3.4 La nascita del comunismo internazionale

3.4 La nascita del comunismo internazionale

L’esportazione della rivoluzione
Come abbiamo detto, contrariamente alla visione marxista della Seconda Internazionale, che considerava il socialismo come l’esito della lenta maturazione del capitalismo e del suo graduale superamento, i bolscevichi ritenevano che fosse possibile accelerare il percorso storico e instaurare un nuovo ordine politico e sociale anche nell’arretrata società russa. Gli stessi Lenin e Trockij nutrirono fin da subito dubbi circa la natura socialista della loro rivoluzione. Tra i sostenitori del nuovo corso si diffuse piuttosto la fede nelle capacità “magiche” di Lenin, che era riuscito a conquistare il potere nonostante condizioni drammaticamente difficili.

Il gruppo dirigente bolscevico [ 11] era anche convinto che il nuovo regime sarebbe sopravvissuto solo se il processo rivoluzionario si fosse esteso a tutto il continente, a partire dal suo cuore industriale, la Germania; i tentativi dei rivoluzionari tedeschi, tuttavia, fallirono definitivamente all’inizio del 1919. Nuovi scenari di esportazione della rivoluzione attraverso l’uso delle armi, come si è visto, si affacciarono nell’agosto del 1920, a seguito della travolgente avanzata dell’Armata rossa verso Varsavia, ma anche in questo caso speranze e timori vennero delusi.

La Terza Internazionale
Nondimeno, l’influenza della rivoluzione in Europa fu molto forte. Dopo una primissima fase di incomprensione e di incertezza, gli eventi russi del 1917 ebbero infatti un’eco globale e generarono la nascita di un vero e proprio mito sovietico, sostenuto dall’entusiasmo per la Rivoluzione d’ottobre, interpretata da molti come l’apertura di un nuovo ciclo rivoluzionario in tutta Europa. Visite da parte di delegazioni dei partiti socialisti e veri e propri pellegrinaggi ideologici furono organizzati in Russia fin dai primi mesi successivi alla rivoluzione.

Nel frattempo, i bolscevichi avevano adottato la denominazione di Partito comunista russo, durante il Congresso del marzo 1918, per distinguersi nettamente dalle altre fazioni dell’ex socialdemocrazia russa. Nel marzo del 1919, poi, fu fondato a Mosca il nucleo originario della Terza Internazionale, o Internazionale comunista (Comintern nella forma abbreviata) [ 12]. Questa nuova organizzazione del proletariato sarebbe dovuta diventare uno strumento politico al servizio della rivoluzione mondiale, dopo il fallimento della rivoluzione in Germania e delle prospettive di esportazione militare del socialismo. Perché ciò fosse possibile, essa doveva avere, nelle intenzioni di Lenin, caratteri ben diversi da quelli della Seconda Internazionale socialista. Alle adesioni vaste ma disordinate dei primi tempi, seguì una stretta disciplinare e ideologica, con l’obiettivo di creare uno strumento efficiente e allineato alle direttive di Mosca. Nell’agosto del 1920 Lenin dettò le 21 condizioni di adesione: tra queste spiccavano il dovere di fedeltà al programma e alle risoluzioni del Comintern, l’inserimento dell’aggettivo “comunista” nella denominazione del partito, la battaglia contro il riformismo, il rifiuto della legalità borghese, la scelta della lotta clandestina rivoluzionaria e l’affermazione del  centralismo democratico. Con quest’ultimo principio si imponeva una struttura centralistica e verticistica ai partiti aderenti, in cui doveva dominare una ferrea disciplina e una totale obbedienza alle decisioni della direzione. Ogni forma di dissenso o indisciplina sarebbe stata punita con l’espulsione dal Comintern.

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I partiti comunisti europei
Accanto agli entusiasmi, tuttavia, la Rivoluzione d’ottobre e la fondazione del Comintern provocarono anche una lacerante divisione tra le varie correnti del socialismo russo e internazionale, isolando, almeno inizialmente, il gruppo bolscevico. In particolare, Karl Kautsky, il principale teorico della socialdemocrazia tedesca, criticò severamente la scelta autoritaria e antidemocratica di Lenin, il quale, a sua volta, accusò Kautsky di essere un “rinnegato” del socialismo.

