3.3 La stagione delle riforme fra Italia e penisola iberica
La Chiesa di fronte ai Lumi
La conclusione delle guerre di successione, che avevano turbato il quadro politico europeo nella prima metà del XVIII secolo, ebbe conseguenze significative sugli equilibri di potere nella penisola italiana. L’egemonia spagnola, già in crisi da diversi decenni, aveva subito un notevole arretramento a vantaggio di una crescente influenza austriaca. Come abbiamo visto, alcune dinastie tradizionalmente vicine al papato come quella medicea a Firenze e quella dei Farnese a Parma furono spodestate, rispettivamente a favore degli Asburgo-Lorena e di un ramo dei Borbone. I nuovi principi e ministri stranieri mostrarono la loro vicinanza alla cultura giurisdizionalista e all’emergente movimento dei Lumi, privando di fatto la Santa Sede di alcune alleanze importanti che le avevano consentito, fino a quel momento, di mantenere una posizione di rilievo sullo scacchiere politico europeo, utile a difendere anche le prerogative ecclesiastiche nei diversi territori del continente dove era praticato il cattolicesimo.Diversi argomenti sollevavano scontri di difficile risoluzione fra Stato e Chiesa: la repressione dei misfatti del clero doveva essere affidata a tribunali ecclesiastici, il diritto d’asilo impediva alle autorità secolari di catturare i criminali rifugiati in edifici sacri, i tribunali del Sant’Uffizio continuavano a operare pur essendo ormai invisi a larga parte dei sudditi e ai poteri secolari, così come il controllo degli istituti assistenziali e della stampa. Le questioni più spinose tuttavia riguardavano i beni ecclesiastici, che coprivano talvolta un terzo dei suoli agricoli, erano spesso esenti da tassazioni ed erano sottratti alle ordinarie norme di compravendita. I titolari – nella maggior parte dei casi ordini regolari e vescovi – divennero bersaglio di feroci critiche da parte degli illuministi, che sottolineavano come gli enormi introiti generati da questi possedimenti non fossero accompagnati da investimenti per il miglioramento dei processi produttivi.
Lo Stato pontificio da Benedetto XIV a Pio VI
Un momento di svolta si ebbe nel 1740 con l’ascesa al soglio pontificio del cardinale bolognese Prospero Lambertini, che prese il nome di Benedetto XIV (1740-58) e intensificò una politica di conciliazione verso le nuove tendenze culturali, ispirata anche dal pensiero di Ludovico Antonio Muratori. Inaugurò una stagione di concordati con la Spagna e gli Stati italiani per affrontare molte delle questioni irrisolte alle quali abbiamo appena fatto riferimento, aprendo anche allo studio delle scienze naturali e alle nuove dottrine economiche, valutando la possibilità di diminuire le feste in calendario (ancora numerosissime) per favorire il lavoro nei campi e aumentare i profitti. Alla sua morte, tuttavia, molti di questi sforzi furono vanificati: Clemente XIII (1758-69) non fu in grado di mantenere buoni rapporti con le corti secolari e subì fortemente la propaganda anticattolica degli illuministi. Pagò anche le spaccature interne alla Chiesa, come quella che si consumò nel 1763 con la pubblicazione delle tesi del vescovo di Treviri Nikolaus von Hontheim, detto Giustino Febronio, che rivalutavano il giansenismo e mettevano in discussione il potere del papa, dando forza all’anticurialismo dilagante [▶ cap. 1.1].La parabola della Chiesa di Roma nel Settecento si concluse con il lungo pontificato di Pio VI (1774-99, al secolo Giannangelo Braschi), che produsse sforzi enormi per arginare le politiche religiose dei monarchi riformatori. Nel 1782 organizzò un viaggio verso Vienna che assunse tutti i tratti del pellegrinaggio, per convincere l’imperatore Giuseppe II a mettere da parte i suoi provvedimenti antiecclesiastici [ 9]. Non conseguì rilevanti risultati politici, ma riuscì comunque a mettere in atto, anche durante il ritorno, una poderosa operazione propagandistica fra le popolazioni che accorsero a salutarlo al suo passaggio e si unirono a lui in preghiera, colpite dall’immagine del successore di Pietro che cercava di difendere la sua Chiesa, oppressa dai Lumi, che gli esponenti del pensiero intransigente cattolico definivano senza mezzi termini “perfidi”.
