20.5 Diffusione della cultura, avanguardie e antipositivismo

20.5 Diffusione della cultura, avanguardie e antipositivismo

Nuovi saperi, mass media e stili per un pubblico più vasto e colto
Società più alfabete, benestanti e gerarchizzate in funzione dell’istruzione produssero una domanda di cultura più vasta e diversificata. Mentre maggior dignità veniva accordata alle scienze applicate (ingegneria, economia) e sociali (sociologia, antropologia, etnologia) che studiavano i recenti mutamenti tecnici e socioeconomici, oppure le organizzazioni umane alternative alla modernità occidentale (comunità aborigene, tribù africane, società contadine arretrate), scritti sempre più popolari divulgarono versioni distorte del positivismo e dell’evoluzionismo.

Dalle volgarizzazioni del primo derivarono l’idea di un progresso indefinito e approcci deterministici al diritto o alla medicina, come dimostravano il diffondersi del­l’ antropometria e l’eco avuta dalle teorie della Scuola positiva di diritto sul nesso meccanico fra contesto sociale, indicatori fisiologici (forma e dimensione del cranio) e tendenza a delinquere.

All’evoluzionismo si richiamava invece direttamente il darwinismo sociale [▶ cap. 10.3], mentre si diffondevano in Europa come in America le teorie razziste rimontanti a Arthur de Gobineau [▶ cap. 15.4] e riprese nel 1899 da Houston Stewart Chamberlain: un razzismo “biologico” che distingueva i popoli in base al sangue e non a cultura o religione, affermando la superiorità della razza ariana su slavi, neri ed ebrei e legittimando così il montare dei sentimenti suprematisti bianchi negli Usa [▶ cap. 18.1], l’antislavismo nell’Impero asburgico e tedesco [▶ cap. 16.4], le violenze subite dagli ebrei nell’Impero russo [▶ cap. 17.2].

Oltre ai testi pseudoscientifici, buona parte della produzione culturale rispose all’accresciuta domanda offrendo letture e prodotti artistici che esaltavano la modernità o più vicini ai gusti del grande pubblico, accentuandone il carattere commerciale.

Stili architettonici come il modernismo americano e il liberty europeo celebravano il progresso utilizzando i materiali tipici dell’industrializzazione (vetro, ferro, cemento armato) o disegnando edifici simbolo come grattacieli e stazioni.

Parallelamente, alcune case editrici inaugurarono collane economiche di classici e di libri di lettura per operai e fanciulle, mentre i  romanzi d’appendice avevano gran successo e la modernità ispirava la fantascienza e la letteratura d’avventura di scrittori come Emilio Salgari e Jules Verne. Inoltre, grazie ai proventi delle inserzioni pubblicitarie e alla più efficiente rotativa per la stampa, nelle principali città i quotidiani superarono il milione di copie al giorno, si moltiplicavano le riviste illustrate e spopolavano i tabloid, giornali di formato e prezzo ridotti destinati a un pubblico di scarsa cultura cui dare in pasto “sangue e sesso”, come si prefiggeva il New York World di Joseph Pulitzer.

Il modernismo letterario e le avanguardie artistiche
Contro la produzione culturale di maggior successo e il suo carattere commerciale, polemizzarono movimenti sperimentali diversi fra loro ma accomunati sotto l’etichetta di “avanguardie”: artisti spesso però originari di quello stesso universo borghese che rinnegavano in quanto sclerotizzato e declinante, contestandone la meschinità, la fede nell’oggettività scientifica e le tradizioni classiche e accademiche.

