Storie. Il passato nel presente - volume 3

L’Ottobre rosso
A spingere i bolscevichi all’azione non fu tanto il vuoto di potere che regnava a Pietrogrado, quanto la prospettiva delle imminenti elezioni a suffragio universale (maschile e femminile) per l’Assemblea costituente, che avrebbero conferito legittimità democratica al nuovo governo. I preparativi per la conquista del potere furono quindi accelerati, anche se il gruppo dirigente intorno a Lenin era diviso: in particolare, Lev Kamenev e Gregorij Zinov’ev ritenevano che la rivoluzione socialista fosse prematura. Nella notte tra il 6 e 7 novembre (24 e 25 ottobre nel calendario russo), le Guardie rosse – la milizia volontaria dei bolscevichi – assunsero il controllo degli edifici chiave di Pietrogrado. L’evento, più tardi amplificato e celebrato dalla propaganda sovietica [ 4], si sviluppò in una serie di scontri brevi e poco sanguinosi, che si svolsero soprattutto intorno al Palazzo d’Inverno e che si risolsero con l’arresto dei ministri del governo provvisorio. Si trattò a tutti gli effetti di un colpo di Stato bolscevico, deciso politicamente da Lenin, organizzato sul piano militare da Trockij e ratificato il giorno dopo dal Congresso panrusso dei soviet.

Il primo governo bolscevico e l’Assemblea costituente
Dopo la presa del potere, i bolscevichi costituirono una Repubblica socialista federativa sovietica russa. Quindi, con straordinaria rapidità, il Commissariato del popolo [▶ altri LINGUAGGI, p. 134– ossia il governo rivoluzionario guidato da Lenin e fondato sull’alleanza con i socialrivoluzionari di sinistra (che rappresentavano le istanze dell’imponente insurrezione contadina in corso in quei mesi nelle campagne) – emanò quattro decreti. Con essi, rispondendo ad alcune istanze fondamentali delle masse in rivolta, si impegnava a raggiungere una «pace senza annessioni e senza indennizzi», a garantire la redistribuzione egualitaria della terra e il controllo operaio sulla produzione industriale, e, infine, affermava il principio di autodeterminazione dei popoli.

Presto, però, contro il nuovo potere bolscevico si sollevarono crescenti proteste operaie; sorsero inoltre aspri contrasti con le altre forze socialiste (menscevichi e socialrivoluzionari di destra). Nel dicembre del 1917 fu istituita la polizia politica, la Čeka (sigla russa della sua denominazione ufficiale, “Commissione straordinaria per combattere la controrivoluzione e il sabotaggio”). Inoltre, nel gennaio 1918 Trockij fu incaricato di organizzare un nuovo esercito, l’Armata rossa, a partire dalle già citate Guardie rosse e poi attraverso la coscrizione obbligatoria [ 5]. I quadri di comando erano reclutati tra gli ex ufficiali zaristi, ma il loro operato era soggetto al controllo dei commissari politici, inviati del Partito che sorvegliavano la loro lealtà al nuovo regime.

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A novembre si tennero le elezioni per l’Assemblea costituente, già convocate da mesi e più volte rinviate. Le prime elezioni della storia russa, che coinvolgendo 41 milioni di votanti furono le più imponenti mai realizzate fino ad allora, segnarono un clamoroso successo dei socialrivoluzionari (che ottennero il 60% dei suffragi, soprattutto grazie al voto delle campagne, e 410 deputati su 707) e una grave sconfitta per i bolscevichi (170 deputati). L’Assemblea costituente, convocata il 18 gennaio 1918, si riunì a Pietrogrado e durò il breve spazio di una giornata: la sera stessa fu chiusa d’autorità dai bolscevichi e mai più riaperta. Nel frattempo i soviet erano sempre più svuotati dei loro poteri effettivi e finirono con il costituire un semplice strumento di approvazione delle decisioni del governo bolscevico.

