19.2 La “Corsa all’Africa” e la penetrazione in Asia

La cultura imperialista e la sua ricezione

Tanto le iniziative intraprese dai singoli paesi quanto le decisioni prese a Berlino si fondavano su alcuni assunti largamente condivisi derivanti dalla volgarizzazione e dal travisamento delle riflessioni di grandi pensatori, che facevano dell’imperialismo una delle espressioni dello “spirito del tempo”.

Il darwinismo sociale e la metafora biologica, che equiparavano le relazioni fra nazioni e Stati alla lotta per la sopravvivenza che caratterizzava gli animali [▶ cap. 10.3], fornivano alle classi dirigenti europee una chiave interpretativa del processo storico che rendeva la dominazione su popoli “meno evoluti” non una scelta politica ma una necessità naturale.

La vulgata del pensiero del filosofo tedesco Friedrich Nietzsche (nietzscheanesimo) alimentava il culto della violenza, individuando nella guerra il mezzo per scardinare sia il soffocante e decadente ordine “borghese”, sia la “morale da schiavi” costruita nei secoli dal cristianesimo e dalla tradizionale cultura razionalizzante di matrice greca: un bellicismo che caratterizzava in particolare i movimenti nazionalisti radicali, sempre più illiberali, antiparlamentari, razzisti e fautori dell’imperialismo come via per riaffermare la potenza della nazione e risvegliare l’amor patrio dei connazionali in vista di conflitti fra grandi potenze ritenuti ineluttabili.

Infine, l’idea della “missione civilizzatrice” attribuiva ai popoli “civili” il dovere morale e cristiano di modernizzare quelli incivili, restii alla sottomissione proprio perché incapaci di scegliere il meglio per sé: un concetto ripreso anche da alcuni imperialisti statunitensi. Altri preferivano invece legittimare la supremazia anglosassone sulla base del darwinismo sociale, mentre erano molti quelli che richiamavano il mito del “destino manifesto” in chiave più propriamente politica [▶ cap. 8.2], ossia il diritto/ dovere degli Usa di espandere la propria sfera d’influenza in qualità di unica potenza capace di garantire al mondo un impero democratico [ 1].

All’inizio del 1900 la cultura imperialista permeava il discorso pubblico e aveva ormai rimodellato l’immaginario collettivo degli europei. A costituirla erano immagini, discorsi, gusti e orientamenti politico-pedagogici spesso violenti, “ razzializzanti”, fondati su stereotipi e tendenti a costruire consenso attorno alla colonizzazione. Tuttavia, vi concorreva anche l’orgoglio per il progresso e una sincera curiosità verso gli indigeni, che divennero spunto per tendenze artistiche quali l’esotismo [ 2] e oggetto di studio per nuove scienze come l’antropologia e l’etnologia.

In questo clima, mentre nel Regno Unito alcuni intellettuali già prefiguravano la possibilità di trasformare l’impero in un Commonwealth di Stati, dapprima ammettendovi le sole colonie a maggioranza bianca e poi magari anche le altre, lì e altrove in Europa nacquero associazioni come la Imperial Federation League, fondata a Londra nel 1884 con lo scopo di diffondere la cultura imperialista e di convincere il governo britannico a stringere ulteriormente i legami con i territori sottomessi mediante la creazione di una federazione dotata di un parlamento imperiale.

Quantomeno ambiguo fu inoltre l’atteggiamento dei socialisti. Se Lenin e molti socialisti russi condannarono l’imperialismo come un’ulteriore fase nello sviluppo del capitalismo, vari partiti socialisti fra cui la Spd tedesca lo giustificarono invece come via per velocizzare lo scoppio della rivoluzione nei rispettivi paesi o almeno per migliorare le condizioni di vita dei più poveri, grazie alla riduzione della pressione demografica derivante dall’emigrazione. Ciò mentre le critiche della Seconda Internazionale nata nel 1889 non impedivano a molti suoi aderenti di pensare che il principio di autodeterminazione valesse solo per le civilizzate nazioni occidentali, che le arretrate popolazioni extraeuropee non fossero in grado di autogestirsi e che la presenza di bianchi in Africa e Asia portasse vantaggi alla causa socialista.

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Le sempre più flebili voci antimperialiste
Dagli ambienti socialisti venivano però anche alcune delle voci più critiche, mosse da avversione alla guerra, solidarietà con gli oppressi (ritenuti però troppo arretrati per contribuire alla causa rivoluzionaria) polemica contro l’aumento delle spese militari e timore che l’emigrazione disinnescasse la questione sociale, togliendo un argomento chiave alla propaganda anarcosocialista.