Le repubbliche e i ducati settentrionali
Le iniziative riformatrici degli Stati italiani nei decenni centrali del Settecento furono orientate, da un lato, dall’esigenza di ridimensionare il potere e le proprietà del clero regolando i rapporti con Roma; dall’altro lato, dalla necessità di preservare un’autonomia nel quadro geopolitico europeo, di fronte a grandi potenze monarchiche e imperiali che erano capaci di esercitare la loro influenza – diretta e indiretta – sulla penisola. È significativo in questo senso il giudizio dell’erudito veronese Scipione Maffei che, nel 1737, denunciò la marginalità della diplomazia italiana nelle questioni internazionali e nella conclusione di paci e trattati (Suggerimento per la perpetua preservazione ed esaltazione della Repubblica Veneta atteso il presente stato dell’Italia e dell’Europa). Più che sulla potenza militare, l’attenzione doveva essere focalizzata, secondo lui, sul rapporto fra governanti e sudditi: l’unica via per difendersi dalle ingerenze straniere era mantenere la pace all’interno degli Stati con il buon governo e le buone leggi. Sulla stessa linea si pose la riflessione del commerciante ed economista di origine napoletana Carlantonio Broggia, il quale sosteneva che le autorità non dovevano temere le armi, bensì lo scontento dei poveri, specie quando era causato da tasse ingiuste (Trattato de’ tributi, delle monete, e del governo politico della sanità, 1743).In territori come la Repubblica di Venezia, la Repubblica Genova e il Ducato di Modena la battaglia anticuriale si ispirò alla tradizione giurisdizionalista e fu, quindi, orientata ad allargare il controllo secolare sulle istituzioni religiose: gli esiti furono tuttavia altalenanti, viste le forti resistenze dei ceti privilegiati che erano soliti affermare i loro privilegi proprio riservando ad alcuni dei loro rampolli posizioni di rilievo nella gerarchia ecclesiastica. Più incisiva fu l’azione riformatrice nel Ducato di Parma, Piacenza e Guastalla che, dopo la fine della Guerra di successione austriaca (1748), passò a Filippo di Borbone (1748-65, fratello di Carlo re di Napoli). Il sovrano si avvalse dell’aiuto del ministro francese Guillaume du Tillot per promuovere le arti e l’Illuminismo, per combattere l’influenza dei gesuiti e per attrarre sostegni da parte di altre corti europee.
Il Piemonte-Sardegna sabaudo
Dopo aver ottenuto l’annessione della Sardegna nel 1720, il Piemonte sabaudo di Vittorio Amedeo II di Savoia (1682-1730) intensificò l’opera di riorganizzazione dello Stato che era stata già inaugurata negli anni precedenti, cercando di censire le proprietà fondiarie, di ridurre i privilegi nobiliari ed ecclesiastici e di stabilire un più equo sistema fiscale. Le politiche del casato erano orientate verso un rafforzamento del potere centrale che proseguì sotto Carlo Emanuele III (1730-73) e Vittorio Amedeo III (1773-96), i quali fra il 1771 e il 1778 perfezionarono l’abolizione del sistema feudale. Le resistenze furono enormi, non mancarono accuse di dispotismo e ci furono quindi drastiche frenate [ 10].