La formazione dei principali partiti comunisti europei seguì strade diverse in Germania, Francia e Italia. Il Partito comunista tedesco (Kpd) nacque tra fine dicembre 1918 e inizio gennaio 1919 dall’aggregazione di vari frammenti dell’estrema sinistra, dal Partito socialdemocratico indipendente alla Lega di Spartaco, attiva durante i fermenti postbellici. Nel dicembre successivo si costituì il Partito comunista francese (Pcf). In Italia, infine, fu la scissione del Partito socialista, consumatasi al Congresso di Livorno nel gennaio 1921, a dar vita al Partito comunista d’Italia (Pcd’I), guidato dal rivoluzionario napoletano Amadeo Bordiga. Confluirono nella nuova formazione anche i cosiddetti “ordinovisti”, cioè gli esponenti del gruppo torinese “Ordine nuovo”, tra i quali figuravano Palmiro Togliatti e Antonio Gramsci.

La nascita dei partiti comunisti in Europa occidentale avveniva nel momento in cui il ciclo più critico dei conflitti post-bellici era ormai superato. Al contrario di quanto ci si aspettava a Mosca, essa non era il segno dell’imminente espansione della rivoluzione, ma l’inizio del suo ripiegamento e del suo futuro confinamento in un solo paese, la Russia.

3.5 Dal comunismo di guerra alla Nep

Il comunismo di guerra
Le circostanze della guerra civile costrinsero i bolscevichi all’attuazione di misure economiche eccezionali, ma allo stesso tempo offrirono loro l’opportunità di realizzare fin da subito forme di politica economica comunista. Per riassumere il senso della sua politica, Lenin disse che il comunismo era «il potere dei soviet più l’elettrificazione del paese»: una volta preso il potere, in altre parole, occorreva creare le condizioni di base per lo sviluppo di una grande industria moderna, senza la quale non era possibile l’introduzione di elementi di economia socialista.

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In realtà, nelle condizioni estreme di quegli anni, i soviet furono sempre più svuotati di effettive capacità di controllo e di governo, mentre sul piano economico si fece strada la scelta di una radicale statalizzazione della produzione e della distribuzione dei beni. Questa politica, che nel 1921 Lenin definì “comunismo di guerra”, si ispirava alle misure eccezionali adottate nell’Impero tedesco durante il conflitto mondiale al fine di razionalizzare l’uso delle risorse e di disciplinare le forze produttive. Un Consiglio nazionale per l’economia fu incaricato di dirigere l’intero sistema economico, di pianificare le attività industriali dello Stato e di assumere il pieno controllo del commercio privato. La moneta perse quasi completamente di valore, tanto che si giunse a ipotizzare la sua formale abolizione (poi non attuata): in assenza di prezzi liberamente stabiliti dalle leggi del mercato, spettava infatti alle autorità burocratiche ripartire beni e risorse secondo le priorità definite dalla politica. Nelle campagne, peraltro, l’interruzione dei collegamenti con le città, la penuria generale e le requisizioni forzate fecero riaffiorare forme elementari di commercio fondate sul baratto invece che sullo scambio monetario.

Le misure d’emergenza si accompagnarono a una regressione delle relazioni politiche, sociali ed economiche verso forme brutali, con l’esplicita adozione del modello militare per gestire la produzione e la distribuzione dei beni. Nei primi mesi del 1920 furono organizzate le “armate del lavoro”, contingenti di lavoratori inquadrati militarmente e assoggettati al comando di ufficiali trasferiti a questo scopo dall’Armata rossa all’amministrazione civile. Il comunismo di guerra stava dando luogo a una nuova forma di Stato estremamente centralistica, burocratica e militarizzata, una sorta di fortezza isolata rispetto a un corpo sociale impaurito e diffidente, se non apertamente ostile.

