19.3 L’Impero cinese

19.3 L’Impero cinese

L’Impero cinese dopo la rivolta dei Taiping
L’espansione europea non solo sottrasse all’influenza cinese diverse aree, ma intaccò sempre più l’integrità territoriale e l’autonomia dello stesso  Impero Celeste.

Sopravvissuta alla rivolta dei Taiping [▶ cap. 12.2] solo grazie al sostegno di quelle stesse potenze che le avevano imposto asimmetriche relazioni commerciali, la dinastia Qing comprese l’urgenza di riformare il paese e avviò la cosiddetta “Restaurazione Tongzhi” (dal nome del sovrano salito al trono nel 1861): un programma sostenuto dagli alti funzionari membri del Movimento di autorafforzamento, che mirava a consolidare il potere imperiale all’interno e all’esterno mediante l’acquisizione di tecnologie e conoscenze occidentali. Esso prevedeva dunque un miglioramento dei rapporti con le potenze europee e un conservatorismo illuminato fondato sul confucianesimo, sulla cultura tradizionale, sulla militarizzazione della società e sulla combinazione di un più efficace potere centrale con il ristabilimento di comunità di villaggio a responsabilità collettiva guidate da élite nobiliari locali.

L’idea di «servirsi dei barbari contro i barbari», colmando il divario tecnologico attraverso i contatti con l’Europa ma valorizzando al contempo le risorse del paese, non era né nuova né peregrina. Anche grazie a una burocrazia competente perché assunta tramite concorsi selettivi, lo Stato cinese esercitava infatti una vasta gamma di funzioni, seppur spesso per vie informali o delegandole a privati: la costruzione e la manutenzione delle infrastrutture (strade, canali per l’agricoltura); l’amministrazione di giustizia e fiscalità; gestione dell’ordine pubblico, rigorosa nel reprimere le manifestazioni di dissenso, le numerose  sette millenaristiche, le associazioni eversive nonché i disordini generati dalle rivalità intercomunitarie; l’assistenza, limitata dal deficit del bilancio ma ancora composta da prestiti, prezzi calmierati, distribuzione gratuita di generi alimentari e da una rete di granai pubblici; infine, una forte spinta propulsiva all’industrializzazione, promossa negli anni Sessanta per lo più da imprese pubbliche e poi affidata invece a imprenditori privati sottoposti alla supervisione governativa, sostenuti mediante finanziamenti e commesse.

Un contesto difficile: sovrappopolazione e natura
Ciò a cui lo Stato non riusciva però a far fronte era il notevole incremento demografico, che già a metà Ottocento aveva portato la popolazione oltre i 400 milioni di persone e che alimentava le rivolte contadine contro i proprietari terrieri, gli abusi delle autorità locali nell’amministrare le terre e la corruzione fra i magistrati chiamati a decidere i contenziosi. Per rispondere alla pressione demografica si favorì l’emigrazione negli Stati Uniti [▶ cap. 18.3]; si aumentò la già vasta superficie coltivata; si sostituirono coltivazioni intensive alle estensive; si scelsero qualità di riso più resistenti; si diffusero nuove colture (mais, patata) e si adottarono tecniche già note che compensassero l’assenza di innovazioni tecnologiche. Tuttavia alcune di esse, come il sistema dell’incendio e i disboscamenti, rendevano sì coltivabili e particolarmente fertili nuovi terreni, ma nel medio periodo vi accentuavano le conseguenze dei fenomeni climatici e li depauperavano al punto da costringere i coloni a spostarsi ogni 4-5 anni, pregiudicando il controllo dello Stato sulle masse contadine e alimentando gli attriti intercomunitari [▶ fenomeni].
La società cinese restava infatti in larghissima parte rurale, chiusa e segnata da una mobilità sociale legata quasi solo ai concorsi nella pubblica amministrazione. Il grosso della popolazione viveva in villaggi organizzati come unità produttive e di consumo in larga parte autosufficienti, con scarsa differenziazione di funzioni fra i membri, controllate da uno o più clan e articolate in famiglie patriarcali poligamiche (soprattutto nei ceti abbienti capaci di mantenere le concubine), improntate ai valori del confucianesimo e tradizionalmente fondate sul rispetto per l’autorità paterna e statuale.