Ciò portò la pittura a prescindere dalla realtà (il cubismo di Pablo Picasso, l’astrattismo di Vasilij Vasilevič Kandinskij), esasperando la dimensione emotiva (l’espressionismo di Vincent Van Gogh e Edvard Munch) o la modernità (il futurismo di Boccioni). In letteratura comparvero invece romanzi che stravolgevano la logica linearità della narrazione come l’Ulisse di James Joyce; poesie dai toni onirici come quelle dei cosiddetti “poeti maledetti” francesi e autori che si rifacevano all’estetismo per irridere l’ipocrita società borghese come Oscar Wilde. Eppure, il confine fra sincero sentimento antiborghese e sfruttamento dei meccanismi tipici della società di massa era a volte sottile. E non mancava chi, come l’italiano Gabriele D’Annunzio, faceva del disprezzo per la normalità borghese un’efficace strategia comunicativa per assurgere a  poeta vate e diventare un eccentrico modello per ceti medi desiderosi di distinguersi dalla massa, ricavandone fama e ricchezza [ 11].

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Rivoluzione della conoscenza, crisi della coscienza
Le “avanguardie” trovarono ispirazione e sponda nelle radicali critiche di alcuni studiosi alla cultura e alla tradizione scientifica occidentali. Filosofi come Friedrich Nietzsche e Henri-Louis Bergson contestarono l’idea meccanicistica e spersonalizzante di evoluzione, contrapponendovi la necessità di affermare la forza creatrice dell’individuo nel quadro di concezioni del tempo non più lineari né oggettive.

Di impatto ancor maggiore furono le indagini del medico moravo Sigmund Freud [ 12], che non solo rivelarono gli impulsi violenti e i precoci appetiti sessuali dell’essere umano, ma ne sostituirono la tradizionale immagine di entità coerente, unitaria e razionale con quella di un intricato e misconosciuto insieme di strutture psichiche in precario equilibrio fra loro: una “rivoluzione psicanalitica” che, pur accolta con diffidenza negli ambienti scientifici, ebbe influenza profonda e immediata su artisti e scrittori incuriositi dai meccanismi psichici e identitari come dalla disintegrazione delle convenzioni sociali.

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Spiazzanti furono infine le scoperte effettuate da alcuni fisici su energia e struttura della materia. Muovendo dalla  teoria dei quanti enunciata nel 1900 da Max Planck, prima il fisico inglese Joseph John Thomson scoprì l’esistenza degli elettroni e poi, nel 1911, il suo allievo Ernst dimostrò quella del nucleo. Il nuovo modello dell’atomo, proposto dal danese Niels Bohr nel 1913, ne smentiva così definitivamente l’indivisibilità insita sin dall’antichità greca nel suo stesso nome (“atomo” significa “indivisibile”). A ciò si aggiunsero gli articoli con cui, nel 1905, il fisico ebreo tedesco Albert Einstein teorizzava la relatività spazio-temporale e l’equivalenza fra energia e massa: la fisica classica di e risultava ormai applicabile al solo mondo macroscopico e dimensioni prima considerate “oggettive” come lo spazio e il tempo diventavano funzione dell’osservatore.

Infine, ormai lungi dalla cieca fiducia nell’oggettività dell’analisi scientifica era anche la riflessione del principale sociologo del tempo, il tedesco Max Weber. Questi analizzò la transizione fra la vecchia struttura comunitaria e la nuova società, i meccanismi di funzionamento del potere, il rapporto religione-economia e quello Stato-libertà. Ma a ciò aggiunse un ragionamento sui procedimenti metodologici necessari al ricercatore per evitare che la sua soggettività condizionasse le rilevazioni effettuate: la scienza simbolo del Positivismo perdeva la sua aura di oggettiva scientificità.