Le rivolte di operai, marinai e contadini
Tra la fine del 1920 e l’inizio del 1921, il regime bolscevico era ancora fondato su basi sociali fragilissime, continuamente minate da proteste operaie, insurrezioni contadine e rivolte nazionali. L’economia era piegata, i livelli di produttività nettamente inferiori a quelli prebellici e la popolazione continuava a spostarsi dalle città alle campagne, dove la sopravvivenza, nonostante tutto, era meno difficile.

L’evento simbolicamente più rilevante del malcontento popolare fu la ribellione dei marinai di Kronštadt, base della marina russa posta su un’isola della baia della Neva nel golfo di Finlandia, di fronte a Pietrogrado. I marinai, che erano stati fra i protagonisti della Rivoluzione d’ottobre, nel febbraio-marzo 1921 si sollevarono per protesta contro la drammatica situazione economica degli operai nelle città, chiedendo nuove elezioni, la libertà di espressione e di assemblea, il diritto all’organizzazione sindacale e la liberazione dei prigionieri politici. Le richieste furono respinte dal governo bolscevico, convinto che la ribellione fosse frutto di una cospirazione straniera. Il compito della repressione armata fu affidato al generale Tuchacˇevskij, veterano della guerra civile, che agì con straordinaria durezza, estendendo la legge marziale all’intera classe operaia di Pietrogrado e stroncando la protesta a costo di migliaia di morti.

Tuttavia, a destare preoccupazione nel gruppo dirigente bolscevico, più che la rivolta dei marinai di Kronštadt, come si è a lungo pensato, erano le notizie delle continue insurrezioni contadine in Ucraina, in Asia centrale e in Siberia occidentale. In particolare, tra l’estate del 1920 e quella del 1921 divampò nelle campagne di Tambov, nella Russia sudoccidentale, un’immensa sollevazione contadina. In questo e in altri casi, i contadini ribelli non si limitarono a esprimere un primitivo impulso al rifiuto dello Stato; presentarono invece un consapevole programma politico, che prevedeva la convocazione di libere elezioni e il ripristino della democrazia sovietica (o di forme di autogoverno locale), il rispetto della proprietà contadina e del commercio privato, ma anche il controllo statale sulla grande industria. La rivolta, guidata da Alexandr Stěpanovič Antonov, fu schiacciata fra il giugno e l’agosto del 1921 con estrema violenza, senza escludere il ricorso alla cavalleria, alle armi automatiche e ai gas asfissianti.
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Il X Congresso
Di fronte al rischio del collasso economico e sociale del paese, nel febbraio-marzo 1921 il X Congresso del Partito comunista (in realtà il IV dall’assunzione del nuovo nome), decise di abbandonare il comunismo di guerra in favore di una Nuova politica economica (Nep) [ 13]. Essa si basava su un fondamentale compromesso fra tre dei principali attori della guerra civile: lo Stato, i movimenti contadini e quelli nazionali. Le requisizioni forzate venivano sostituite con una tassa fissa in natura, pagata la quale i contadini potevano commerciare il surplus. Venivano inoltre recepite alcune istanze tipiche dei programmi contadini: la redistribuzione della terra, la libertà di scelta delle colture da impiantarvi e il commercio privato, soprattutto su scala locale. La libertà di commercio nelle campagne rappresentava un compromesso con l’economia di mercato, che riattivava la circolazione della moneta ma imponeva la necessità di tenere sotto controllo l’inflazione. Nuovi provvedimenti emanati nel 1922 consentirono di stabilizzare la moneta, di liberalizzare ulteriormente le forme di conduzione agricola e di garantire una sufficiente quantità di sementi agli agricoltori.

A fronte di queste aperture sul piano economico, il X Congresso segnò anche, sul piano politico, una stretta contro i nemici del regime, individuati nelle categorie molto elastiche di «elementi socialmente pericolosi», «profittatori» e «parassiti». Una clausola segreta del Congresso, oltre a vietare la costituzione di correnti interne al partito, autorizzava la repressione preventiva verso queste categorie.

