4.7 L’ascesa del fascismo

4.7 L’ascesa del fascismo

La crisi del sistema liberale

Come si è già accennato, le tensioni e le dimensioni di massa della nuova politica erano del tutto estranee alla cultura della classe dirigente liberale, che si era formata prima della guerra e che era abituata a governare attraverso la tattica parlamentare e grazie a una rete di rapporti con il territorio basata sul potere dei notabilati locali. I governi del periodo 1919-22 – guidati in successione da Francesco Saverio Nitti, Ivanoe Bonomi, Giovanni Giolitti e Luigi Facta – furono anche per questo incapaci, di fronte a una lotta politica sempre più aspra ed estesa, di gestire l’ordine pubblico e di garantire il rispetto della legge.

Bisogna inoltre ricordare che, nonostante le direttive del governo tese a richiamarli al loro dovere di neutralità, molti funzionari e agenti delle forze dell’ordine simpatizzavano con gli squadristi e ne garantivano l’impunità sostanziale, arrivando spesso ad appoggiarne le azioni con la fornitura di mezzi e armi. All’impreparazione tecnica della politica e degli apparati statali si sommò dunque la complicità di una parte di essi con l’ideologia fascista, in chiave di ostilità verso i “rossi” e i “nemici della nazione”. Furono rari i casi in cui le Guardie regie o i Carabinieri repressero le violenze dei fascisti, come avvenne a Sarzana (luglio 1921) o a Modena (settembre 1921).

L’avanzata del fascismo
Nel frattempo, l’ennesimo ritorno al governo di Giolitti (giugno 1920), ormai largamente considerato dall’opinione pubblica come l’incarnazione di tutti i mali italiani, suscitò ulteriore avversione nei confronti della politica liberale e, più in generale, delle istituzioni dello Stato. Il movimento fascista poté così ampliare i propri spazi di manovra, approfittando della crisi dei liberali, che avevano fino ad allora rappresentato gli interlocutori privilegiati della classe dirigente industriale e agraria, per intrecciare rapporti organici da una parte con il mondo dell’imprenditoria industriale e dall’altra con il mondo agrario, in particolare con i proprietari terrieri che, come si è visto, appoggiavano la violenza squadrista essendo interessati a una restaurazione dell’ordine in funzione antisocialista e antibolscevica.

Alle elezioni del maggio del 1921, che si svolsero in un clima saturo di violenza, i fascisti si presentarono insieme ad altri candidati di orientamento giolittiano, nazionalista e popolare nelle liste dei Blocchi nazionali. Questi raggiunsero il 19% delle preferenze e la rappresentanza di 105 parlamentari alla Camera. Fra questi 105, i fascisti ottennero 35 deputati, compreso lo stesso Mussolini. Rispetto al successo del 1919, socialisti e popolari arretrarono significativamente a 123 e 108 deputati (ottenuti rispettivamente con il 24% e il 20% dei suffragi). L’esito complessivo della consultazione vanificava la possibilità di costituire una maggioranza politica coesa, aprendo una fase di acuta instabilità.

Con l’intento di presentarsi su posizioni lontane da quelle dei mesi precedenti, improntate alla violenza e all’aggressività, nell’agosto 1921 Mussolini firmò con i socialisti un “patto di pacificazione che generò una vera e propria sollevazione degli squadristi, non disposti a rinunciare allo spazio sociale e politico che il fascismo si era conquistato con la forza.

L’esito di questa crisi interna al movimento fu, nel novembre 1921, la costituzione del Partito nazionale fascista (Pnf), con cui Mussolini riuscì a imporre un maggior controllo sullo squadrismo e al tempo stesso a instaurare rapporti più stretti con le forze dei Blocchi.

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La “marcia su Roma”
Nell’agosto 1922 i socialisti cercarono di organizzare uno sciopero generale contro i fascisti all’interno di una cornice legalitaria. L’opinione pubblica era però ormai stanca e disillusa e l’iniziativa si risolse in un fallimento completo. I vertici del Partito fascista accelerarono allora i preparativi per una soluzione inedita della situazione di paralisi politica che aveva fatto seguito alle elezioni del 1921.

L’obiettivo era evitare ogni ipotesi di ritorno di Giolitti al potere, approdando invece alla formazione di una maggioranza raccolta intorno a Mussolini. Tra il 27 e il 28 ottobre 1922, secondo un piano prestabilito, squadre fasciste provenienti da molte regioni d’Italia confluirono a Roma per una manifestazione dimostrativa, una prova di forza che ambiva a dare avvio a una sorta di rivoluzione dalle forme semilegali. Talvolta rappresentata in modo caricaturale, quasi fosse stata un’allegra scampagnata di “patrioti”, la “marcia su Roma” – come fu denominato l’evento dalla propaganda fascista – fu un evento carico di violenza verbale e fisica, anche se più minacciata che praticata.