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A fare eccezione erano solo i grandi centri urbani e i borghi vicini. Le principali città coincidevano per lo più con i porti aperti dai “trattati ineguali”, dove la preminenza socioeconomica dei mercanti europei stava disarticolando i precedenti equilibri sociali, favorendo la crescita degli indigeni loro legati (interpreti, mediatori, impiegati) e rovinando piccoli operatori e ricchi mercanti cinesi, sostituiti da nuove élite locali desiderose di occidentalizzarsi. I villaggi attorno ai grandi centri vedevano invece spesso i loro contadini costruire strutture familiari meno rigide e alternare lavoro nei campi, industria a domicilio e impieghi stagionali in città.

  fenomeni

Il Niño

I progressi della scienza e la capillare presenza europea sul pianeta consentirono di cogliere meglio gli effetti di alcuni fenomeni climatici periodici come il rapido riscaldamento del Pacifico tropicale orientale (“El Niño”), causa di siccità in Asia, Africa e Americhe, o il suo raffreddamento (“La Ni­ña”), responsabile di grandi inondazioni. Queste catastrofi produssero fra i 31 e i 61 milioni di morti solo fra il 1876 e il 1902: la carestia del 1876-79 in Cina settentrionale (8-20 milioni), le annate aride del 1889-91 in India, Brasile, Impero russo, Etiopia e Sudan (fino a un terzo della popolazione morta); la siccità del 1896-1902 nei Tropici e nel nord della Cina, oltre alle 18 carestie registrate in India per un totale di circa 26 milioni di vittime.

Alcune di queste tragedie favorirono la colonizzazione fiaccando la resistenza indigena o acuendo le lotte interne. In altri casi, esse furono sfruttate dai colonizzatori come strumento di controllo demografico dei popoli sottomessi o come occasioni di ritorsione, acuendone la gravità con prelievi extra di derrate da destinare alla madrepatria.

Più spesso, però, esse furono semplicemente ignorate dalle autorità coloniali, che anche di fronte a simili drammi seguitarono a far sì che il grosso della produzione agricola di queste aree fosse destinato all’esportazione lungo i cir­cuiti commerciali globali in cui le colonie erano ormai inserite. Ciò sia per rispetto dei principi liberisti sia per le pressioni governative sia per non intaccare gli interessi degli influenti mercanti europei e indigeni coinvolti in questi traffici.

Forze centrifughe interne e penetrazione straniera
Oltre al malcontento contadino, all’ampiezza del territorio e ai problemi ambientali, a pregiudicare la modernizzazione della Restaurazione Tongzhi fu la crescente autonomia che le élite locali stavano guadagnando grazie al ruolo giocato nell’organizzazione delle milizie provinciali, nella gestione dei sistemi di responsabilità collettiva e nell’opera di ricostruzione necessaria dopo le devastazioni prodotte dalla rivolta Taiping. Si trattava di gruppi diversi fra loro e compositi al loro interno, ma accomunati dalla ricchezza e dalla capacità di sfruttare logiche clientelari, etniche e di clan per smarcarsi dal controllo dei funzionari governativi e cavalcare la sempre più diffusa avversione alla dinastia Qing, mal tollerata da cinesi e mongoli in quanto straniera (di etnia manciù) e accusata di aver indebolito il paese perdendo le guerre dell’oppio e reprimendo nel sangue la rivolta Taiping.

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Su queste difficoltà si innestò l’accelerazione imperialista dell’ultimo quarto di secolo, che impose all’impero la presenza russa in Manciuria e sulle coste del Mar del Giappone, l’apertura di nuovi porti agli stranieri (1876), l’acquisizione britannica della Birmania settentrionale (1886), l’occupazione francese dell’intero Vietnam (1885) e del Laos (1893), nonché la disfatta nella guerra contro il Giappone del 1894-95 [ 9].