Si discusse aspramente, all’interno del Partito comunista, se il varo della Nep fosse una ritirata “tattica” oppure “strategica” dal comunismo di guerra. Certo è che nei primi tempi le condizioni nelle campagne migliorarono: si parlò in proposito di un vero e proprio “miracolo” (tanto che il dirigente bolscevico Bucharin indi­rizzò ai contadini l’invito: «arricchitevi!»). Molte delle misure della Nep, tuttavia, furono interpretate dalle autorità locali in senso restrittivo, e ciò ne limitò l’impatto positivo.

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La carestia del 1921-22
Nello stesso momento in cui il governo varava la Nep, l’Ucraina orientale, il Caucaso settentrionale e la regione del Volga furono investiti da una micidiale carestia [ 14]. Essa fu provocata dal cattivo raccolto del 1921, ma le sue premesse erano da ricercare nella precedente politica di requisizioni statali, che avevano impedito di immagazzinare riserve di grano e avevano scoraggiato i contadini a seminare, per timore di ulteriori sequestri del raccolto.

La crisi alimentare piegò tanto le città quanto le aree rurali e coinvolse oltre 20 milioni di persone. Nelle zone colpite le autorità sospesero la tassa fissa in natura, promossero la costituzione di comitati d’aiuto e consentirono ai contadini di cercare cibo nei mercati cittadini; nel contempo, però, approfittarono dell’emergenza per spegnere i focolai di rivolta contadina e realizzare una stretta repressiva nei confronti delle Chiese (in particolare quella ortodossa), vietando i riti religiosi, chiudendo i luoghi di culto ed espropriando i beni ecclesiastici. Un’intensa campagna di soccorso internazionale non riuscì a evitare un numero altissimo di vittime: le cifre più attendibili si aggirano intorno al milione e mezzo di morti. Nei villaggi contadini non solo si verificarono episodi di antropofagia, ma si avanzarono addirittura richieste ufficiali alle autorità di poter consumare carne umana.

La carestia fu l’apice di una catastrofe demografica che dal 1914 al 1922, a causa della guerra mondiale, della guerra civile e delle loro devastanti conseguenze sociali (oltre alla fame bisogna considerare epidemie di vario tipo), provocò perdite umane nell’ordine di 16 milioni di individui: circa 3 milioni di morti tra il 1914 e il 1917 (in maggioranza militari), e circa 13 milioni nel periodo successivo (per lo più civili). La crisi bellica e rivoluzionaria colpì duramente i centri urbani e determinò una netta ruralizzazione del paese, alimentando l’abbandono di minori, l’accattonaggio, l’abuso di alcool e droghe, il brigantaggio, le epidemie, la fame. La mortalità maschile fu di gran lunga superiore a quella femminile, per cui questi anni di violenza estrema produssero una società con una marcata presenza di donne.

3.6 La nascita dell’Urss e la morte di Lenin

L’Unione Sovietica
Il gruppo dirigente bolscevico doveva affrontare il problema di creare uno spazio politico unitario, che riconoscesse i diritti delle diverse componenti nazionali. Le vicende delle guerre civili avevano insegnato ai bolscevichi l’importanza dei movimenti nazionali e la necessità di coinvolgere i gruppi dirigenti locali. Tuttavia, mentre Stalin intendeva integrare le diverse repubbliche socialiste sovietiche di Ucraina, Bielorussia, Georgia, Armenia e Azerbaigian nella Repubblica socialista federativa sovietica russa, Lenin mirava a federarle, su basi formali di parità, in un’Unione delle repubbliche socialiste sovietiche, ossia in un’autentico Stato federale. Fu questa l’occasione per un primo grave scontro tra Lenin e Stalin.

Istituita formalmente nel dicembre 1922, l’Urss (Unione delle repubbliche socialiste sovietiche) fu dunque creata come soluzione istituzionale per contenere i diversi territori all’interno di una cornice federale [ 15]. L’anno successivo si cominciò ad applicare una politica di “indigenizzazione”, che prevedeva la presenza più alta possibile di “nativi” negli organi locali del partito, dello Stato e dell’economia. Particolarmente significativa fu l’“ucrainizzazione” della Repubblica socialista sovietica ucraina, che negli anni Venti riuscì a creare così una propria classe dirigente.