20.6 La politica di massa fra modernismi, antimodernismi e anticapitalismi

Gli Stati di fronte alla nuova società
Se in molti contesti lo Stato aveva svolto un ruolo determinante nello sviluppo industriale tardottocentesco, i ceti dirigenti dei principali paesi europei trovarono maggiori difficoltà nel gestire le conseguenze sociali e politiche dell’industrialismo, l’emergere di nuovi strati sociali e le loro rivendicazioni. Certo, la diffusione della ferrovia e del telegrafo favoriva l’integrazione nel sistema-paese di regioni prima isolate, il controllo delle aree più periferiche e il pronto intervento della forza pubblica in caso di bisogno. Inoltre, sforzi notevoli erano stati compiuti per conoscere e classificare le multiformi realtà socioeconomiche che componevano ogni paese, prima di tutto mediante censimenti e inchieste. Ciò mentre la complessità delle metropoli e le massicce migrazioni avevano imposto amministrazioni più efficienti, una maggior precisione nell’identificare le persone (grazie alla fotografia) e spesso una ridefinizione dei criteri di cittadinanza. Insomma, un po’ in tutti i paesi il ruolo e le prerogative dello Stato si erano ampliati e i suoi apparati si erano estesi penetrando aspetti della vita prima lasciati all’arbitrio individuale o comunitario (istruzione, sanità, mobilità).

Come si è visto nei capitoli precedenti, la crescente esigenza di familiarizzare parti più ampie della società con le istituzioni si concretizzò in politiche sostanzialmente comuni a molti paesi europei e americani: la diffusione della scolarizzazione e non di rado l’allungamento dell’obbligo scolastico, l’estensione del servizio militare a categorie prima esenti (classi agiate, minoranze nazionali, ex schiavi), feste pubbliche e concreti aiuti alla stampa filogovernativa.

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Élite e politicizzazione delle “masse”
La guerra franco-tedesca del 1870 e la “Corsa all’Africa” [▶ capp. 15.3 e 19.2] avevano già dimostrato che qualsiasi tipo di regime non poteva ormai prescindere dal consenso della propria opinione pubblica, composta con l’avvicinarsi del Novecento da strati sempre più ampi della popolazione.

Quasi ovunque, però, i processi di nazionalizzazione e integrazione nella vita pubblica dei gruppi emergenti conservarono un carattere paternalistico e mirarono a metterli in condizione di partecipare sì alla politica, ma in posizione subordinata. Le classi dirigenti restavano così in larghissima parte composte da nobili e da ricchi borghesi assurti nell’élite nazionale in quanto professionisti o uomini d’affari di successo. Mentre a classi dirigenti ristrette facevano da pendant corpi elettorali significativamente ampliati, ma che ancora escludevano quasi ovunque le donne e le minoranze etnolinguistiche ritenute estranee alla maggioranza dominante. Senza contare i milioni di extraeuropei ed europei privati dei diritti politici dall’occupazione coloniale o dai regimi autocratici ancora al potere.

La cosa, d’altronde, non doveva stupire, considerato che fra i paesi in più forte ascesa vi erano regimi di fatto autoritari come quello tedesco o giapponese, che persino la democrazia statunitense era messa in discussione nella sua capacità di generare libertà e progresso [▶ cap. 18.1] e che gli iniziatori della moderna scienza politica erano teorici dell’élitismo: assumendo la riflessione del sociologo Gustave Le Bon sulla manovrabilità delle folle e analizzando i meccanismi di formazione e sostituzione delle classi dirigenti, studiosi come Gaetano Mosca, Vilfredo Pareto e Robert Michels finirono infatti per sostenere che i sistemi politici erano per definizione retti da élite che si sostituivano nel corso del tempo. Tali teorie, spesso volgarizzate, fornirono idee e legittimazione sia ai gruppi dirigenti tradizionali sia alle avanguardie desiderose di sostituirli, alimentando le correnti antiliberali, antidemocratiche e antiparlamentari che percorrevano le società europee.

Condizione femminile ed emancipazionismo
Da queste “democratizzazioni a metà” erano escluse in primo luogo le donne. In realtà, fra XIX e XX secolo le più evolute società occidentali videro l’emancipazione femminile fare concreti passi avanti. La socialità urbana di fine Ottocento appariva infatti nel complesso meno segregata sul piano del genere. La manodopera femminile era ormai largamente diffusa nelle fabbriche, soprattutto tessili (oltre il 60% nel Regno Unito del 1893). Giornaliste e scrittrici pubblicavano più spesso senza usare pseudonimi maschili. L’offerta commerciale dei grandi magazzini era di fatto rivolta prevalentemente a un pubblico femminile e luoghi quali caffè e ristoranti erano ora più che mai frequentati anche da donne.