Sconfitti da un ex Stato tributario che già aveva annesso le isole Rkyū nel 1879, i Qing furono costretti ad accettare condizioni di pace durissime: il riconoscimento dell’indipendenza della Corea prima loro vassallo; la cessione dell’isola di Taiwan, delle isole Pescadores e della penisola del Liaodong (rimasta poi alla Cina per l’intervento congiunto di alcune potenze europee); l’apertura di altri quattro porti al commercio giapponese, ora avvantaggiato dallo status di “nazione più favorita”; un risarcimento di oltre 200 milioni di tael d’argento, per cui il governo dovette contrarre un prestito di circa 400 milioni garantito con la cessione al Regno Unito degli introiti derivanti dai dazi doganali.

Il danno economico e morale derivante da una simile umiliazione pose fine alla fase riformista dell’“autorafforzamento” e aprì il dibattito su come risollevare il paese. I cosiddetti “funzionari puri” si ostinavano a rifiutare ogni compromesso con civiltà ritenute inferiori, mentre gli “occidentalisti” proponevano al contrario di sostituire le retrograde istituzioni e culture cinesi con quelle occidentali, alla base della potenza europea e statunitense.

A interpretare il sentire popolare furono però i nazionalisti antioccidentali, strenui nemici non solo degli invasori europei e giapponesi, di cui riconoscevano però la superiorità economico-militare, ma anche della dinastia manciù, ritenuta loro complice. E tanto più questa impressione si diffuse nel paese e si rafforzò con la cosiddetta “Nota della porta aperta” (Open Door Note): un accordo siglato nel 1899 su proposta statunitense per regolare politiche doganali, trasporti ferroviari e sfere di influenza delle varie potenze nell’area senza nemmeno interpellare il governo cinese.

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19.4 L’imperialismo statunitense

Dottrina Monroe ed eccezionalismo democratico
Fino agli anni Novanta l’espansionismo statunitense restò parallelo e in parte diverso da quello europeo. Intanto si limitava al continente americano e al Pacifico, in nome della dottrina Monroe [▶ cap. 8.2] [ 10] e per evitare conflitti con altre potenze militarmente superiori. Poi, era attento a ribadire il proprio eccezionalismo democratico, evitando l’uso della forza e condizionando sia governi stranieri indipendenti (Argentina, Brasile, Impero giapponese) sia colonie altrui (la Cuba spagnola) grazie alla superiorità tecnologica, agli investimenti e a trattati commerciali: un modo anche per non contrariare gli influenti strati dell’opinione pubblica favorevoli all’isolazionismo e per non aprire nuove, complesse e delicate questioni razziali annettendo popolazioni non bianche.

Un cambio di rotta si registrò però a partire dal 1895, sollecitato da più fattori convergenti: l’instabilità del quadro politico interno, scosso dal successo del Partito del popolo [▶ cap. 18.3]; le denunce degli eugenisti circa il rischio che gli americani, rammolliti dall’eccessivo benessere, perdessero la lotta per la sopravvivenza contro le emergenti razze asiatiche; la convinzione che solo un’aggressiva politica navalista potesse arginare il terribile espansionismo europeo [ 11].

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La prima occasione per mostrare i muscoli agli europei fu il contenzioso del 1895 fra il Regno Unito e il Venezuela per il controllo delle miniere d’oro al confine fra lo Stato sudamericano e la Guyana britannica. Dando un’interpretazione estensiva della dottrina Monroe, il presidente americano Cleveland minacciò di tracciare arbitrariamente il confine se i litiganti non avessero accettato l’ arbitrato statunitense, cosa che essi fecero riconoscendo così agli Usa il diritto di interferire nelle questioni del continente.
La Guerra ispano-americana
La volontà egemonica degli Stati Uniti divenne ancor più evidente nel 1898, quando intervennero a sostegno della rivolta antispagnola a Cuba. In precedenza gli Usa avevano negato il loro sostegno alle sollevazioni indipendentiste divampate sull’isola nel 1868 e nel 1878, preoccupandosi solo di ottenere garanzie per gli interessi delle aziende statunitensi. L’insurrezione scoppiata nel 1895 era però forte di 50 000 uomini e l’atteggiamento ondivago del governatore spagnolo aveva finito per scontentare tutti: sia le corporation statunitensi, che finanziavano una martellante campagna interventista per salvaguardare i propri affari sull’isola; sia la popolazione locale e le opinioni pubbliche liberali, inorridite dalle stragi e dalle de­portazioni di interi villaggi in campi di concentramento (i primi della storia) attuate per sottrarre agli insorti il sostegno delle masse rurali; sia i lealisti filospagnoli, che nelle autonomie accordate all’isola a fine 1897 videro l’incapacità di Madrid nell’imporsi e miravano perciò all’indipendenza.