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L’iniziale isolamento internazionale era già stato parzialmente superato con la partecipazione sovietica alla conferenza per la ricostruzione europea, tenutasi a Genova nel maggio 1922. Poi, tra la fine del 1923 e i primi mesi del 1924, l’Unione Sovietica fu ufficialmente riconosciuta dalle maggiori potenze europee. Continuò invece a restare fuori dalla Società delle Nazioni, mettendo apertamente in discussione l’ordine sancito dai trattati di Versailles (non a caso, l’Urss strinse rapporti di collaborazione con la Repubblica di Weimar, che condivideva l’ostilità per l’ordine del dopoguerra).

Il Partito e la società
Nel 1922 il Partito comunista russo cambiò nuovamente la propria denominazione in Partito comunista dell’Unione Sovietica (Pcus). Costituito su basi strettamente gerarchiche e verticistiche, i suoi organi decisionali erano formalmente rappresentati dal Congresso, convocato ogni cinque anni, e dal Comitato centrale, riunito due volte l’anno. La gestione degli affari ordinari era però affidata soprattutto ad altri due organismi, composti dai membri più importanti del Comitato centrale: il Politburo (Ufficio politico) e la Segreteria. Dal 1922 fu eletto un segretario generale del Partito, il primo dei quali fu Stalin. In seguito fu deciso che il segretario del Pcus diventasse anche capo del governo, oltreché del Politburo, stabilendo in questo modo il primato del Partito sullo Stato (anche se non mancarono tensioni ricorrenti tra l’uno e l’altro).

Nonostante la struttura accentrata e autoritaria dell’Unione, forgiata dal ciclo di conflitti del 1917-22, fin dall’ottobre-novembre 1917 il governo estese o introdusse per la prima volta una serie di diritti sociali e civili, che costituivano l’eredità tipica della tradizione socialista e socialdemocratica: la Costituzione del 1918 sancì il principio dell’uguaglianza tra uomini e donne, l’introduzione del divorzio e dell’aborto, la promozione del­l’istruzione di massa e del sistema pensionistico, la tutela del lavoro. Nel quadro delle guerre civili e della costruzione del regime, tuttavia, molte di queste innovazioni restarono sulla carta, tanto che nella successiva Costituzione del 1924 diventarono centrali la forma dello Stato e la sua struttura federale, più che la questione dei diritti.

Nel corso degli anni Venti, comunque, l’alfabetizzazione dei contadini e degli operai fece notevoli passi in avanti, insieme al loro nuovo inquadramento ideologico: una delle principali battaglie culturali del nuovo regime sovietico fu condotta contro le gerarchie ecclesiastiche della Chiesa ortodossa e più in generale contro la religione, intesa in senso marxista come una forma di alienazione. Alle persecuzioni del clero, con la conseguente chiusura delle parrocchie, si accompagnò l’azione della propaganda ateistica, volta a sradicare ogni sentimento religioso dalle campagne, dove era più presente.

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Gli intellettuali russi di fronte alla rivoluzione

La formazione del regime bolscevico suscitò anche l’entusiasmo delle avanguardie artistiche, letterarie, teatrali e cinematografiche, che vedevano in esso la possibilità di realizzare un radicale progetto di emancipazione. Dal canto suo, però, il nuovo governo aspirava a porre ogni espressione artistica e intellettuale al servizio della dittatura del proletariato: di qui scaturì il movimento del Proletkult, teso a fondare una nuova cultura proletaria.