3.3 Guerra civile, guerra internazionale

La grande insurrezione contadina
Fin dalla primavera-estate del 1917 i soldati russi avevano cominciato a rientrare dal fronte, con l’intenzione di occupare le terre dei grandi proprietari. Questo movimento contadino assunse ritmi impetuosi e forme violente nella tarda estate e soprattutto nell’autunno di quell’anno. Le proprietà dei nobili furono assalite e distrutte, mentre bande di criminali, disertori e ribelli imperversavano nelle campagne dandosi al saccheggio indiscriminato. La presa del potere da parte dei bolscevichi avvenne proprio sullo sfondo di questa spontanea guerra sociale dei contadini, acuitasi nelle settimane successive all’Ottobre rosso e incoraggiata dallo stesso Lenin [▶ protagonisti, p. 118].

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Può apparire un paradosso che a conquistare il consenso di un movimento in larga misura autonomista e locale fosse proprio il partito bolscevico, il gruppo più radicalmente statalista e centralista del socialismo russo: questo fu possibile poiché Lenin e i bolscevichi furono individuati come i più credibili garanti della realizzazione delle aspirazioni contadine. Tra la fine del 1917 e l’inizio del 1918, in effetti, fu attuata una straordinaria redistribuzione della terra che, insieme all’alleanza con i socialrivoluzionari di sinistra, particolarmente forti nelle campagne, consentì ai bolscevichi di mantenersi al potere.

  protagonisti

I contadini fra rivolte e rivoluzione

Le rivolte sei-settecentesche

Fin dal Seicento, in seguito alla rivolta del capo cosacco Stenka Razin (1670), una lunga tradizione russa tendeva a vedere nella sollevazione popolare delle campagne una forza distruttiva, apocalittica e primitiva, capace di cancellare la civiltà urbana. La più famosa e terribile di queste rivolte era stata guidata da un altro capo cosacco, Pugačev, il quale, tra il 1773 e il 1775, aveva condotto i contadini in una sanguinosa guerra contro l’aristocrazia terriera e aveva fatto tremare il trono della zarina Caterina II, proclamandosi imperatore, prima di venire sconfitto dall’esercito zarista ed essere decapitato in piazza.

Lo spettro di una rivolta da parte di Pugačev (la pugačevščina, in russo) riprese ad aggirarsi nei territori dell’Impero russo in tutti i momenti di crisi, quando ai primi segnali di cedimento delle istituzioni i contadini si sollevavano per rivendicare i propri diritti sulla terra. La rudimentale cultura politica dei contadini, però, era incapace di immaginare reali alternative al potere esistente, li­mi­tandosi per lo più a concepirne, nei momenti di massima esasperazione, il completo rovesciamento.

Una nuova consapevolezza politica nelle campagne

Durante le guerre civili del 1918-22, per la prima volta, fenomeni di rivolta spontanea e distruttiva si intrecciarono invece con movimenti contadini più organizzati e articolati, dotati di strutture e programmi.

Per impadronirsi delle tenute nobiliari essi non esitarono a ricorrere agli strumenti tradizionali delle sollevazioni rurali: violenza, distruzioni e incendi (di cui il “gallo rosso” era l’emblema).

Tuttavia, ben più che in passato le campagne mostrarono una nascente consapevolezza politica. Ne fu esempio la vastissima partecipazione delle masse contadine alle elezioni per la Costituente, fino a quel momento la più grande esperienza democratica della storia.

L’assalto bolscevico alle campagne
Dopo i primi mesi di governo, tuttavia, i bolscevichi attuarono un brusco cambio di rotta sulla questione contadina. La necessità di garantire alla popolazione urbana i beni primari provenienti dalle campagne venne infatti affrontata con metodi brutali. Le requisizioni del grano, effettuate villaggio per villaggio, furono affidate a reparti d’assalto, composti da uomini pronti a ogni violenza. Le resistenze dei contadini, che rifiutavano di consegnare i prodotti, furono attribuite da Lenin e dal gruppo dirigente bolscevico alla volontà di sabotaggio degli agricoltori più ricchi, i cosiddetti  kulaki; ma in realtà si trattava di vere e proprie sommosse agrarie, che coinvolgevano l’intera popolazione dei villaggi. 

