3.4 L’Inghilterra e la Francia: due diversi modelli di Stato

3.4 L’Inghilterra e la Francia: due diversi modelli di Stato

Il giacobitismo e il potere di Robert Walpole

Dopo la nascita del Regno di Gran Bretagna (che riuniva le corone di Scozia e Inghilterra) e l’ascesa al trono di Inghilterra di Giorgio I di Hannover (1714-27), propiziata dall’intervento del parlamento, i sostenitori della deposta dinastia Stuart non si diedero per vinti e andarono a ingrossare la loro fazione prendendo il nome di giacobiti, poiché ritenevano illegittima la deposizione di Giacomo II. Avevano molta influenza in Scozia e nell’Irlanda cattolica, ma cercarono anche l’appoggio della Francia per raggiungere i loro scopi. Gli attacchi al potere costituito cominciarono nel 1715 e culminarono nella battaglia di Preston, dove i ribelli furono sconfitti. Ma le tensioni continuarono fino al 1745, quando il pretendente al trono Carlo Edoardo Stuart organizzò una nuova insurrezione: la battaglia decisiva ebbe luogo nelle Highlands, zona montagnosa nel nord della Scozia, e lo vide soccombere. Seguì una violenta repressione, che spense gradualmente il fenomeno, lasciandolo alle nostalgie di un numero sempre più esiguo di conservatori [ 14].

Nel 1727 salì al trono Giorgio II (1727-60) che aveva un’indole simile a quella del padre, affezionato alle sue origini tedesche e poco interessato alle vicende inglesi. Il governo fu quindi affidato a un gruppo di ministri, che riuscivano con facilità a garantirsi una maggioranza di supporto nella Camera dei Comuni influenzando il voto dei rappresentanti cittadini (che eleggevano i tre quarti dei membri), distribuendo loro favori, pensioni e cariche pubbliche. L’impresa non era difficile, visto che si trattava in fondo di poche centinaia di persone appartenenti alla nobiltà e ai ceti benestanti. Gli squilibri creati da questo sistema corrotto furono controbilanciati da un dibattito pubblico molto vivace, che si fondava sulla circolazione di scritti e giornali, capaci di esercitare un notevole controllo sulla vita politica e di stimolare il miglioramento della macchina amministrativa.

Fra il 1721 e il 1742 fu il nobile Robert Walpole (1676-1745) a ricoprire il ruolo di primo ministro. Egli diede prova di abilità in politica estera, visto che riuscì a non incrinare i rapporti con la Francia (una rarità nella storia inglese di età moderna) e a far valere l’influenza del paese nella ridefinizione delle egemonie territoriali europee. Altrettanto fruttuose furono le sue manovre nella gestione delle finanze, orientate verso la diminuzione del debito pubblico, il sostegno al commercio e alle attività produttive. L’economia rimaneva legata alla grande proprietà terriera della gentry, ma era sempre più alto il livello di integrazione di mercanti, finanzieri e banchieri, che diventavano protagonisti della trasformazione dei sistemi di produzione [▶ cap. 2.3] e riuscivano a conquistare spazi sempre più consistenti di rappresentanza politica. Oltre a far valere il loro peso nei due rami del parlamento, esercitavano un enorme potere a livello locale, arrogandosi anche il diritto di controllare la giustizia.

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I mercanti e i banchieri inseguivano lo stesso stile di vita, cercando di distinguersi dalle altre componenti sociali della vita urbana: commercianti, bottegai, artigiani, ma anche da tanti salariati costretti a vivere in condizioni precarie, vagabondi e indigenti. Soprattutto a Londra (una delle città più popolose d’Europa insieme a Parigi e Napoli) le masse popolari si dimostravano sempre più riottose. Se infatti da un lato le condizioni di vita miglioravano (soprattutto grazie a un’alimentazione diversificata per bottegai, artigiani e salariati), dall’altro il crescente consumo di alcolici come il gin [▶ oggetti] favoriva diversi episodi di disordine pubblico.