Il fondamento filosofico della cultura sovietica era individuato nel materialismo marxista. Tuttavia, al progetto sovietico di creare un “uomo nuovo” – cioè un individuo armonicamente integrato nella collettività e finalmente libero dalla “schiavitù” del lavoro capitalistico – contribuirono correnti artistiche e tradizioni culturali di tutt’altro segno, che individuarono nella rivoluzione la possibilità di dare una concreta base sociale alle loro utopie di liberazione dalle convenzioni “borghesi”. Per esempio, il pittore Kazimir Malević, fondatore del suprematismo, rielaborò in forme originali il cubismo, superando la scomposizione delle forme in nome del primato della sensibilità plastica [ 16]. Sul versante letterario, Vladimir Majakovskij – che contribuì ad animare il futurismo russo prima e durante la guerra – considerava la poesia come parola in azione, che rompeva ogni rapporto con la tradizione (proprio come aveva fatto la rivoluzione). Nell’ambito di una cultura che intendeva sovvertire la società borghese e che amava definirsi “moderna”, anche il cinema diventò ben presto un potentissimo mezzo di costruzione e divulgazione del mito sovietico. Mentre Sergej Ejzenštejn – poi attivo soprattutto negli anni Trenta e Quaranta – iniziava la sua carriera da regista, particolarmente importanti furono i documentari sperimentali di Dziga Vertov, che cercavano nuovi linguaggi cinematografici per raccontare la realtà quotidiana della società postrivoluzionaria.

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Il “testamento” e la morte di Lenin
L’impegno politico totalizzante minò irrimediabilmente la salute di Lenin, che negli ultimi anni fu sempre più tormentato dalle prospettive future dello Stato sovietico. L’aspro dissenso con Stalin sulla questione nazionale si univa a una crescente diffidenza per l’enorme potere che lo stesso Stalin, diventato nel 1922 segretario generale del Pcus, aveva accumulato nelle sue mani. Nelle note dettate alla moglie Nadežda Krupskaja e alla propria segretaria tra la fine del 1922 e l’inizio del 1923 – in seguito impropriamente divulgate come il suo “testamento” [▶ FONTI] – Lenin esprimeva serie preoccupazioni per l’evoluzione autoritaria e burocratica del partito e muoveva critiche a tutti i dirigenti, rifiutandosi peraltro di indicare un successore alla sua leadership. Per contrastare questa deriva, Lenin proponeva di introdurre riforme che restituissero importanza decisiva al Comitato centrale e che ridimensionassero la figura del segretario generale.

Dopo un attacco apoplettico che nel marzo del 1923 lo paralizzò, Lenin morì il 21 gennaio 1924. La lotta per la successione, già cominciata da tempo, proseguì per alcuni anni, mentre intorno al fondatore del bolscevismo e dello Stato sovietico si creava un culto nuovo e al tempo stesso antichissimo [▶ luoghi].

  luoghi

Il Mausoleo di Lenin

Anche dopo la morte, Lenin continuò a influenzare la politica sovietica, rappresentando per la classe dirigente comunista un motivo di divisione, ma anche un potente strumento di legittimazione del suo potere. Fin da subito, il gruppo raccolto intorno a Stalin propose di allestire una grandiosa cerimonia funebre e di pianificare una forma di conservazione della sua salma, poiché la cremazione costituiva una pratica “non-russa”. Trockij, in accordo con la vedova Nadežda Krupskaja, sostenne invece, in una lettera aperta pubblicata sulla Pravda del 29 gennaio 1924, che il dolore non doveva trasformarsi in «dimostrazioni di adorazione per la personalità di Vladimir Ilič [Lenin]».

Al termine di queste discussioni, riguar­danti il senso stesso della morte per rivoluzionari ufficialmente marxisti e materialisti, il Comitato centrale del Pcus stabilì di esporre al pubblico la salma di Lenin.

La decisione era influenzata da un’antica tradizione della religione ortodossa, che a differenza del cattolicesimo (i cui fedeli erano devoti alle reliquie frammentarie dei santi), celebrava l’intero corpo del santo, destinato a intercedere per i vivi. È questa tradizione che Stalin si propose consapevolmente di sfruttare, ordinando l’imbalsamazione della salma che fu poi collocata all’interno di un mausoleo realizzato (prima in legno e poi in marmo) sulla piazza Rossa. Attorno a essa il regime organizzò poi un culto religioso nel cuore di uno stato dichiaratamente ateo.

Storie. Il passato nel presente - volume 3
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