Temendo l’intrusione di altre potenze e certo che i Borbone avrebbero perso l’isola, tanto più dopo lo scoppio nel 1896 di un’analoga insurrezione nelle Filippine, il presidente McKinley sfruttò l’affondamento di una corazzata statunitense per lanciare un ultimatum che chiedeva un armistizio e l’apertura di una trattativa con mediazione statunitense. Il governo spagnolo esitò a rispondere, mentre gli insorti proseguirono le operazioni militari. Così, il 21 aprile 1898 l’esercito statunitense fu mobilitato in fretta ricorrendo anche a reggimenti irregolari (uno dei quali guidato dal futuro presidente Theodore Roosevelt) e dette avvio alla Guerra ispano-americana. Il conflitto si concluse circa tre mesi dopo con l’occupazione della strategica isola di Portorico e la resa spagnola nelle Filippine e a Cuba. Fu un’affermazione netta per gli Stati Uniti, dovuta certo alla superiorità navale ma non di meno a irregolari e indipendentisti cubani. Proprio il contributo decisivo offerto dagli indigeni dimostrava però come il conflitto fosse stato meno facile di quanto volle far credere la retorica dei vincitori, che la celebrò come una “splendida, piccola guerra”.
La Spagna dopo il 1898
A dicembre Spagna e Stati Uniti siglarono a Parigi la pace, che prevedeva l’indipendenza di Cuba e la cessione agli Usa di Portorico, dell’isola di Guam (presto trasformata in base militare nel Pacifico) e delle Filippine (per 20 milioni di dollari).

Anche se i capitali rientrati dalle Americhe (circa il 25% del pil annuale) contribuirono nei decenni successivi a un primo slancio industriale della Spagna, “El Desastre” (Il Disastro) del 1898 fu un trauma. Sia perché uno dei più vasti imperi dell’età moderna conservava ormai solo un pezzo di Guinea, una parte di Sahara, le coste del Marocco e le Canarie. Sia perché la sconfitta intaccò la credibilità di un re già traballante, contestato da socialisti e anarchici che iniziavano a far breccia fra le masse contadine, dai democratici avversi alla restaurazione monarchica del 1874 [▶ cap. 9.1] e da vivaci movimenti culturali come la cosiddetta “Generazione del ‘98”: un variegato gruppo di intellettuali progressisti che riflettevano sull’identità spagnola, conducevano una spietata critica sociale e aspiravano a una politica capace di superare la crisi e condurre il paese alla modernità.

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Gli Stati Uniti: impero fra gli imperi
Per Washington il problema principale era la gestione di Cuba, il cui possesso era da decenni un obiettivo statunitense. L’annessione era però una soluzione impraticabile. Sia perché la rivolta aveva reso Cuba uno Stato indipendente e annetterlo avrebbe contraddetto gli accordi di pace con la Spagna. Sia perché l’annessione avrebbe comportato la necessità di estendere la cittadinanza statunitense alla sua popolazione, in maggioranza non bianca: un’ipotesi mal vista dalla classe dirigente statunitense, già alle prese all’interno con le rivendicazioni emancipazioniste degli afroamericani.

Fu perciò lasciato sull’isola un folto contingente militare, col pretesto di garantirne la stabilità ma instaurando così un protettorato di fatto, che vincolava il ritiro delle truppe a condizioni capestro: il divieto di alleanze e indebitamento con altri paesi; la concessione di una base nella baia di Guantanamo e l’accettazione di un evidentemente pretestuoso diritto d’intervento statunitense a tutela dell’indipendenza cubana. Il movimento indipendentista cubano protestò, ma alla fine cedette e incorporò tali vincoli nella Costituzione della nuova Repubblica cubana (1901).