Tuttavia il paese si mostrava nel complesso molto dinamico: a suscitare interesse nel resto d’Europa erano soprattutto le nuove forme di  mobilità sociale, la vivacità culturale, la libertà di stampa, la partecipazione alla vita politica. Pensatori come Voltaire e Montesquieu descrissero con toni entusiastici il modello inglese, giudicandolo distante da altri che invece rischiavano di scivolare in forme di dispotismo e di soffocare qualsiasi trasformazione della società.

  oggetti

Il gin

Il gin è una bevanda incolore ottenuta dalla distillazione di un fermentato di frumento e orzo, con varie erbe fra cui il ginepro, dal quale deriva il nome. Fu elaborato nei Paesi Bassi nel Seicento con lo scopo di portare sollievo agli olandesi che si ammalavano durante i viaggi e le missioni militari in Oriente. La diffusione in Inghilterra fu veloce, fino al punto di indurre Guglielmo III d’Orange a vietare l’importazione di distillati stranieri per proteggere la produzione interna. Tuttavia il governo inglese fu costretto a cambiare rotta di fronte all’alcolismo dilagante e fra il 1729 e il 1751 emanò cinque leggi – denominate Gin Acts – per cercare di arginare il fenomeno, imponendo fra le altre cose una tassa molto alta per la distillazione. I risultati furono scarsi, visto che la nuova bevanda era ormai entrata a far parte delle abitudini quotidiane del popolo.

La Francia da Filippo d’Orléans a Fleury

Pur avendo impegnato cospicue forze nella guerre europee del primo Settecento, la Francia ne trasse benefici relativi. Gli ultimi anni del lungo regno di Luigi XIV furono segnati da evidenti difficoltà economiche. Il legittimo erede al trono Luigi XV (1715-74) era entrato in carica solo al raggiungimento della maggiore età, ponendo fine nel 1723 alla reggenza di Filippo d’Orléans: una fase segnata da instabilità e problemi finanziari. Un’inversione di rotta si ebbe nel1726, quando il sovrano affidò una buona fetta dei compiti di governo al suo precettore André-Hercule de Fleury (1652-1743). Questi rilanciò l’economia, stabilizzò la moneta e diede impulso tanto all’agricoltura quanto al commercio. Le tensioni tuttavia non mancarono: nel 1730 la bolla pontificia Unigenitus che condannava il giansenismo divenne legge dello Stato, punendo severamente ogni forma di dissenso e infliggendo al movimento un colpo durissimo.

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Luigi XV riprese le redini del paese solo alla morte di Fleury nel 1743. Il suo potere fu tuttavia minato dalla presenza di due fazioni. La prima era composta dai “devoti” guidati da sua moglie Maria Leszczyn´ska, figlia di Stanislao, che aspirava al trono di Polonia; la seconda faceva capo all’amante del re Jeanne Antoinette Poisson, marchesa di Pompadour (1721-64): personaggio spregiudicato capace di stringere attorno a sé uomini di corte, letterati e filosofi, di interessarsi alle idee illuministe e di sostenere la pubblicazione dell’Enciclopedia [ 15].

La Guerra dei Sette anni

Negli anni Cinquanta del Settecento si acutizzarono le rivalità fra Francia e Inghilterra. I più gravi attriti furono ancora legati a questioni egemoniche interne al continente europeo. L’Inghilterra stipulò nel 1756 un trattato di alleanza con la Prussia, ma la Francia rispose schierandosi con la Russia e con l’Austria, mettendo fine anche alla tradizionale ostilità dinastica fra Borbone e Asburgo. Tutto sembrava volgere a favore della coalizione ostile agli inglesi, rinforzatasi in breve tempo anche con l’adesione della Svezia e della Polonia, ma a capovolgere la situazione fu un’abile mossa del ministro inglese degli Affari esteri William Pitt, il quale decise di spostare le attenzioni del suo paese sulle rotte marittime e sui domini coloniali, sia sul fronte asiatico sia su quello americano.

La Guerra dei Sette anni divenne così un vero e proprio conflitto planetario. In India le due potenze – Francia e Inghilterra – si contendevano il primato a seguito dello sgretolamento dell’Impero Moghul: nel 1757 ci fu uno scontro decisivo a Plassey (circa 150 km da Calcutta), dove gli inglesi ebbero la meglio. I francesi furono colti impreparati e furono costretti a soccombere patendo gravi perdite soprattutto sul piano economico e vedendo compromessa una buona parte dei loro traffici. Subirono perdite notevoli anche nel settore occidentale dell’Africa, ma nel 1761 riuscirono a portare dalla loro parte la Spagna, interessata a difendere i suoi interessi contro il potere ormai strabordante dei mercanti britannici e preoccupata per la minaccia ai suoi possedimenti in Florida (nome che deriva da Pascua Florida, espressione spagnola usata per identificare il periodo pasquale).

