20.4 Società moderne e consumo di massa

20.4 Società moderne e consumo di massa

La più complessa articolazione delle società moderne
Industrializzazione, transizione demografica e migrazioni iniziarono a configurare in ampie aree urbane d’Europa e degli Stati Uniti le prime società moderne.

La “società di massa”, che una parte delle élite intellettuali descriveva come una minacciosa novità per il suo generare comportamenti conformisti e irrazionali nelle masse contadine inurbate [▶ idee], era in realtà molto più articolata, più frantumata e più politicizzata di quelle passate. A fine Ottocento, la piramide sociale si era complicata.

Le élite nobiliari e borghesi tendevano a fondersi tramite unioni matrimoniali, professionali e stili di vita ormai ibridi, che li distinguessero dagli strati borghesi immediatamente sottostanti e difendessero il comune primato socioeconomico e politico.

Lo sviluppo degli apparati statali e del settore terziario aveva ingrossato i cosiddetti “ceti medi”, un composito insieme di vecchie e nuove figure professionali (impiegati, negozianti, liberi professionisti, manager, ingegneri) dai redditi assai diversificati ma sempre più influente, sia perché principale destinatario dei beni di consumo industriali sia perché parte maggioritaria dell’opinione pubblica anche quando escluso dal voto. Se gli appartenenti ai ceti medi trovavano dunque unità soprattutto nel condiviso sforzo di rimarcare la distanza dai lavoratori manuali attraverso l’ostentazione di istruzione, benessere e nuove declinazioni dei tradizionali valori borghesi (rispettabilità, onore, rispetto dell’ordine costituito, patriottismo), ciò accadeva soprattutto perché innumerevoli posizioni intermedie erano comparse anche nelle classi inferiori.

Più vicini ai ceti impiegatizi che ai lavoratori non qualificati erano per esempio gli operai specializzati, spesso significativamente chiamati “aristocrazia operaia”. Se la maggior complessità della gestione aziendale rendeva ormai imprescindibili figure come i manager, l’evoluzione tecnologica dei macchinari e la frammentazione delle attività in fabbrica ispirate al taylorismo producevano infatti due conseguenze. In primo luogo, permettevano di affidare la produzione a lavoratori non qualificati, destinando i vecchi operai qualificati alla manutenzione delle macchine. In secondo luogo, ridefinirono in modo più netto e formalizzato le gerarchie fra le maestranze in funzione delle loro competenze tecniche, attribuendo salari e potere notevolmente superiori a ingegneri e tecnici specializzati rispetto a quanti assemblavano i prodotti: per lo più contadini inurbati le cui condizioni erano migliorate e meno gravose di chi in città svolgeva attività più precarie e sottopagate (ambulanti, lavoratori a giornata), ma che restavano sempre poco sopra la soglia di sussistenza a causa della durezza del lavoro, del più alto costo della vita in città nonché di un mercato del lavoro sovrabbondante di manodopera disponibile e quasi ovunque privo di norme a tutela dei lavoratori.

Era dunque questo corpo sociale in progressiva differenziazione che ora si muoveva in due direzioni solo apparentemente opposte. Da una parte si andava riaggregando in blocchi costruiti attorno a nuovi elementi identitari (classe, gruppo professionale, genere) per rivendicare diritti. Dall’altra, gettava le basi di una atomizzazione e di una individualizzazione tipiche delle più progredite società contemporanee.

Il consumo di massa

Grazie a una maggiore alfabetizzazione, al calo dei prezzi e a redditi più alti e certi, strati più vasti della popolazione urbana iniziarono a potersi permettere beni e servizi prima riservati alle sole élite.

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Simbolo di queste società consumistiche erano grandi magazzini come Bon Marché e le Galeries Lafayette a Parigi, Macy’s a New York o Harrods a Londra, che divennero vere e proprie “cattedrali del commercio”, frequentati luoghi d’incontro e influenti vetrine per la diffusione di gusti e mode seguiti anche da chi non poteva permetterseli.
A orientare i consumatori contribuiva però soprattutto la pubblicità. Cartelloni, insegne luminose, manifesti e inserzioni sui giornali promuovevano molti prodotti, associandoli a marchi, immagini o slogan per renderli desiderabili: strategie comunicative sempre più spesso studiate da agenzie pubblicitarie professionali, concretizzate da artisti celebri e accompagnate da innovative tecniche di commercializzazione come la vendita a rate o per corrispondenza, che rendevano accessibili beni altrimenti troppo costosi o irreperibili su piazza.