Contro l’imperialismo erano anche coloro che non contestavano il diritto all’impero o la sua funzione civilizzatrice, ma consideravano prioritari altri obiettivi, come i democratici italiani desiderosi di riprendere prima le “terre irredente [▶ cap. 14.5] o quei repubblicani francesi che volevano ogni sforzo concentrato sulla rivincita contro l’Impero tedesco [▶ cap. 15.4].

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Le perplessità dei vertici politici e militari più ragionevoli erano invece alimentate dai costi, dalle difficoltà logistico-strategiche, dai limiti delle macchine belliche nazionali e dai rischi insiti nell’inserire nuovi sudditi in Stati alle prese con minoranze e masse non ancora nazionalizzate: una preoccupazione per l’omogeneità nazionale declinata in senso razziale soprattutto negli Stati Uniti, dove si legava alla polemica contro l’immigrazione [▶ cap. 18.3] in un unico discorso sulle nefaste conseguenze per la “salute razziale” americana del contatto con popoli inferiori.

Sempre negli Usa, al colonialismo si oppose l’American Anti-Imperialist League, che protestava contro il fraintendimento della dottrina Monroe [▶ cap. 8.2], pretendeva il rispetto del principio di autodeterminazione sancito dalla Costituzione e contestava una politica estera statunitense che riteneva simile a quelle di potenze illiberali come l’Impero tedesco o russo, quindi incoerente con l’eccezionalismo della cultura politica democratica alla base della superiorità morale americana.

Antimperialista era infine il nascente movimento pacifista. Si trattava di gruppi che affondavano le proprie radici nei periodici Congressi internazionali per la pace degli anni Quaranta e che erano sostenuti da noti intellettuali come lo scrittore russo Lev Tolstoj. Tuttavia, il pacifismo restava ancora ideologicamente disomogeneo ed era quindi incapace di farsi voce unica proponendo soluzioni non utopistiche.

Comunque, nulla riuscì a scalfire l’egemonia del discorso imperialista [ 3].

19.2 La “Corsa all’Africa” e la penetrazione in Asia

La “Corsa all’Africa”
Dalla metà degli anni Ottanta l’espansionismo oltremare assunse le fattezze di una vera e propria “Corsa all’Africa” e di una massiccia penetrazione in Asia. Per proteggere l’Egitto, Londra istituì protettorati nella Somalia settentrionale (1888), in Kenya e Tanzania (1890), in Uganda (1894) e in Nigeria (1901). In Sudan invece, i britannici prima costrinsero alla ritirata le truppe francesi che avevano provato a prendere il paese giungendo sino alla città di Fashoda (oggi Kodok); poi, nel 1898, vi instaurarono un governo in cogestione con il governatore egiziano, vincendo la resistenza di matrice islamica che si opponeva ai coloni europei.

La Repubblica francese unificò invece i possedimenti in Senegal, Ciad e golfo di Guinea nella cosiddetta Africa occidentale francese (1895), formalizzò la colonizzazione di una piccola porzione di Somalia (1896) ed estese il suo controllo all’intera isola del Madagascar (1897).

Un ruolo più marginale ebbero altri paesi. Le velleità imperialiste italiane furono infatti presto frustrate dall’Impero etiope e dalla resistenza di eritrei e somali, pure formalmente sottomessi [▶ cap. 14.6]. Il “ritardo” tedesco era invece dovuto alla prudenza con cui Bismarck aveva tenuto a lungo la Germania fuori dalla competizione coloniale, sperando che essa impegnasse le altre potenze fuori d’Europa. Tale atteggiamento fu però rinnegato negli anni Novanta dall’aggressiva politica estera dell’imperatore Guglielmo II [▶ cap. 16.4] il quale, per compattare il fronte interno e per garantire prestigio e interessi tedeschi all’estero, conquistò l’odierna Namibia (detta Africa occidentale tedesca), il Togoland (oggi Togo e parte del Ghana), il Camerun e il Tanganica, ribattezzato Africa orientale tedesca e ingrandito nel 1899 con l’annessione degli attuali Ruanda e Burundi [ 4].