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Tuttavia, i destini del conflitto non mutarono. La stessa Florida finì agli inglesi insieme al Canada, alle colonie francesi intorno al fiume Mississippi, alla valle dell’Ohio e a diverse isole caraibiche. Il Trattato di Parigi del 1763 mise fine alle ostilità e decretò l’esclusione della Francia dall’America settentrionale, nonché una sua rinuncia alla presenza in India. In Europa i principali frutti furono raccolti dal più forte alleato degli inglesi, la Prussia di Federico II, che confermò il suo dominio sulla ricca regione della Slesia ai danni dell’Austria.

Le dure condizioni della pace crearono un forte risentimento nei francesi, che non furono affatto inclini a deporre le armi negli anni successivi. Il teatro da loro scelto per la rivalsa fu proprio il Nord America, dove, come vedremo, accorsero in aiuto dei coloni inglesi che stavano assistendo alla veloce degenerazione dei loro rapporti con la madrepatria.

L’Inghilterra di Giorgio III
 Gli esiti della guerra rafforzarono quindi l’Inghilterra che, oltre a essere padrona dei mari, era interessata da una sostanziosa crescita demografica e assisteva alle prime importanti trasformazioni del sistema industriale. Il nuovo sovrano Giorgio III (1760-1820) si mostrò fin dai primi anni determinato a esercitare un forte controllo sulla vita del paese, a differenza dei suoi predecessori.

Il parlamento fece sentire la sua voce, ma a prendere il sopravvento fu una corrente radicale guidata dall’editore e giornalista John Wilkes (1725-97), che contestò apertamente un discorso del sovrano letto in parlamento il 16 aprile del 1763 e usò le colonne del suo settimanale North Briton (un’espressione usata per disprezzare gli scozzesi) per iniziare una vera e propria campagna denigratoria. Sostenne che il governo aveva nascosto all’opinione pubblica alcuni particolari decisivi della pace stipulata con la Francia a Parigi, ma intorno a questa operazione si coagularono istanze profonde di rinnovamento che mettevano in discussione il sistema di distribuzione dei seggi nelle camere, l’affermazione della tolleranza religiosa, la libertà di stampa. Wilkes fu arrestato e messo sotto processo. Pur ottenendo l’assoluzione, non riuscì a stemperare le ostilità delle autorità nei suoi confronti e riparò in Francia fino al 1768. Al suo ritorno in patria divenne un simbolo della libertà di espressione, riuscendo a rappresentare molte idee critiche nei confronti dell’operato del governo [ 16].

Giorgio III affidò nel 1780 il governo a William Pitt il Giovane (figlio del ministro degli Esteri che aveva guidato il paese durante la Guerra dei Sette anni), il quale diede inizio a una fase di pacificazione destinata a durare fino alla fine del secolo, rimodulando le imposte in maniera proporzionale alla ricchezza e riconcedendo maggiori spazi di azione proprio alle minoranze dissidenti. Fu invece intransigente verso le prime proteste di artigiani e operai, che acquisivano sempre maggiore coscienza e reclamavano migliori condizioni di vita, talvolta con violente rimostranze nei confronti dei padroni [▶ cap. 2.5]

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La stabilità politica inglese fu tuttavia scossa dalla lotta per l’indipendenza dei coloni americani che stimolò anche pretese autonomistiche in aree interne alla Gran Bretagna, prima fra tutte l’Irlanda, lacerata dalle tradizionali tensioni religiose fra cattolici e anglicani. La formazione di un ceto dirigente angloirlandese non aveva affatto messo fine alle tensioni nell’isola, sospesa fra desiderio di autonomia e sudditanza: nel 1798 scoppiò una ribellione che fu ispirata anche dagli ideali indipendentisti americani, ma fu repressa nel sangue. Nel 1800 furono stipulati gli Acts of Union (Atti di Unione), i quali fecero confluire il Regno d’Irlanda nel Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda, che faceva riferimento a un unico parlamento.
La Francia da Luigi XV a Luigi XVI: il fallimento delle riforme
Dalla Guerra dei Sette anni uscì invece stremata la Francia. Luigi XV cercò di fermare la disgregazione interna osteggiando il potere dei “parlamenti”, i tribunali dei regno che esercitavano funzioni giudiziarie e garantivano l’ordine pubblico, coprendo un ruolo importante anche nel controllo dell’igiene, nella distribuzione dei beni alimentari e nella manutenzione delle vie di comunicazione. Questi organi – capaci di limitare già nel Seicento il potere del monarca – riaffermarono con decisione le loro prerogative e riuscirono a conservare un peso importante anche nella gestione delle risorse e del sistema fiscale: vani furono quindi i tentativi di riforma attuati a partire dagli anni Sessanta, visto che risultarono quasi inattaccabili le esenzioni dei ceti privilegiati.