Parte importante dei consumi delle classi medio-alte era costituita dall’abbigliamento, sia perché i costi ridotti della produzione seriale stavano producendo una certa democratizzazione della moda, sia perché la stessa industria dell’abbigliamento crebbe e si articolò al suo interno cercando d’interpretare al contempo il desiderio di distinzione dei ceti più elevati e la brama di assimilazione alle élite dei ceti medi. Prima l’inglese Charles Frederick Worth negli anni Settanta e poi le griffe parigine d’inizio Novecento (Paul Poiret, Chanel) dettero così vita all’Alta moda, che introduceva varie innovazioni (l’uso di modelle, l’etichetta firmata) ma soprattutto invertiva il rapporto fra sarto e cliente, lasciando a quest’ultimo scelta solo fra le proposte della collezione e dettando il gusto all’intera alta società attraverso sfilate e riviste specializzate [ 9].



Anche cibi e bevande subirono significative trasformazioni. Mentre nascevano bibite come la Coca-Cola [ 10] e l’aumento del costo del vino a causa del protezionismo favoriva la diffusione della birra nelle aree mediterranee, il calo dei prezzi agricoli e i commerci internazionali consentivano ora a una fetta più ampia dei ceti inferiori urbani di mangiare pane bianco e rendere un po’ più nutrienti e gustosi piatti poveri come polente e minestre. Parallelamente, fra i ceti medi si diffusero prodotti esotici (ananas, banana, cacao) e piatti etnici, legati ai contatti con i popoli colonizzati e i migranti, che non di rado sfruttavano le loro specialità nella ristorazione e nel commercio alimentare per guadagnarsi da vivere (pizzerie e ristoranti italiani, enoteche francesi, birrerie tedesche). Ciò proprio mentre autorità e movimenti nazionalisti di tanti paesi inserivano sempre più la cucina fra le strategie di nazionalizzazione della cultura materiale, identificando o creando tradizioni culinarie e piatti “tipici”.

  idee

La società di massa

Il progressivo allargamento della partecipazione politica fra Otto e Novecento e la nascita di società moderne colpirono i contemporanei e spaventarono le élite più reazionarie. La cosiddetta “società di massa” sarebbe stata il risultato di un’evoluzione lenta, ma accelerata dal nuovo profilo del lavoratore inurbato (più istruito e secolarizzato) e dalle condizioni del mercato (prezzi bassi, salari stabili), che consentivano di esten­dere a più ampie fasce della popolazione esperienze prima riservate a selezionate minoranze: la scolarizzazione, l’acquisto di beni voluttuari, la disponibilità di tempo libero e la partecipazione politica. Conseguenza di ciò sarebbe stata la preminenza della dimensione collettiva su ogni aspetto della vita e la nascita di un inedito tipo antropologico che il filosofo spagnolo José Ortega y Gasset definì appunto “l’uomo-massa”: un soggetto tendente al conformismo e a comportamenti contrari alle sue inclinazioni perché «a suo agio nel riconoscersi identico agli altri», o perché spinto dal desiderio di «stare in armonia con gli altri anziché di contrapporsi», come sosteneva in chiave psicologica Sigmund Freud.

Il sociologo francese Émile Dur­kheim, ragionando sui fattori che tenevano insieme società ormai così complesse, giunse invece a una conclusione diversa: l’uomo rinunciava al suo naturale egoismo perché consapevole di essere interdipendente con gli altri membri di questo insieme (solidarietà organica), e quindi sceglieva di seguire norme, credenze e valori condivisi (coscienza collettiva) utili a evitarne un disastroso disfacimento.

Infine, il tedesco Georg Simmel l’attribuiva all’affollato ambiente urbano, che favoriva la secolarizzazione e rendeva impersonali le relazioni umane, acuendo la solitudine di individui emancipati dai legami e dai sistemi di controllo sociale tipici della comunità rurale.

Quale che ne fosse la causa, sarebbe stata proprio l’irrazionalità della folla – secondo l’espressione del sociologo francese Gustave Le Bon – a rendere però la società di massa un fenomeno tanto suggestivo quanto pericoloso. Nell’agire collettivamente la massa possedeva infatti una “immensa potenza”, capace di orientare le decisioni di governi e sovrani. Eppure essa era “schiava degli impulsi ricevuti”, e pertanto non solo “mutevole” ma facilmente suggestionabile da demagoghi capaci di presentarsi come suoi interpreti.

Fra Otto e Novecento i timori che le classi dirigenti avevano tradizionalmente avuto nei confronti dei ceti inferiori e del loro coinvolgimento nella vita pubblica si tradussero dunque in una compiuta teoria della società di massa dalla vasta eco e capace d’influenzare molte delle successive interpretazioni di questa fase. Ciò mentre i rivoluzionari – sia socialisti sia nazionalisti – riflettevano sulla possibilità di sfruttare a loro favore l’eccitabilità delle masse.