Diverso fu l’atteggiamento di Washington nei confronti dei filippini. Qui gli statunitensi repressero la locale guerriglia indipendentista facendo 220 000 vittime e dichiararono le Filippine territorio “non organizzato” esterno all’Unione. Ciò consentì di garantire a una popolazione etnicamente disomogenea i “diritti naturali” dovuti a tutti gli individui sotto il controllo americano, ma di negarle “diritti storici” come cittadinanza e voto, riservati ai popoli sufficientemente civili.

L’acquisizione delle Filippine proiettava gli Usa verso le coste asiatiche, rafforzando l’esigenza di avere basi nel Pacifico per controllare le vie di comunicazione. Perciò, essi prima annessero le Hawaii (1898), poi si spartirono con l’Impero tedesco le isole Samoa (1899) e infine occuparono l’isola di Tutuila (1900) [ 12].

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Parallelamente, si apriva un’altra via di accesso all’immenso mercato cinese, approcciato negli anni Quaranta al traino del Regno Unito [▶ cap. 18.4] e ora messo a rischio dal rinnovato attivismo europeo e dall’aggressivo espansionismo giapponese. Washington avviò dunque una politica più attiva in Cina, giustificandola con il filantropico intento di «destare le nazioni dormienti e indolenti dell’Oriente» e di proteggere le missioni protestanti nordamericane. Tuttavia, i recenti impegni militari e i rapporti di forza nella regione sconsigliavano contrapposizioni con i concorrenti e suggerivano di connotare in senso antimperiale il nuovo imperialismo statunitense, riaffermandone la natura commerciale e attribuendo agli Stati Uniti il ruolo di coordinatori di un’azione internazionale che stemperasse gli antagonismi e garantisse a ognuno i vantaggi sperati. Perciò nel 1899, come abbiamo appena visto, la Casa Bianca propose alle altre potenze la “Nota della porta aperta” [ 13], un accordo che individuava nel rispetto degli “interessi acquisiti” nelle rispettive sfere d’influenza e in un’applicazione uniforme dei dazi le condizioni per «rimuovere le cause d’irritazione e assicurare al tempo stesso il commercio di tutte le nazioni in Cina».

Pur riluttanti, Regno Unito, Repubblica francese, Impero russo, tedesco e giapponese firmarono la nota, convinti delle sue modeste ripercussioni ma riconoscendo così agli USA un ruolo paritario in una regione dove erano sempre stati semplici comprimari. A inizio Novecento gli Stati Uniti erano dunque entrati a pieno titolo fra le grandi potenze imperialiste.

19.5 Il declino del Giappone Tokugawa

L’implosione di un paese arcaico
Connessa all’imperialismo statunitense fu la modernizzazione e l’affermazione dell’Impero giapponese.

Quello cui gli americani avevano imposto l’apertura all’Occidente negli anni Cinquanta [▶ cap. 18.4] era infatti un paese in crisi. Il sistema politico-istituzionale era ancora articolato secondo uno schema vagamente feudale. Al vertice c’era l’imperatore, che però da tempo era in realtà ridotto a figura di rappresentanza. Nel governo lo sostituiva lo  shōgun, dal 1603 appartenente alla lunga dinastia Tokugawa. Questi era tuttavia ormai incapace di controllare i circa 300 grandi signori terrieri con ampie deleghe amministrative e giurisdizionali (daimyō), che avevano al proprio servizio oltre 600 000 samurai: piccoli nobili un tempo guerrieri e ora per lo più impiegati nelle amministrazioni locali o inurbati a guadagnarsi da vivere come burocrati e intellettuali.