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La penetrazione in Asia e la fine del sistema tributario cinese
In Asia, il minor numero di territori “liberi” e i diversi attori coinvolti dettero all’imperialismo altre forme. Almeno sino a quando l’Impero giapponese e gli Stati Uniti non intensificarono la loro spinta espansionista in Estremo oriente, l’asse principale lungo il quale si mosse la penetrazione europea fu quello rappresentato dalla rivalità fra l’Impero russo e l’Impero britannico. Per prevenire o limitare l’influenza di Londra lo zar rafforzò la pre senza nel Caucaso, una regione collocata in posizione strategica e ricca di petrolio. Parallelamente, occupò la Manciuria cinese ( 1898 - 1900 ) ed estese ulteriormente i suoi possedimenti in Asia centrale [▶ cap. 17.3]. Dal canto suo, per proteggere l’India dall’avanzata russa, il governo britannico prima contese allo zar l’influenza sul governo indipendente della Persia, crocevia fra Europa e Asia; poi, fra 1878 e 1880, combatté una seconda guerra contro l’Emirato dell’Afghanistan (dopo quella del 1839-42 finita con il ritiro da Kabul); infine, sfruttò i trattati commerciali imposti dopo le guerre dell’oppio e il sostegno offerto all’imperatore contro i Taiping [▶ cap. 12.2] per accentuare la penetrazione commerciale nell’Impero cinese.
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Nel frattempo, partendo dai territori acquisiti al tempo di Napoleone III (Cambogia e Cocincina) [▶ cap. 15.2], la Francia da un lato riunì Tahiti e le altre sue isole nel Pacifico nella Polinesia francese (1889), dall’altro usò come pretesto la tutela delle missioni cattoliche in Asia per sottrarre all’influenza cinese le regioni di Tonchino e Annam (la parte settentrionale e centrale dell’odierno Vietnam), raggruppare i suoi domini nel sudest nella Unione indocinese (1887) e poi aggiungervi il Laos (1893).

L’espansione francese non fece che contribuire a saturare il quadro geopolitico asiatico, dal momento che nel 1886 i britannici avevano annesso la Birmania settentrionale, gli spagnoli controllavano da tempo le Filippine, gli olandesi avevano l’Indonesia e i tedeschi si erano accaparrati diverse isole nel Pacifico e parte della Nuova Guinea, divisa con olandesi e britannici. Il tradizionale sistema tributario con cui l’Impero cinese aveva dominato il continente sino ad allora era ormai stato sgretolato [ 5].

Governare un impero
Sebbene coronati quasi sempre da successo, l’espansione coloniale e il controllo dei territori conquistati rappresentarono uno sforzo notevole per le potenze imperialiste. Intanto, i peculiari teatri bellici (deserti, terreni montuosi), le modalità di combattimento (guerriglia, imboscate), il valore militare e il soverchiante numero degli indigeni di tanto in tanto riuscivano ad annullare il divario tecnologico e a mettere in difficoltà i colonizzatori. Poi, gli accordi di Berlino non impedivano che a volte gli attriti fra potenze coloniali degenerassero in conflitti. Così come era accaduto fra gli ex dominatori francesi e i britannici nel Quebec prima degli anni Cinquanta. E così come accadde con la Prima guerra anglo-boera del 1880-81 in Sudafrica, che costrinse Londra a concedere grande autonomia alle due repubbliche a maggioranza  boera (il Transvaal e lo Stato libero dell’Orange) soggette alla Colonia del Capo, nel frattempo estesa anche alla regione del Natal. Infine, anche una volta ottenuto il riconoscimento internazionale della propria autorità, non di rado i colonizzatori dovettero sradicare con violente azioni di polizia militare, rappresaglie e massacri, la resistenza di popoli privi di una definita ideologia anticoloniale ma non per questo meno battaglieri [ 6].

Quasi ovunque le esigenze belliche e di controllo del territorio rendevano dunque centrale il ruolo dei militari nell’amministrare le colonie. Tuttavia, pur preferendo alcune forme di controllo ad altre, ogni potenza istituzionalizzò il proprio potere differentemente in base alla rilevanza del possedimento (i più cruciali erano di solito più presidiati), al livello di pacificazione raggiunto, all’organizzazione e al grado di centralismo delle istituzioni preesistenti, alla composizione etno-religiosa della popolazione e ai rapporti instaurati dalle comunità mercantili nazionali prima della conquista.