Alla fine della primavera del 1918, il Partito bolscevico aderì in blocco alla parola d’ordine leniniana della lotta di classe contro i kulaki. Fu così messa in atto una vera e propria guerra civile contro i contadini, condotta attraverso i “comitati dei contadini poveri”, composti soprattutto dagli individui più violenti dei villaggi. L’estate del 1918 segnò l’apice delle difficoltà bolsceviche nelle campagne, attraversate da ondate di rivolta di contadini e anarchici (identificati rispettivamente come “verdi” e “neri”, in base al colore scelto come emblema dei loro movimenti).

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La pace di Brest-Litovsk e le sue conseguenze

Come si è accennato, appena assunto il potere, i bolscevichi emanarono un decreto che invocava una «pace immediata senza annessioni né indennizzi». Pubblicarono e denunciarono inoltre i contenuti dei trattati segreti in nome di una «diplomazia aperta», e annullarono i debiti esteri contratti dall’ autocrazia zarista, provocando negli altri governi un grave malcontento che contribuì all’isolamento internazionale della Russia sovietica.

Nel dicembre del 1917 vennero avviate le trattative con l’Impero tedesco per l’uscita dal conflitto. I tedeschi miravano a creare in Europa orientale, dal Baltico al Mar Nero, un ordine basato su nuove formazioni statali indipendenti, ma poste sotto la loro protezione. Per i bolscevichi, e soprattutto per Trockij, che guidava i negoziati, l’obiettivo era invece prendere tempo in attesa che il contagio rivoluzionario toccasse anche la Germania, dove una rivoluzione era considerata imminente. Parte del gruppo dirigente, e in particolare Nikolaj Bucharin, sosteneva a oltranza la linea della rivoluzione europea; Lenin – alle cui posizioni si allineò anche Trockij – accettò invece la prospettiva più realistica di salvare il potere bolscevico in Russia, cedendo alle richieste tedesche. Se in un primo tempo, infatti, il capo bolscevico rifiutò le durissime condizioni imposte dai tedeschi, di fronte alla ripresa dell’offensiva prussiana fu costretto ad accettarle. L’accordo di pace venne firmato il 3 marzo 1918 a Brest-Litovsk (l’odierna Brést, in Bielorussia) [ 6].

In base al trattato, nei territori occidentali dell’ex Impero russo si costituirono i nuovi Stati indipendenti di Polonia, Finlandia, Estonia, Lettonia, Lituania, Ucraina, Bielorussia e la Federazione transcaucasica. La sconfitta dell’Impero tedesco, nel novembre 1918, avrebbe riaperto la questione, tanto più che i bolscevichi miravano a riconquistare i territori che erano appartenuti agli zar; intanto, però, il Trattato di Brest-Litovsk portò allo scontro aperto con i socialrivoluzionari di sinistra, fautori di un internazionalismo intransigente. Essi dapprima ritirarono la loro delegazione presso il Commissariato del popolo; poi, tra luglio e agosto 1918, scatenarono un’ondata di attentati che colpì non pochi esponenti del Partito bolscevico (tra i quali lo stesso Lenin). Iniziò così, da parte dei bolscevichi, una sistematica repressione di ogni possibile opposizione.

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L’intervento internazionale

Nei primi mesi del 1918, a causa dell’avanzata delle truppe tedesche e dello scoppio di una guerra civile in Finlandia, per ragioni di sicurezza la capitale fu trasferita da Pietrogrado a Mosca.

I maggiori problemi per il governo bolscevico vennero dall’intervento delle grandi potenze nel territorio dell’ex Impero russo. Gli Stati dell’Intesa decisero infatti di passare all’azione contro il regime bolscevico, allo scopo di circoscrivere, se non estirpare, la possibilità di un contagio rivoluzionario in Europa occidentale. L’intervento internazionale alimentò l’idea di una congiura mondiale contro il regime sovietico. In realtà, all’inizio (marzo-aprile 1918) le truppe anglo-francesi e americane penetrarono nelle regioni settentrionali della Russia su richiesta dello stesso soviet di Murmansk, per combattere le truppe tedesche. Poi, in estate, nuove forze dell’Intesa sbarcarono ad Archangel’sk e a Vladivostok [ 7], consolidando la propria presenza, ma perdendo l’iniziale appoggio che avevano avuto dalla popolazione locale in chiave antibolscevica. Nell’autunno del 1918 i francesi approdarono a Odessa, mentre gli inglesi occuparono Baku e le zone petrolifere del Caucaso. Un anno più tardi, le forze internazionali si ritirarono dal Caucaso e dalla Siberia, nella convinzione che il regime bolscevico fosse prossimo alla caduta; in realtà, l’Armata rossa stava dimostrando una capacità di resistenza superiore alle attese.