Concezione del tempo e tempo libero
Uno degli aspetti più rivoluzionari della modernità fu l’alterazione prodotta nella scansione e nell’uso del tempo. Da una parte l’illuminazione artificiale abbatté la barriera tra giorno e notte: la giornata era scandita dagli orari di lavoro negli uffici e in fabbrica e il passare delle ore era misurato con inusitata precisione da oggetti d’uso sempre più comune come gli orologi, non più dal moto solare o dal suono delle campane come ancora accadeva nelle aree rurali più arretrate. Dall’altra la possibilità di assumere personale di servizio e i primi rudimentali elettrodomestici (l’aspirapolvere nel 1908) dilatarono il tempo libero a disposizione dei ceti medi, che tendevano a riempirlo con attività nuove o riservate prima alle sole élite: club, associazioni sportive, hobby e sport, alcuni più elitari come le prime gare automobilistiche e il tennis (il torneo di Wimbledon nacque nel1877), altri più popolari come il rugby, il calcio [▶ eventi], il baseball, il basket e la pallavolo, i cui eventi maggiori erano ormai seguiti da giornali dedicati (La Gazzetta dello Sport, Le Vélo e L’Auto, antesignano dell’attuale L’Équipe).

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Nel clima internazionale reso incandescente dall’imperialismo e dalla corsa agli armamenti [▶ cap. 19.1-2], il fervore sportivo produsse iniziative di grande valore simbolico, come il ripristino nel 1896 ad Atene dell’antica tradizione greca delle Olimpiadi ad opera del barone francese Pierre de Coubertin. Al tempo stesso, però, lo sport accentuò il suo ruolo di strumento di nazionalizzazione e militarizzazione delle masse [▶ cap. 14.6], valorizzando in particolare le discipline che preparavano al servizio militare (atletica, nuoto, tiro a segno, equitazione) o favorivano la familiarizzazione con il territorio nazionale (ciclismo, alpinismo).

A un uso politico si prestavano altre forme d’intrattenimento più tradizionali come il teatro, l’opera e i concerti di musica classica, che conobbero in questa fase un notevole aumento di pubblico. Un successo ancora maggiore raccolsero però nuovi locali di spettacolo (i café-chantant, i cabaret [▶ cap. 15.4]), balli più trasgressivi (il can-can, il tango) e pratiche prima prerogativa dell’aristocrazia come la villeggiatura. Al tradizionale Grand tour si affiancava ora un turismo meno elitario e formativo: un’attività ludica e uno status symbol che dette slancio a settori (alberghiero, ristorazione) e regioni d’interesse artistico o paesaggistico.

  eventi

La nascita del calcio

Sin da metà Ottocento in Inghilterra si fecero tentativi per standardizzare le innumerevoli varianti di un gioco le cui regole erano fissate prima di ogni singola partita, spesso in forme ibride fra calcio e rugby o tali da sanzionare solo azioni tanto violente da configurare “omicidio e omicidio colposo”. La nascita del moderno calcio risale però al 1863, quando i rappresentanti di 11 scuole e associazioni sportive fondarono a Londra una federazione calcistica nazionale (Football Association) e definirono un primo vago regolamento che lo distinguesse nettamente dal rugby.

Anche se intellettuali come Rudyard Kipling consideravano gli appassionati al nuovo sport rozzi che «saziano le loro piccole anime con gli idioti fangosi del football», questi si moltiplicarono presto. Già nel 1872 i club affiliati erano 50 e si poterono giocare la prima competizione (la FA Cup) e il primo match internazionale fra Inghilterra e Scozia (rappresentata dal più antico club scozzese, il Queen’s Park). Poi, nel 1879, l’acquisto di due talentuosi giocatori da parte della squadra del Darwin dette avvio al professionismo, legalizzato nel 1885 e ormai diffuso quan­do nel 1888 si disputò il primo campionato nazionale.

Nel frattempo nacquero altre federazioni, che prima dettero vita alla Fédération Internationale de Football Association (Fifa) nel 1904 e poi riuscirono a fare del calcio una disciplina olimpica ai Giochi di Londra del 1908.

In Italia una federazione fu istituita nel 1898, ma i primi club erano già sorti in città con molti inglesi come Genova (il Genoa Cricket and Athletic Club nel 1893) e in Piemonte, dove c’erano sia polisportive che comprendevano il calcio (il Football Club Pro Vercelli del 1892) sia società dedite al solo football, come la Juventus FC, fondata nel 1897 a Torino da alcuni liceali.

Fra Piemonte e Liguria si giocarono anche i primi campionati nazionali, il primo dei quali si disputò fra quattro squadre nella sola giornata dell’8 maggio 1898. Presto però il calcio si diffuse in tutto il paese: nacquero nuovi club (il Milan nel 1899, la Lazio nel 1900, il Torino nel 1906) e la federazione costituì una squadra nazionale. La Nazionale esordì nel 1910 con una maglia bianca, poi sostituita con una azzurra in onore dell’azzurro presente nello stemma dei Savoia.

Storie. Il passato nel presente - volume 2
Storie. Il passato nel presente - volume 2
Dal 1715 al 1900