La Lombardia austriaca
Dopo la Pace di Aquisgrana (1748), lo Stato di Milano e il Ducato di Mantova rimasero sotto la monarchia austriaca, che inserì nella sua sfera di influenza anche i ducati di Modena e Reggio grazie ad abili alleanze matrimoniali. Il territorio fu interessato da importanti innovazioni: si pose fine alla vendita delle cariche pubbliche riservandole ai meritevoli, mentre il sistema fiscale fu razionalizzato con un accorpamento degli appalti di riscossione (“ferma generale”) che metteva fine a un prelievo frammentato e particolaristico. Grazie al completamento del catasto compilato da una “Giunta regia”, entrò in vigore nel 1760 un nuovo sistema censuario che consentì di ripartire più equamente l’▶ imposta fondiaria. Questi strumenti permisero alle autorità di avere un quadro preciso della distribuzione delle proprietà e di mettere in piedi anche un corpo di funzionari amministrativi (fra i quali i “cancellieri del censo”) che potevano gestirlo.Il Granducato di Toscana degli Asburgo-Lorena
Con il tramonto della dinastia medicea, il Granducato di Toscana passò a Francesco Stefano di Lorena (1737-65), marito di Maria Teresa, che mantenne la sua residenza a Vienna e affidò i compiti di governo a un Consiglio di reggenza composto da funzionari di sua fiducia. I primi interventi di riforma riguardarono l’opinione pubblica, la fiscalità e il ceto ecclesiastico. Nel 1743 fu emanata una legge sulla stampa che trasferì nelle competenze dello Stato il controllo della censura. Al 1751 risalgono le norme contro la manomorta, vale a dire contro le proprietà inalienabili (non vendibili e non cedibili), spesso esenti da tasse e, di fatto, sottratte al mercato, come molte di quelle feudali ed ecclesiastiche. Fra il 1763 e 1764 una violenta carestia travolse la penisola italiana e portò con sé gravi conseguenze, soprattutto con la diffusione di epidemie, in particolar modo fra Napoli, Roma e Firenze. In Toscana l’emergenza fu gestita da uomini di fiducia della dinastia come i giuristi Pompeo Neri (1706-76) e Giulio Rucellai (1702-78), che furono in grado di sfruttare la situazione per rinnovare i processi produttivi e il commercio. Abbatterono inoltre molti sistemi di controllo che rallentavano l’agricoltura e impedivano la libera circolazione del grano sui mercati.Negli anni Ottanta il progetto di riforma si ampliò, grazie a Scipione de’ Ricci, vescovo di Prato e Pistoia. Egli ottenne la fiducia di Pietro Leopoldo per affermare principi quali l’autonomia dei vescovi, la superiorità del concilio sul pontefice, la sostituzione della lingua latina con il volgare, la semplificazione della liturgia e delle pratiche di culto. Si intendeva per esempio limitare pratiche molto amate dai devoti come il contatto fisico con le reliquie e altri oggetti ritenuti miracolosi, o la copertura delle immagini sacre finalizzata a mettere in scena uno scenografico “scuoprimento” nelle ricorrenze festive [ 11]. Si trattava di istanze radicali che avrebbero potuto causare un vero e proprio scisma con Roma, ma furono giudicate inattuabili dallo stesso clero toscano, che in un’assemblea tenutasi a Firenze nel 1787 formalizzò il suo rifiuto, cercando in tal modo di fermare violente reazioni popolari che stavano diventando sempre più frequenti, a difesa di tradizioni giudicate intoccabili.
FONTI
Il governo lorenese e la lotta contro le processioni dei flagellanti
Nel Granducato di Toscana il controllo del rapporto fra Chiesa e Stato e quindi della vita religiosa fu affidato alla Segreteria del Regio diritto. Nell’archivio di questo organo di governo si trovano molte tracce dei conflitti generati dalle processioni notturne e da quelle dei flagellanti, spettacolari e talvolta cruente nel loro apparato scenografico. Nel 1764 il vescovo di Arezzo Jacopo Gaetano Inghirami si mostrava preoccupato, perché la popolazione era molto affezionata a tali riti e non sembrava disposta ad accettare pacificamente un’abolizione.
Io per me l’ho sempre come tale considerato [un disordine], e quando ho potuto, ho provato sotto varj plausibili prepositi di ovviare a simili spettacoli; ma l’anno scorso appunto, che volli proibire una tal funzione [...], unitisi alcuni dei pretesi più zelanti [accaniti] e appassionati col sig. Podestà, vollero che, secondo il consueto, si effettuasse. Niente più opportuno della Suprema volontà di abolire affatto scene così ridicole, e talora scandalose, né sarìa se non bene, che questa si rendesse nota per ogni dove.
[Nel febbraio del 1766 alcuni abitanti di Colle val d’Elsa denunciano il perpetuarsi di “abusi altrove sradicati”.]
Nei giorni di mercoledì, giovedì e venerdì santo alcuni Incappucciati alla Testa delle compagnie laicali portano una Croce e strascichino1 di giorno, e di notte, per le strade e per le Chiese, lunghe catene, confondendo con tale rumoroso strascico le Sacre Funzioni, e che alcuni altri pure Incappucciati si disciplinano a sangue mostrando le spalle nude e facendosi un segno alla veste per esser riconosciuti da chi vogliono; senza che le pastorali insinuazioni di quel vescovo siano state valevoli a rimediare a questi inconvenienti.