La guerra dei “bianchi”
Un’altra e più grave minaccia per il governo rivoluzionario si profilò da parte di un esercito volontario [ 8] composto da soldati e ufficiali ex zaristi, i cosiddetti “bianchi”, che miravano a combattere il bolscevismo in nome di una visione patriottica e tradizionale della Russia, «una e unita». Mentre le truppe “bianche” del generale Judenič procedevano dalla Finlandia e dall’area baltica verso Pietrogrado, un contingente al comando del generale Denikin avanzava verso nord dalla Crimea, combattendo le forze rivoluzionarie e incitando la popolazione a compierepogrom brutali. Fu in questo contesto che Nicola II e i membri della famiglia imperiale furono giustiziati, nel luglio 1918, su decisione del soviet di Ekaterinburg (dove erano tenuti prigionieri), per timore che potessero essere liberati dai controrivoluzionari e accampare diritti per la restaurazione della monarchia.

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Non mancarono, in questa fase, tentativi di coordinare le eterogenee forze antibolsceviche in un fronte comune, che coinvolgesse anche il Partito socialrivoluzionario e rilanciasse la prospettiva della Costituente. Tuttavia, le forze tradizionaliste e militariste egemonizzarono presto il fronte antibolscevico, anche grazie all’iniziativa dell’ammiraglio Kolčak, che nel novembre del 1918 fu autore di un colpo di Stato a Omsk, in Siberia, dove aveva organizzato le truppe controrivoluzionarie. I tentativi di collaborazione tra le componenti reazionarie e le forze socialiste non bolsceviche si interruppero e, mentre le forze controrivoluzionarie si alienavano le simpatie delle popolazioni rurali, importanti figure dei partiti menscevico e socialrivoluzionario si schierarono con i bolscevichi per combattere la reazione militare.

La lotta per l’indipendenza dell’Ucraina e la sconfitta dei “bianchi”
Le conseguenze della Rivoluzione d’ottobre furono particolarmente dirompenti in Ucraina, dove ai conflitti politici e sociali si sommarono i problematici rapporti tra la popolazione di lingua russa, prevalentemente urbana, e quella di lingua ucraina, in larga maggioranza contadina. Già quando le Guardie rosse bolsceviche avevano tentato di costituirvi una repubblica sovietica, la Rada aveva proclamato la formazione della Repubblica popolare ucraina indipendente dalla Russia bolscevica (gennaio 1918), segnando una rottura storica con Pietrogrado e Mosca. Come si è visto, inoltre, a seguito del Trattato di Brest-Litovsk l’Ucraina acquisì lo statuto di Stato indipendente, sotto la protezione dell’esercito tedesco. La protezione, però, si trasformò ben presto in brutale ingerenza e il legame dei nazionalisti ucraini con gli occupanti tedeschi finì per screditare il loro tentativo di costruire uno Stato autonomo. Nelle campagne, intanto, prese forza un movimento che univa alle istanze nazionali un’ispirazione di tipo socialista, chiedendo la liberazione dell’Ucraina insieme all’emancipazione dei contadini. All’interno di tale movimento, che percepiva la Russia come una forza oppressiva di tipo coloniale nei confronti dell’Ucraina, maturò un primo nucleo di anticolonialismo.