Circa 20-25 000 squadristi si concentrarono intorno alle mura della capitale, difesa da una guarnigione di 28 000 soldati, sfidando le istituzioni e la monarchia [ 15]. In un primo tempo re Vittorio Emanuele III fu incline a dichiarare lo stato d’emergenza e a consegnare all’esercito il compito di reprimere la manifestazione; ben presto, però, decise di accettare le dimissioni del presidente del Consiglio Luigi Facta (rassegnate proprio il 27 ottobre) e di nominare Mussolini a capo del governo.

La crisi di governo non ebbe dunque una soluzione parlamentare, nella misura in cui il re scavalcò le prerogative dell’assemblea (prerogative non scritte, ma divenute ormai prassi consueta) nella nomina del presidente del Consiglio; fu però costituzionale, cioè coerente con i dettami dello Statuto albertino, che affidava esclusivamente al re la facoltà di incaricare il capo del governo. Da questo punto di vista, non si può affermare che la presa del potere da parte di Mussolini sia stato un vero e proprio colpo di Stato, anche se molti settori dell’esercito appoggiarono il fascismo. Di certo il clima di violenza creato dai fascisti influenzò la monarchia e le alte autorità dello Stato, le quali optarono per un incarico a Mussolini con la speranza che questo significasse una normalizzazione del fascismo, ossia una sua riduzione alla normale dialettica politica.

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Mussolini al governo
Il nuovo esecutivo era il prodotto di un compromesso tra la monarchia, l’esercito, il mondo economico e finanziario e la Chiesa, tutti soggetti in vario modo interessati a sostenere il fascismo in funzione antisocialista e conservatrice. Gli alti vertici delle forze armate auspicavano che un diretto coinvolgimento del movimento fascista nel governo avrebbe posto un freno alle derive “anarchiche” che laceravano l’Italia, mettendo fine a ogni minaccia rivoluzionaria. Le principali forze economiche del paese (gli industriali e gli agrari) erano da tempo vicine al movimento di Mussolini e ne avevano spesso finanziato l’organizzazione e le azioni contro i socialisti e i “nemici della nazione” che avevano imperversato durante il biennio rosso. Più controverso era il rapporto con la Chiesa. Le relazioni tra fascisti e cattolici erano state tese fin dall’inizio, a causa dell’elemento anticlericale presente nel programma fascista del 1919, erede della tradizione repubblicana risorgimentale. Al tempo stesso, tuttavia, la Chiesa aveva ostacolato ogni accordo in chiave antifascista tra popolari e socialisti e aveva caldeggiato un appoggio del Partito popolare al governo Mussolini in funzione antibolscevica.

Mussolini tenne il suo primo discorso da capo del governo alla Camera dei deputati, il 16 novembre 1922, assumendo toni sprezzanti verso l’istituzione parlamentare: «potevo fare di quest’aula sorda e grigia un bivacco di manipoli» [ 16], affermò, intendendo con ciò dire che avrebbe potuto mobilitare i suoi squadristi per chiudere immediatamente il parlamento e arrestare tutti i deputati. Il parlamento concesse subito al nuovo presidente del Consiglio i pieni poteri legislativi e la facoltà di produrre  decreti-legge (di cui Mussolini si sarebbe ampiamente servito), mutando drasticamente i rapporti di forza tra potere esecutivo e legislativo.

Il primo governo Mussolini non era integralmente composto da esponenti del movimento fascista, ma includeva anche rappresentanti dell’Associazione nazionalista e del Partito popolare. I rapporti con gli alleati, tuttavia, si mostrarono presto condizionati dai progetti egemonici di Mussolini. Così, nonostante l’opposizione delle gerarchie ecclesiastiche, al congresso dell’aprile 1923 il Partito popolare decise di ritirare l’appoggio al governo Mussolini e schierarsi con l’opposizione. 

Più complessi furono i rapporti con l’Associazione nazionalista. Il Partito fascista condivideva l’ideologia aggressiva e la retorica patriottica propria degli alfieri del nazionalismo (così come era stata elaborata fin dai primi anni del secolo), ma a differenza di questi, che sul piano della politica interna miravano alla pura e semplice conservazione dell’ordine sociale, i fascisti si ponevano l’obiettivo, pur confuso sul piano ideologico, di una sua trasformazione dinamica e radicale, per certi versi “rivoluzionaria”. Nel febbraio 1923 si giunse comunque a una fusione tra i due gruppi, che di fatto, nel giro di poco tempo, si risolse nell’assimilazione dei nazionalisti da parte del Partito fascista.