P. Palmieri, La santa i miracoli e la Rivoluzione. Una storia di politica e devozione, il Mulino, Bologna 2012
Il Regno di Napoli e la Sicilia dei Borbone
Con l’arrivo di Carlo di Borbone nel 1734, il Regno di Napoli conquistò l’autonomia dinastica (non c’era più un viceré, ma un vero e proprio re) e vide l’inizio di una stagione di importanti trasformazioni. Furono limitati i poteri dei ▶ baroni, fu avviata la compilazione di un catasto per razionalizzare il sistema fiscale, furono ammodernate le “segreterie” regie che dovevano gestire i diversi affari (esteri, giustizia), fu istituito un Supremo Magistrato del commercio, ma soprattutto furono portate avanti energiche iniziative sul fronte ecclesiastico.L’abbondanza di progetti riformatori si trovò tuttavia a scontrarsi con le periferie di un regno dominato ancora da abusi feudali, dove i contadini vivevano e lavoravano in condizioni primitive, spesso sottoposti a un regime di indiscriminato sfruttamento. La vivacità dei pensatori non sempre si tradusse in concreta azione politica e anche le lezioni di personaggi di indubbio prestigio come Antonio Genovesi e i suoi allievi [▶ cap. 1.3] risultarono spesso di difficile attuazione.
La nuova regina Maria Carolina d’Asburgo (1752-1814), figlia di Maria Teresa e Francesco Stefano, si impegnò per sottrarre il paese all’influenza spagnola e a trasferirlo sotto quella austriaca. Facilitata dalla scarsa intraprendenza del marito Ferdinando IV, licenziò Tanucci nel 1776 e cercò di dare inizio a una nuova stagione di riforme. Diverse misure furono prese per agevolare i coltivatori e la manifattura: furono concessi crediti per propiziare investimenti e furono fondate fabbriche legate direttamente alla corona [ 12]. Un violentissimo terremoto colpì la Calabria nel 1783 e i molti riformatori colsero l’occasione per promuovere la confisca di beni agli enti ecclesiastici e per istituire una “Cassa sacra” per la ricostruzione. Ciò nonostante, il governo non individuò sul lungo periodo valide alternative al potere nobiliare. La feudalità rimaneva difficile da scalfire e i progetti di pensatori come Gaetano Filangieri o Giuseppe Maria Galanti (che lavorò anche a preziose “descrizioni” del territorio del Regno) rimasero sulla carta. Molte iniziative rivelarono sul lungo periodo i loro limiti più gravi: non rientravano infatti all’interno di progetti organici per la crescita del paese, non prevedevano la costruzione di infrastrutture utili a uno sviluppo organico (continuarono a mancare, per esempio, adeguate vie di comunicazione fra l’area pugliese e la capitale), ma erano piuttosto finalizzate a far colpo su diplomatici e viaggiatori stranieri, nella convinzione che i loro racconti avrebbero ingigantito il prestigio alla dinastia all’estero.
La Sicilia godeva di ampie autonomie e risultava, per questa ragione, ancora meno controllabile delle periferie del Mezzogiorno continentale. Il potere regio era spesso in balia delle prerogative baronali, mentre la giustizia era sottoposta all’arbitrio del magistrati della Gran Corte civile e criminale.
Fra il 1781 e il 1785 il diplomatico Domenico Caracciolo (ex collaboratore di Bernardo Tanucci) ottenne la carica di viceré, tentando di mettere in atto alcune delle suggestioni illuministe acquisite nei suoi soggiorni tra Francia e Inghilterra. Egli abolì l’Inquisizione, entrò in conflitto con il clero e la nobiltà, tentò di avviare la compilazione di un catasto per poter redistribuire i pesi fiscali. La sua attività fu proseguita dal 1785 al 1795 dall’ambasciatore Francesco d’Aquino, che riuscì ad affrancare anche molti braccianti agricoli dalle angherie dei signori. Ma gli interessi particolaristici mostrarono, sul lungo periodo, una fortissima capacità di resistenza.