Tuttavia, una maggiore presenza nella vita pubblica e sociale non si tradusse quasi da nessuna parte nell’ammissione al voto, che restò limitata alla Nuova Zelanda (1893), all’Australia (1902) e ad alcuni paesi scandinavi (1906-15). Proprio la conquista dei diritti politici divenne dunque la rivendicazione principale delle aderenti ai movimenti emancipazionisti. I più forti si formarono negli Stati Uniti e nel Regno Unito, dove organizzarono cortei, scioperi e un giornale chiamato The Suffragette. Ma ottennero appunto modesti risultati, non trovando sostegno nemmeno nelle forze progressiste che diffidavano della preponderante componente borghese in seno al femminismo e più in generale temevano la malleabilità delle donne alla propaganda filoclericale [ 13].
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I primi partiti di massa
Pur resistendo sul piano istituzionale e seguitando a imporre limiti a una compiuta democrazia, i regimi liberali ottocenteschi e gli stessi fondamenti concettuali dei liberalismi classici erano però entrati in una crisi profonda. Da un lato essi erano inadeguati a giustificare la sempre più invasiva presenza dello Stato nella vita dei suoi cittadini e gli obblighi che discendevano dall’appartenenza alla nazione (scolarizzazione, servizio militare). Dall’altro istituzioni e idee liberali scontentavano tanti: la fetta della classe dirigente che riteneva la lentezza decisionale dei sistemi parlamentari incompatibile con il progresso; le classi medie, ormai protagoniste della vita civile e desiderose di partecipare a quella politica; tutti coloro che non potevano votare né candidarsi per genere, condizione socioeconomica, religione o etnia.
In risposta a questa domanda sorsero quelli che si possono considerare i primi moderni partiti di massa europei, considerato che il sistema politico statunitense conosceva un fenomeno simile sin dai tempi della Jacksonian Democracy [▶ cap. 8.2]. In molti paesi l’ultimo ventennio dell’Ottocento vide infatti la nascita di associazioni politiche dagli orientamenti ideologici assai diversi fra loro (nazionalisti, socialisti, anarchici), ma accomunate dalle medesime caratteristiche organizzative e funzionali. D’altro canto, mentre la complessità della macchina governativa e parlamentare imponeva alla classe dirigente una maggiore professionalizzazione politica, l’ampliamento dei corpi elettorali rendeva impossibile per i candidati replicare i tradizionali meccanismi di conquista dei voti, fondati sulla conoscenza personale degli abitanti del collegio, su preesistenti rapporti clientelari e su un consenso costruito con qualche comizio a ridosso delle elezioni.

Per affrontare con successo competizioni elettorali rese più difficili da un elettorato non solo più ampio ma socioculturalmente più articolato, i moderni partiti dovettero strutturarsi in complesse macchine organizzative dotate di propri dirigenti e apparati burocratici, di sedi centrali e sezioni periferiche, di programmi e di simboli che potessero essere facilmente riconoscibili anche dagli elettori più ignoranti, nonché di militanti e mezzi di propaganda capaci di veicolarli al grande pubblico.

Si trattò ovviamente di un processo avvenuto con tempi e intensità diversi secondo l’ampiezza dell’elettorato, i sistemi di voto, le libertà d’espressione concesse e le condizioni culturali e socioeconomiche degli strati sociali più umili. Ma fu senza dubbio un fenomeno che accomunò la maggior parte dei paesi europei.