Centralistico era in generale il modello coloniale francese. Esso richiamava i valori universali della Rivoluzione per giustificare la propria “missione civilizzatrice”tendeva perciò a riprodurre il sistema in vigore nella madrepatria mediante la suddivisione delle colonie in unità amministrative e il loro affidamento a una burocrazia in larga parte proveniente dalla madrepatria. Non per questo, però, i francesi rifiutavano l’apporto delle élite indigene quando esse potevano garantire legittimazione al potere coloniale, una preziosa mediazione culturale e supporto militare. Allo stesso modo, lo stato di guerra permanente che caratterizzava la dominazione italiana e tedesca accentuava il ruolo dei militari nella gestione delle colonie. Ma ciò non impedì ai dominatori di scendere a compromessi con le élite locali e, all’occorrenza, di servirsene per puntellare o estendere il proprio potere sul territorio.

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La flessibilità del modello britannico
I britannici, invece, alternavano gli autogoverni responsabili delle colonie con forti insediamenti bianchi (Canada, Australia) [▶ cap. 12.2] ad altre forme di  Indirect Rule (dominio indiretto), come la penetrazione finanziaria (nei paesi sudamericani) e i vantaggiosi trattati commerciali (Cina): formule che consentivano di contenere i costi amministrativi e gli stanziamenti militari controllando le economie di paesi indipendenti, utilizzando istituzioni preesistenti, cooptando nella burocrazia parte delle élite indigene e organizzando milizie locali. Così come i livelli di coinvolgimento e di responsabilità affidate ai nativi variavano molto, altrettanto variegate erano poi le soluzioni trovate per i territori controllati più direttamente: l’occupazione militare di territori di Stati consenzienti (l’Egitto ottomano), gestioni condivise (il “condominio anglo-egiziano” nel Sudan) oppure l’annessione all’impero, come nel caso dell’India dopo la nomina di Vittoria a imperatrice nel 1876.

Proprio il caso indiano mostrava però quanto fosse flessibile l’atteggiamento britannico. Al controllo diretto di un’ampia fetta del subcontinente, i viceré e l’Indian Civil Service accompagnarono infatti una politica di accordi coi regnanti rimasti a guidare i circa 600 piccoli Stati che ancora restavano indipendenti, ponendo così definitivamente fine alle annessioni dei decenni precedenti e riconoscendo loro il rispetto promesso dal Proclama di conciliazione [▶ cap. 12.2].

Parallelamente, pur in una fase di relativa pace, l’India conobbe importanti novità. Da un lato, gli stretti contatti fra élite locali e classe dirigente europea produssero riforme importanti in campo sociale, scolastico e universitario, iniziando a modernizzare il paese e favorendo la nascita, nel 1885, di un moderno movimento nazionalista: l’Indian National Congress [▶ protagonisti]. Dall’altro lato, si acuirono sia la controversia linguistica fra parlanti hindi e parlanti urdu, sia le tensioni fra musulmani e hindu. La prima, alimentata dalle politiche ambigue tenute dai colonizzatori, vide sin dagli anni Ottanta confrontarsi i fautori dell’urdu (lingua ufficiale assieme all’inglese sin dal 1850) e i movimenti che invece rivendicavano l’uso dell’hindi, almeno nelle aree settentrionali dov’era parlato dalla maggioranza della popolazione. Le seconde si fecero via via più esplosive e, nel 1905, avrebbero portato il viceré Lord Curzon a dividere il Bengala in una parte occidentale a maggioranza hindu e in un parte orientale a maggioranza musulmana: decisione poi annullata nel 1911 su pressione dei nazionalisti indiani.

  protagonisti

L’Indian National Congress

L’Indian National Congress (Inc) fu il primo movimento nazionalista moderno emerso in seno all’Impero britannico, destinato a guidare l’India all’indipendenza nel 1947 e a influenzare altri movimenti nazionalisti e anticoloniali in tutto il mondo. Esso nacque su iniziativa dell’ex funzionario del­l’Indian Civil Service Allan Octavian Hume, convinto che la ribellione del 1857 fosse conseguenza del malgoverno britannico.

Perciò, sin dal 1883 Hume aveva cercato di sollecitare le autorità coloniali e i giovani indiani occidentalizzati a una maggiore collaborazione, allo scopo di rafforzare la dominazione britannica mediante il coinvolgimento delle élite locali filobritanniche. Un simile fine garantì al congresso fondativo dell’Inc, tenutosi a Bombay nel dicembre del 1885, la benevolenza del viceré e una nutrita quanto decisiva partecipazione tanto di riformisti indigeni quanto di giornalisti e funzionari britannici, soprattutto scozzesi e irlandesi.