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4.8 La disintegrazione delle istituzioni liberali

Violenza e compromesso
La marcia su Roma e il primo governo Mussolini non posero fine alle violenze; la crisi delle istituzioni liberali – che sarebbe giunta fino alla loro vera e propria disintegrazione – era del resto in atto da tempo e non si concluse all’indomani della presa del potere da parte del fascismo. Attraverso un uso alterno della violenza e del compromesso, Mussolini operò una lenta ma inesorabile trasformazione dello Stato, che mirava allo svuotamento delle istituzioni esistenti e alla loro conversione in direzione autoritaria. Non a caso, tra i primi provvedimenti vi fu la costituzione della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale (Mvsn), ossia la sostanziale legalizzazione di uno strumento di violenza privata come le squadre fasciste. Voluta da Mussolini anche allo scopo di porre una volta per tutte lo squadrismo sotto il suo controllo, si trattava di una delle prime misure che alteravano profondamente la fisionomia dello Stato liberale.

Nel gennaio del 1923 fu poi istituto il Gran consiglio del fascismo, che dal 1928 sarebbe diventato organo costituzionale del Regno d’Italia. Ne facevano parte i vertici del Partito e degli apparati di polizia, che, sotto la presidenza del capo del governo – ossia di Mussolini –, discutevano questioni costituzionali e linee generali di politica, pur potendo esprimere soltanto pareri non vincolanti.

Fin dal 1923 il nuovo governo adottò provvedimenti volti a incidere profondamente nella vita sociale, politica e culturale del paese, con il fine di riprendere e intensificare, in chiave autoritaria, quel processo di nazionalizzazione, ossia in quello sforzo di «fare gli italiani» di dazegliana memoria, che era stato solo parzialmente realizzato sotto i governi liberali. In questo senso, perno fondamentale della politica fascista fu la riforma della scuola concepita dal filosofo idealista Giovanni Gentile, allora ministro della Pubblica istruzione. La riforma, che introduceva l’ora di religione e gli esami di Stato per equiparare le scuole pubbliche e quelle private (prevalentemente cattoliche), costituiva un passo importante verso un rapporto più conciliante con la Chiesa e con il mondo cattolico.

Il delitto Matteotti
Nello stesso 1923, per ampliare la propria maggioranza parlamentare, il governo fascista promosse una nuova legge elettorale maggioritaria, nota come legge Acerbo (dal nome del suo promotore, il deputato Giacomo Acerbo). Questa prevedeva l’assegnazione della maggioranza assoluta dei seggi in parlamento a chi avesse ottenuto una quantità di voti superiore al 25%. Tale soglia fu ampiamente superata dal Pnf alle successive elezioni dell’aprile 1924, che, dopo una campagna elettorale ancora una volta segnata da violenza e intimidazioni, consegnarono dunque a Mussolini la maggioranza assoluta del parlamento.

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Il deputato socialista Giacomo Matteotti denunciò le violenze e i brogli dei fascisti, che avevano alterato e manipolato l’esito elettorale. A causa dei suoi interventi parlamentari, il 10 giugno Matteotti fu rapito sul Lungotevere da un commando squadrista; il suo corpo senza vita fu ritrovato soltanto in agosto [ 17]. La sparizione e l’omicidio di Matteotti provocarono una seria crisi in seno al governo fascista e un’ondata di sdegno nell’opinione pubblica, richiamando i partiti d’opposizione a scelte più nette. Il 27 giugno, per protesta, i principali partiti antifascisti scelsero di ritirarsi dai lavori parlamentari, con lo scopo di costringere il re a chiedere le dimissioni di Mussolini e il ripristino della legalità: fu il cosiddetto Aventino (dal nome del colle su cui nell’antica Roma si ritiravano i plebei nei periodi di più acuto conflitto con i patrizi). Tra l’estate e l’inverno del 1924, il governo Mussolini sembrò dunque vacillare di fronte al malcontento popolare e alle intemperanze degli squadristi, che minacciavano di compromettere la credibilità del fascismo quale garante dell’ordine sociale.

Il “duce”, come ormai veniva chiamato Mussolini, riuscì però a imprimere una svolta alla situazione, volgendola a proprio favore. Con il discorso tenuto di fronte all’aula parlamentare il 3 gennaio 1925, egli rivendicò la «responsabilità storica, politica e morale» dell’omicidio Matteotti [▶ FONTI, p. 166]. Da una parte egli avviava un processo di “normalizzazione”, con il quale intendeva recuperare il controllo delle correnti intransigenti che aspiravano a una seconda ondata rivoluzionaria e che davano vita periodicamente a esplosioni di violenza. Dall’altra gettava la maschera, dichiarando apertamente il suo obiettivo finale: la dittatura.

Storie. Il passato nel presente - volume 3
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