitto. Ma le conseguenze politiche della guerra furono più ambigue di quanto fosse apparso alla conclusione del conflitto.

La delegazione del governo italiano guidata dal presidente del Consiglio Vittorio Emanuele Orlando e dal ministro degli Esteri Sidney Sonnino giunse al tavolo delle trattative di Versailles, nel gennaio 1919, con una posizione contraddittoria. Da un lato intendeva annettere le province ex austro-ungariche di Trento e Trieste e la Dalmazia, secondo i termini del patto di Londra firmato nel 1915 [▶ par. 2.3]; dall’altro avanzava rivendicazioni sulla città di Fiume (non contemplata dal patto) sulla base del fatto che la sua popolazione era in maggioranza italiana. In altre parole, l’Italia perseguiva i suoi interessi facendo ricorso a due logiche completamente opposte: quella della diplomazia tradizionale, basata sui trattati fra gli Stati, e quella fondata sul nuovo principio dell’autodeterminazione, sostenuto dal presidente americano Wilson.

Le potenze dell’Intesa erano disposte a onorare il patto di Londra nella misura in cui le sue disposizioni non entravano in palese conflitto con le aspirazioni nazionali di altri Stati. In questo senso, le pretese espansionistiche italiane in Dalmazia si scontravano con le istanze del nascente Regno dei Serbi, Croati e Sloveni. Orlando si diceva disponibile al compromesso, Sonnino era invece attestato su posizioni oltranziste. A fine aprile la delegazione italiana abbandonò la conferenza di pace, motivando il gesto con la necessità di consultare gli altri membri del governo. Di fatto, si trattò di un segno di plateale protesta.

La “vittoria mutilata”
L’andamento delle trattative internazionali aprì una profonda frattura negli ambienti culturali e politici che avevano sostenuto l’intervento in guerra dell’Italia. Da una parte vi erano i fautori di una pace “democratica”, che riconoscesse i diritti di nazionalità degli altri popoli; dall’altra i sostenitori della politica di potenza e dell’espansione imperiale, mossi dalla volontà di realizzare la “più grande Italia”. Mentre le notizie da Parigi lasciavano poco margine alla soddisfazione di questi ultimi, il poeta Gabriele D’Annunzio diffuse il mito della“vittoria mutilata”, secondo cui la vittoria in guerra era stata “diminuita” dalla mancata assegnazione di Fiume e della Dalmazia [ 7]. La campagna dannunziana trovò risonanza nel vasto e variegato ambiente dei reduci di guerra, in cui confluivano nazionalisti e sovversivi, repubblicani e sindacalisti rivoluzionari; sull’onda lunga della propaganda di guerra, D’Annunzio affermava l’idea che, dopo aver battuto il nemico esterno sui campi di battaglia del Carso e delle Dolomiti, occorresse ora combattere il “nemico interno” – ossia giolittiani e socialisti – che negava all’Italia i suoi legittimi diritti.

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La contesa per Fiume

La contesa internazionale intorno allo status della città di Fiume degenerò nello scontro armato. Sotto la sovranità ungherese, all’interno della cornice asburgica, Fiume era stata un porto attivo e cosmopolita, in cui la maggioranza di lingua e cultura italiana conviveva con le ampie minoranze ungherese, tedesca, croata ed ebraica. Con il plebiscito del 30 ottobre 1918 (prima, dunque, che si aprisse la Conferenza di pace di Versailles), la maggioranza della popolazione aveva espresso la sua volontà di essere annessa all’Italia, ma una cospicua parte dei suoi abitanti non si riconosceva in questa prospettiva.

Il 12 settembre 1919 D’Annunzio partì da Ronchi, nei pressi di Trieste, alla guida di una spedizione di 2500 volontari (ribattezzati “legionari”) che aveva l’obiettivo esplicito di portare Fiume sotto la sovranità italiana. L’occupazione militare della città adriatica, pur ispirata dal nazionalismo più radicale, richiamò anche frange del variegato universo libertario e sindacalrivoluzionario, che animarono un inedito esperimento politico. Fu costituita la Reggenza del Carnaro (dal nome del braccio di mare che collega Fiume all’Adriatico) con a capo D’Annunzio stesso, che poteva così dare concreta espressione alle nuove forme della politica di massa attraverso una suggestiva coreografia del potere [ 8]. I discorsi del capo carismatico di fronte alla folla entusiasta e osannante, per esempio, furono sperimentati per la prima volta da D’Annunzio dal balcone del Palazzo del Governo di Fiume, e sarebbero poi stati imitati da Benito Mussolini.

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Intanto, il clima politico si era deteriorato in tutto l’Alto Adriatico, acuendo i conflitti sociali e nazionali già esistenti e alimentando la forza del nazionalismo italiano. Il Trattato di Rapallo, stipulato nel novembre 1920 fra Italia e Regno dei Serbi, Croati e Sloveni, stabilì infine i nuovi confini, assegnando all’Italia l’Istria, il Goriziano, Zara e alcune isole. Fiume fu formalmente proclamata città libera, ma restava aperto il problema della sua occupazione militare. Dopo vani tentativi di convincere D’Annunzio e i suoi volontari a lasciare Fiume, nel dicembre 1920 l’esercito italiano ricorse alla forza per sgomberare la città dalle unità dei legionari dannunziani. Fu il cosiddetto “Natale di sangue”, che alimentò in Italia un clima da guerra civile, rafforzando le recriminazioni dei nazionalisti verso il nuovo governo Giolitti, frattanto succeduto a Francesco Saverio Nitti (a sua volta subentrato a Orlando).

La nascita del fascismo
In questo arroventato clima politico prese forma il cosiddetto “diciannovismo”, termine che indica un’ansia di rinnovamento tanto intensa quanto vaga nei suoi obiettivi concreti, un impeto sovversivo e uno slancio vitalistico verso un nuovo ordine, condiviso sia dal nazionalismo, sia da parte della sinistra massimalista. Fu in questo contesto che il 23 marzo 1919, in piazza San Sepolcro a Milano, Benito Mussolini fondò i primi Fasci di combattimento [ 9], nucleo originario di quello che sarebbe poi diventato il Partito nazionale fascista [▶ FONTI, p. 156-157]Abbandonato ormai il Partito socialista, l’ex direttore dell’Avanti! cercava di conquistarsi un nuovo spazio politico guadagnandosi il favore degli ex combattenti.

Nel 1919 la fisionomia politica e ideologica del movimento fascista era tutt’altro che chiara e coerente. Si mescolavano in essa le rivendicazioni militariste ed espansionistiche del nazionalismo combattente e il richiamo ai “produttori” – ben diverso dal richiamo classista e socialista ai “lavoratori” – come base dell’economia nazionale; l’avversione per la monarchia e per la Chiesa, in cui riemergeva l’eredità del movimento repubblicano della terra d’origine di Mussolini, la Romagna; infine, elemento centrale nell’ideologia del primo fascismo era l’ostilità nei confronti del Partito socialista, denunciato come partito antinazionale: non a caso la prima azione violenta dei Fasci fu compiuta ai danni della sede milanese dell’Avanti!, il 15 aprile 1919.

Nonostante queste azioni, e nonostante la forte personalità di Mussolini, nei mesi successivi il fascismo restò solo uno dei tanti piccoli gruppi della galassia interventista e nazionalista radicale. Nelle elezioni politiche del novembre 1919 il movimento, radicato soprattutto in alcune realtà urbane dell’Italia centrosettentrionale, non riportò il successo sperato dai suoi sostenitori.

Storie. Il passato nel presente - volume 3
Storie. Il passato nel presente - volume 3
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