Nei primi anni di vita l’Inc rimase espressione di questa ristretta élite di occidentali e occidentalizzati, ignorato dalle masse, le cui pessime condizioni di vita non costituivano un tema centrale per il movimento. Del resto, esso era avversato sia dai leader musulmani, che ne contestavano la maggioranza hindu sia dagli hindu più ortodossi, che lo consideravano uno strumento di assimilazione nelle mani dei colonizzatori cristiani.

Solo a inizio Novecento l’Inciniziò a riscuotere maggior successo e a virare verso posizioni più nazionaliste. Bal Gangadhar Tilak fu il principale fautore di questa svolta, accusando il Regno Unito di sfruttare economicamente la colonia e di distruggere la cultura indiana attraverso il sistema d’istruzione riformato dal Baron Macaulay negli anni Trenta del XIX secolo. Proprio il sorgere di questa linea indipendentista spac­cò però il movimento. Nel 1905, i moderati guidati da Gopal Krishna Gokhale e fautori del dialogo con Londra espulsero dal partito gli indipendentisti di Tilak, pronti invece alla rivolta armata. Ciò nonostante, proprio nel 1905 l’Inc fu protagonista nella cruenta fase di scontri seguita alla ripartizione del Bengala.

Fu però solo a partire dal 1915 che l’Inc giocò un ruolo decisivo nell’indipendenza indiana, quando Gokhale introdusse nel movimento il futuro leader e padre dell’India indipendente: Mohandas Karamchand Gandhi.

Società imperiali
Indipendentemente dal sistema istituzionale instaurato, nei territori d’oltremare la dominazione europea stravolse gli assetti sociali tradizionali. Se come in India alcune élite indigene e i soggetti a più stretto contatto con i coloni (impiegati, consulenti) ne trassero prestigio, conoscenze e familiarità con la modernità occidentale, il grosso della popolazione subì forme di segregazione, discriminazioni [▶ fenomeni, p. 590]. e sfruttamento che a volte raggiungeva l’eccezionale crudeltà denunciata nel Congo belga dal “rapporto Casement” [ 7].

In particolare, le donne subivano spesso violenze di natura sessuale, assoggettate come schiave da alti funzionari e comandanti o costrette alla prostituzione per mantenere alto il morale dei coloni e limitare la diffusione di malattie veneree e omosessualità: una tendenza, quest’ultima, ritenuta inaccettabile in Europa e tanto più in un mondo coloniale il cui sistema di valori e la cui gerarchizzazione interna si fondavano sulla whiteness [▶ cap. 8.1] e sulla contrapposizione fra l’eroica virilità del bianco e l’effeminata codardia del “nero” o del “giallo”. 

Attorno alle donne ruotavano perciò molte delle tensioni razziali. Sia perché gli indigeni vedevano continuamente violate le donne delle proprie comunità. Sia perché le autorità e le compagnie coloniali avevano invitato i loro dipendenti a portare con sé mogli e famiglie, sperando così di stabilizzare le comunità di connazionali e di smussare gli attriti con i nativi. Ma la progressiva femminilizzazione delle società coloniali aveva solo peggiorato la situazione. Da un lato, mogli e figlie dei colonizzatori erano costrette a convivere con il libertinaggio dei loro uomini, spesso però attribuito all’“ipersessualità” tipica delle incivili indigene. Dall’altro lato, le donne bianche diventavano a loro volta oggetto dei desideri o delle vendette dei nativi. E questo rafforzò l’autosegregazione dei coloni nelle loro roccaforti e scatenò durissime repressioni quando qualche donna bianca era importunata, rapita o stuprata [ 8].

Se dunque i pregiudizi occidentali sull’inettitudine femminile al comando relegavano le donne europee a ruoli domestici anche in colonia, ipocritamente i conquistatori sfruttarono proprio il trattamento riservato alle donne nelle tribù indigene come prova della brutale arretratezza dei popoli sottomessi e, quindi, come argomento per giustificare i tentativi di regolamentarne la sfera intima.