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Questione sociale, sindacati e partiti socialisti
L’impatto globale dell’industrializzazione e lo sfruttamento di una manodopera sovrabbondante e poco tutelata dalle prime legislazioni sociali acuì il disagio dei lavoratori nelle campagne come nelle fabbriche. Solo che, mentre contadini e braccianti stentavano a organizzarsi ed erano più facilmente avvicinati dalle associazioni confessionali (cattoliche o protestanti secondo l’area), diversi fattori rendevano le moderne città un’incubatrice ideale per sviluppare quella coscienza di classe che Marx riteneva presupposto necessario per la rivoluzione degli operai [▶ cap. 10.6]: l’ammassarsi in alcuni quartieri, frequentare le stesse taverne e condividere lunghi turni, abitudini alimentari (per esempio il in Inghilterra) e attività ludiche come il calcio.

Per questi gruppi i sindacati, pur ormai legalmente riconosciuti in diversi paesi, avevano ottenuto qualche successo quasi esclusivamente nel Regno Unito, dove nel 1890 le Trade Unions avevano già un milione e mezzo di iscritti. Altrove essi stavano ancora nascendo, come in Francia e in Italia [▶ capp. 14.3 e 15.3], o stentavano a imporsi per il deficit di coesione dovuto alla complessa articolazione sociale ed etnica delle classi lavoratrici, come negli Stati Uniti.

Poco erano riusciti a fare anche le prime formazioni politiche che si richiamavano alla classe operaia, nate in vari paesi negli anni Settanta su scala per lo più regionale come sezioni della Prima internazionale. D’altronde, la stessa Prima Internazionale [▶ cap. 10.6], dilaniata da contrasti personali e divisioni interne, si era infine sciolta nel 1876 senza esser mai riuscita a coordinare e sostenere le cause promosse dai lavoratori.

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Si spiegava dunque con l’ampliamento del suffragio, ma anche con la necessità dei movimenti operai di trovare uno strumento di pressione efficace, la quasi simultanea nascita dei principali partiti socialisti europei nel periodo compreso fra il 1875 (quello tedesco) e il 1901 (quello francese) [ 14]. A fine Ottocento partiti socialisti esistevano così anche nell’Impero russo e in quello asburgico [▶ cap. 17.4]. Tuttavia, fu dove l’industrializzazione era stata particolarmente tumultuosa, i tassi di alfabetismo erano più elevati e più politicizzate erano le classi lavoratrici che le idee anticapitaliste ed egualitarie fecero breccia più facilmente. Non a caso, quindi, i moderni partiti di massa per eccellenza furono i partiti socialisti nati nei paesi europei più avanzati, in particolare quella Spd tedesca che nel 1914 avrebbe contato un milione di iscritti e 15 000 dipendenti, ma che già nel 1890 era il primo partito nazionale [▶ cap. 16.4].
La Seconda Internazionale e l’affermazione del marxismo
Furono questi partiti a costituire – a Parigi nel 1889 – una Seconda Internazionale. Si trattava questa volta non di un organismo unitario, bensì di una federazione che appunto si prefiggeva l’obiettivo di coordinare l’azione dei diversi partiti nazionali aderenti. I suoi congressi si tennero periodicamente e le sue deliberazioni, benché non vincolanti, presero spesso posizioni risolute sui temi più caldi della politica internazionale e interna ai singoli Stati [▶ FONTI].

Dal punto di vista ideologico, la Seconda internazionale era però più compatta della Prima. Espulsi gli anarchici di Bakunin, essa mutuava infatti dalla Spd il suo orientamento marxista, emerso vincitore sulle altre varianti del socialismo grazie a diversi fattori: la solidità del suo impianto teorico, il presentare come una certezza scientifica la speranza in un mondo più equo; la fama venuta a Marx dal supporto alla Comune parigina del 1871 [▶ cap. 15.3] e dalla pubblicazione del primo volume de Il Capitale.

Storie. Il passato nel presente - volume 2
Storie. Il passato nel presente - volume 2
Dal 1715 al 1900