Luigi XV tentò anche di favorire il libero scambio dei prodotti togliendo vincoli e dazi, applicando al contempo le dottrine fisiocratiche [▶ cap. 1.3] e formulando quindi leggi favorevoli agli investimenti per aumentare la produttività del suolo agricolo (includendo anche provvedimenti per le recinzioni nei campi aperti, in linea con un processo già in atto in Inghilterra) [▶ cap. 2.1]. Le resistenze furono forti e, alla fine degli anni Sessanta, diversi raccolti scarsi generarono una carestia che indusse il governo a tornare sui suoi passi, visto che molti beni di prima necessità erano diventati inaccessibili e il popolo minacciava reazioni violente.

Il marchese René Nicolas Charles Augustin de Maupeou cercò di approfittare della situazione ottenendo la fiducia del re ed esautorando alcuni parlamenti, fra cui quello di Parigi, e sostituendoli con consigli di nomina regia, dai quali ci si aspettava una maggiore predisposizione all’obbedienza. Il suo successo fu effimero: i vecchi organi giudiziari furono infatti ripristinati dopo pochi mesi, portando il paese a una completa paralisi.

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Importanti sforzi furono prodotti anche per sanare le finanze dello Stato, ma gli equilibri precari creatisi in quegli anni si alterarono con la morte del re nel 1774 e con la salita al trono del nipote Luigi XVI.

Il nuovo sovrano affidò il controllo dell’economia a Anne-Robert-Jacques Turgot (1727-81), proveniente da una famiglia di origini mercantili e sensibile anche lui alle idee dei fisiocratici. L’avventura di governo dell’intraprendente pensatore durò meno di due anni, dal 20 luglio del 1774 al 12 maggio del 1776. La sua intenzione era di ridurre le spese della corte, di far circolare liberamente le merci, di alzare il prelievo fiscale ai danni dei proprietari terrieri e di abolire le corporazioni di mestiere che regolavano le attività produttive alzando i costi di produzione e limitando la competitività sui mercati internazionali.

Molti illuministi offrirono il loro sostegno, ma le resistenze di ampi settori della società francese furono forti, soprattutto da parte dell’aristocrazia e dei soliti parlamenti, che questa volta non fecero alcun passo indietro. Un colpo decisivo fu dato dai cattivi raccolti e dalla scarsità di grano che ne seguì: i prezzi aumentarono vertiginosamente e la colpa fu attribuita al governo, che aveva scelto di non regolamentare il commercio, affamando i più deboli. La caduta di Turgot diede inizio a una crisi ormai irreversibile, che avrebbe portato di lì a qualche anno alla caduta dell’antico regime in Francia [▶ protagonisti].

  protagonisti

Turgot

Dedicatosi inizialmente agli studi teologici, Turgot virò negli anni Cinquanta verso lo studio dei problemi economici e sociali, entrando in contatto con gli enciclopedisti e con altri esponenti del pensiero illuminista. Coprì anche il ruolo di intendente del re a Limoges. I suoi studi lo condussero a convincersi dell’utilità della libera circolazione del grano nel mercato interno, ma proprio i provvedimenti in tal senso si scontrarono con la dura realtà delle carestie e con l’aumento del prezzo di un prodotto basilare nell’alimentazione della popolazione. In un regime commerciale privo di norme stringenti, infatti, molti possessori di beni di prima necessità erano esposti all’accusa di tenerli nascosti di proposito e di non metterli in vendita, con il solo scopo di far aumentare la domanda, e di conseguenza il prezzo della merce e il profitto finale.

Storie. Il passato nel presente - volume 2
Storie. Il passato nel presente - volume 2
Dal 1715 al 1900