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La guerra civile [ 9] non cessò nemmeno dopo la fine della guerra mondiale e il ritiro delle truppe tedesche. Nei primi mesi del 1919, infatti, una nuova rivolta rurale portò al potere dapprima un Direttorio socialista ucraino, poi un governo di matrice bolscevica, che sembrava più disposto a concedere le terre ai contadini. 

bolscevichi ucraini (di lingua russa), forti soprattutto nelle città, attuarono però una politica di requisizioni violente del grano e di russificazione forzata delle campagne, suscitando l’ennesima rivolta, mentre su tutto il territorio ucraino imperversavano bande insorte e si commettevano ritorsioni e violenze soprattutto contro le comunità ebraiche.

Nell’estate del 1919 si formò così un forte movimento nazionalista che, intrecciandosi con le istanze contadine, respinse i bolscevichi da Kiev (la capitale dell’Ucraina), ma a sua volta fu sconfitto dall’esercito bianco di Denikin, che stava nel contempo avanzando da sud. Nell’autunno del 1919 i bolscevichi ebbero di nuovo la meglio, sconfiggendo le truppe di Denikin a Orël, riprendendo Kiev e ponendo fine all’indipendenza ucraina dalla Russia.

L’Armata rossa concentrò quindi i suoi sforzi contro i cosacchi, antiche comunità militari che popolavano il Caucaso, il Kuban e il basso Volga e che, dopo una breve fase di simpatia per la rivoluzione di febbraio, avevano assunto un deciso orientamento antibolscevico. La violentissima politica di “decosacchizzazione” promossa dai bolscevichi si concretizzò in deportazioni e fucilazioni di massa. Un anno più tardi, nel novembre del 1920, l’Armata rossa costrinse anche le forze del generale zarista Vrangel’ a evacuare la Crimea, eliminando così completamente la minaccia “bianca”. Infine, l’esercito sovietico sconfisse la guerriglia autonomista diretta dal capo anarchico Machno (con cui i bolscevichi avevano per un breve periodo collaborato), che in alcune zone dell’Ucraina aveva dato vita a originali forme di autogoverno contadino.

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La guerra russo-polacca
La sconfitta delle armate bianche e la ripresa del controllo dell’Ucraina non significarono la fine delle minacce alla sopravvivenza del regime bolscevico. A nord-ovest, infatti, i confini con il nuovo Stato polacco, da poco costituiti, [▶ cap. 2.7] erano tutt’altro che definiti. Uno stato di conflittualità per­manente, intervallato da tregue e riprese delle ostilità, caratterizzò i rapporti sovietico-polacchi fino alla primavera del 1920, quando il generale polacco Piłsudski, in alleanza con il nazionalismo ucraino [ 10], decise di condurre una potente offensiva verso Kiev, ormai nelle mani dei bolscevichi.

Dopo una prima fase di rovesci, l’Armata rossa fu però capace di ribaltare le sorti del conflitto e di lanciare una vasta controffensiva, che ebbe come protagonista la celebre Prima armata a cavallo. Il generale Tuchačevskij suggerì a questo punto di puntare su Varsavia, ma Stalin (pseudonimo di Iosif Vissa­rio­no­vič Džugašvili, 1879-1953), all’epoca commissario del popolo (cioè ministro) alle Nazionalità, disattese i suoi consigli, disperdendo l’attacco lungo tre direttrici (Riga, Varsavia e Leopoli). Nell’agosto del 1920 le forze ormai logore dell’Armata rossa giunsero alle porte di Varsavia, alimentando in tutta Europa la speranza – o il terrore – di un’espansione militare della rivoluzione oltre i confini russi. Tuttavia, l’attesa sollevazione dei quartieri operai della capitale polacca non avvenne e la risposta militare del generale Piłsudski, che poté contare sull’appoggio popolare, sventò la caduta di Varsavia.

Il Trattato di Riga, firmato nel marzo 1921, definì il nuovo confine della Polonia che, pur essendo composta da territori appartenuti agli ex imperi tedesco, austro-ungarico e russo, abitati da importanti minoranze ucraine, bielorusse ed ebraiche, si presentava come uno Stato nazionale e realizzava ora il suo sogno di indipendenza. Il trattato sancì anche la fine di ogni speranza di costituire uno Stato ucraino indipendente, soluzione apertamente osteggiata da Mosca.

Storie. Il passato nel presente - volume 3
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