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Le forme di assimilazione imposte ai nativi riguardarono infatti anche norme sul matrimonio, comportamenti sessuali e strutture familiari, oltre all’abbigliamento, ai modelli di socialità, ai gusti, ai percorsi formativi e alla lingua. Essendo un fattore determinante per assicurare ai dominatori il controllo sui colonizzati, la lingua dei colonizzatori era infatti spesso imposta come lingua ufficiale dello Stato e della scolarizzazione, finendo per diventare la  lingua veicolare anche per la stessa cultura indigena. Eppure, nella stragrande maggioranza di questi ambiti l’assimilazione andò di pari passo con forme di ibridazione, prodotte non solo dal contatto fra colonizzatori e colonizzati, ma anche dei sempre più massicci flussi migratori fra imperi diversi e all’interno dello stesso impero (soldati inviati in missione, lavoratori in cerca di impiego, personale al seguito degli europei) [▶ oggetti].

  fenomeni

Il diritto coloniale

L’espansione coloniale tardo-ottocentesca e il diritto che i dominatori stabilivano in colonia si fondavano sull’idea che i popoli selvaggi fossero “popoli-fanciulli” e che quindi la loro tutela rappresentasse un diritto/dovere dei popoli civili.

Perciò, il problema giuridico di fondo dell’espansione coloniale era la creazione di un diritto per le colonie diverso da quello vigente nelle madrepatrie, che si fondasse sul “principio di eccezione”.

Innanzitutto gli indigeni non erano cittadini ma sudditi, salvo i colonizzati dal Portogallo, cui era stata estesa la cittadinanza sin dal 1826, e gli algerini, che in teoria potevano diventare cittadini francesi dimostrando di essersi civilizzati (e allora si parlava di “evoluti”).

In secondo luogo, in colonia esistevano sistemi giuridici separati: uno per i bianchi e uno per gli indigeni. Quest’ultimo era di solito più duro e fondato su concezioni razziste, prevedendo per esempio la pena di morte e altre pene corporali abolite in patria ma ritenute utili per sanzionare sudditi coloniali ritenuti capaci di comprendere solo le punizioni fisiche.

Infine, la giustizia che si praticava in colonia spesso non rispettava norme prestabilite ma era di carattere pragmatico, cioè le norme si costruivano caso per caso non derivando da leggi ma dall’esperienza. Ciò sia perché i giudici coloniali (spesso non magistrati professionisti ma funzionari governativi) volevano ampia discrezionalità; sia perché si pensava che un diritto più flessibile e più vicino al tradizionale sistema delle norme consuetudinarie vigenti in molte tribù avrebbe facilitato la loro lenta transizione verso forme di giustizia più evolute.

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  oggetti

La “tipica” cucina coloniale

La reciproca influenza fra culture di coloni e colonizzati era particolarmente evidente in cucina. Erano molti i piatti “tipici” europei in realtà di origine extraeuropea, così come vari cibi oggi diffusi nelle ex colonie devono molto a prodotti, tecniche di cottura e gusti dei dominatori.

Nell’Impero britannico, per esempio, l’interazione fra inglesi, indigeni e altri sudditi imperiali produsse condimenti come il chutney (salse agrodolci a base di spezie, verdura e/o frutta), zuppe come la mulligatawny (cui i coloni aggiunsero i pezzi di carne prima assenti) e pietanze simbolo della cucina anglo-indiana come il curry e il kedgeree: inizialmente composto di riso e legumi, poi divenuto nel Regno Unito vittoriano parte della prima colazione e infine trasformato in un piatto di pesce affumicato, riso bollito, uovo sodo, burro, prezzemolo, curry in polvere e uva sultanina.

Rielaborare ricette indigene era però anche un esercizio di potere.Per esempio, il rijsttafel era un piatto semplice a base di riso assai comune fra gli indonesiani. Ma i colonizzatori olandesi lo arricchirono con portate a corredo e iniziarono ad accompagnarlo con bibite nazionali come la birra Heineken, pubblicizzata come l’unica adatta ad esaltarne i sapori. Ciò certo per adattarlo ai gusti europei attraverso aggiunte “non-indonesiane” (la banana fritta, considerata dagli indigeni un frutto inferiore), ma anche per ostentare la ricchezza dei dominatori tanto nel numero e nel costo degli elementi aggiunti quanto nel modo in cui essi erano consumati, ossia con le posate piuttosto che con le mani. Non a caso un piatto di accertata origine indonesiana come il rijsttafel sparì dalla cultura culinaria nazionale una volta che l’Indonesia ottenne l’indipendenza nel 1945.

Le cucine coloniali si configuravano così quasi sempre come il frutto di ibridazioni e scambi continui, che riguardavano anche modi e tempi di consumazione, le bibite di accompagnamento o il posto all’interno del menu.

Storie. Il passato nel presente - volume 2
Storie. Il passato nel presente - volume 2
Dal 1715 al 1900