eventi
Il tramonto delle inquisizioni
Il funzionamento dell’Inquisizione nel Regno di Napoli era molto complesso. La popolazione della capitale si era mostrata più volte riluttante ad accettare l’introduzione del temuto tribunale, sia nella sua versione “spagnola”, sia in quella romana. Fin dalla metà del Cinquecento, si era stabilito che dovevano essere i vescovi a esercitare le funzioni che negli altri Stati cattolici erano ricoperte dagli inquisitori. Questo sistema aveva creato non poche incertezze e conflitti, visto che gli stessi vescovi erano chiamati a occuparsi da un lato dei crimini dei membri del clero (posti sotto la loro ordinaria giurisdizione) e dall’altro lato della repressione dell’eresia, che poteva interessare anche i laici. Nel 1746 il governo borbonico volle porre un punto alla questione, stabilendo regole precise. Per i membri del clero secolare o regolare inquisiti di eresia o di altri delitti la competenza era riservata alla sola autorità ecclesiastica. Gli altri venivano giudicati invece dal foro secolare (che poteva chiamare in causa i tribunali religiosi, ma senza perdere il controllo della procedura).
Nei decenni successivi anche gli altri Stati procedettero progressivamente alla cancellazione dei tribunali inquisitoriali, seguendo anche l’esempio napoletano. Nonostante le sue avanguardistiche spinte innovatrici in campo giudiziario, il Granducato di Toscana emanò un provvedimento di abolizione solo nel 1782.
La Congregazione del Sant’Uffizio continuò invece a esistere, in qualità di organismo della curia romana deputato alla salvaguardia della dottrina cattolica. Nel 1965, a conclusione del Concilio Vaticano II, fu introdotta una nuova denominazione che permane ancora oggi: Congregazione per la Dottrina della Fede.
La Spagna di Carlo III e il Portogallo di Pombal
Durante il regno di Filippo V, la Spagna aveva già inaugurato una trasformazione dello Stato in senso assolutistico, ma l’opera si completò solo sotto Ferdinando VI (1746-59) e soprattutto sotto Carlo III che, dopo aver lasciato Napoli nel 1759, regnò per 29 anni. Molte iniziative sperimentate nel Mezzogiorno d’Italia furono riproposte nella monarchia iberica: la riforma dell’istruzione universitaria, il ridimensionamento delle prerogative ecclesiastiche, i limiti all’attività dei tribunali inquisitoriali, la liberalizzazione del commercio, la creazione di sodalizi (“società economiche”) per promuovere innovazioni nei processi produttivi. I benefici furono notevoli, soprattutto in alcune aree del paese come la Catalogna, che riuscì a distinguersi nell’industria del cotone, e la Castiglia, che arricchì i suoi allevamenti. Poco produttivi furono invece gli sforzi di Carlo per il rinnovamento degli apparati amministrativi delle colonie sudamericane. La corruzione rimase dilagante sia nelle ampie aree messicana e peruviana, sia lungo il Rio de la Plata: le classi dirigenti locali continuarono a custodire i loro privilegi e rifiutarono qualsiasi intervento del potere centrale.In Portogallo la prima metà del XVIII secolo fu segnata da una crisi in campo economico e da una stasi in campo culturale, dovute anche alle conseguenze di lungo periodo del tramonto dell’impero coloniale. Nel 1750 salì al trono Giuseppe I, che aveva rafforzato la sua posizione sposando Maria Vittoria di Borbone, figlia di Filippo V di Spagna ed Elisabetta Farnese.
Il terribile terremoto di Lisbona del 1755 [▶ cap. 1.3] fu un duro colpo e, oltre a causare moltissimi morti e a distruggere un’intera città, provocò traumi personali allo stesso re, che sviluppò una forte claustrofobia. La ricostruzione fu affidata a Sebastião José de Carvalho e Melo, marchese di Pombal, che colse l’occasione per inaugurare una stagione di riforme segnata dalla promozione dell’istruzione, dal rafforzamento dell’esercito e dalla rivitalizzazione del commercio. Un’ulteriore spinta verso il cambiamento fu offerta da un attentato ai danni di Giuseppe che si consumò nel 1759: Pombal ne approfittò per mettere sotto accusa ed epurare i gesuiti, nonché i membri della grande aristocrazia che, con la loro influenza su vari livelli della società, rappresentavano una minaccia per il potere centrale [ 13].
Storie. Il passato nel presente - volume 2
Dal 1715 al 1900