Le difficoltà nell’amministrare la cosa pubblica e le province contribuivano all’arretratezza economica e infrastrutturale di un paese che aveva ereditato dal XVIII secolo stabili relazioni commerciali nella regione e un incremento della produttività agricola e protoindustriale, ma che restava appena lambito dall’industrializzazione, escluso dai circuiti internazionali e privo di organiche politiche di sviluppo. Povertà e arbitri dei daimyō esasperavano poi il malcontento contadino, che trovava espressione in endemiche rivolte e nella proliferazione di potenti sette religiose messianiche. Ciò mentre la tradizionale gerarchizzazione delle classi relegava mercanti e negozianti ai livelli più bassi della scala sociale indipendentemente dalla loro ricchezza, e molti samurai lamentavano la perdita di prestigio causata dall’abbandono della carriera militare e dai modesti stipendi percepiti.

Penetrazione occidentale e caduta dei Tokugawa
Ad aggravare la situazione vi erano i reiterati tentativi occidentali di penetrazione commerciale e il monito rappresentato dalla sconfitta del grande Impero cinese nella Prima guerra dell’oppio [▶ cap. 9.4]. Il senso di impotenza di fronte alla superiorità tecnologico-militare delle potenze europee stimolò un acceso dibattito. Da un lato le polemiche antioccidentali si sommarono a quelle contro il neoconfucianesimo di derivazione cinese adottato dai Tokugawa, costituendo un unico discorso a difesa del patrimonio culturale e religioso tradizionale. Dall’altro lato, si fece strada l’idea di sfruttare le risorse disponibili (omogeneità etnica, tradizione artistico-letteraria, lunga storia comune, shintoismo) e l’inevitabile contatto con gli occidentali percostruire una solida identità nazionalegiapponese e un’ideologia nazionalista capace di sradicare le dottrine straniere (soprattutto il buddismo) e di costituire la base di un rinnovato “sistema nazionale” guidato da un imperatore di nuovo capo effettivo del paese.

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Lo sbarco americano del 1853 non giunse dunque inatteso [▶ cap. 18.4]. Ma la sua maldestra gestione da parte dello shōgun Tokugawa e i successivi accordi siglati con britannici, olandesi e russi accentuarono le divisioni sia fra lo shōgun e i daimyō sia fra antioccidentali e fautori di una totale apertura.
Le divisioni divennero spaccature insanabili nel 1858, quando i Tokugawa accettarono i “trattati ineguali” proposti dagli Stati Uniti e poi da altre potenze [▶ cap. 18.4]. I limiti imposti alla sovranità dello Stato nipponico dalla presenza in tutti i porti di stranieri  extragiurisdizionali e dall’obbligo di garantire ai nuovi partner commerciali lo status di nazione più favorita furono vissuti dalla popolazione come un’umiliazione e un grave danno all’economia nazionale. Ne derivò un’ondata di proteste xenofobe e azioni terroristiche ai danni di membri del governo e cittadini esteri, cui lo shōgun e le potenze europee reagirono con violenza.

A quel punto, contro i Tokugawa si coalizzarono soggetti diversi ma accomunati dalla volontà di ridimensionare il potere shogunale in favore di quello imperiale e di costituire la classe dirigente di un paese rinnovato e rinforzato. C’erano mercanti urbani e contadini ricchi delle zone aperte al commercio, scontenti per le politiche economiche del regime. C’erano l’aristocrazia di Corte, le élite militari e le burocrazie locali, legate ai valori tradizionali che ritenevano traditi dallo shōgun con l’apertura agli occidentali e la marginalizzazione della sacra figura dell’imperatore. E c’erano molti daimyō, fra cui i due più potenti feudi del Giappone occidentale (Chōshū e Satsuma) armati dal governo britannico in risposta alla scelta dello shōgun di accettare l’aiuto francese per avviare la modernizzazione del paese.

Fu dunque questo eterogeneo gruppo di ribelli a proclamare la Restaurazione del potere imperiale (3 gennaio 1868), abolire lo shogunato e vincere la guerra civile contro le truppe fedeli ai Tokugawa (giugno 1869).

19.6 Il Giappone Meiji

L’autoritaria oligarchia Meiji e la modernizzazione politico-istituzionale
Ancor prima che la guerra terminasse, il nuovo governo e la corte imperiale s’insediarono a Edo (ribattezzata Tokyo). Ebbe così inizio la cosiddetta “Restaurazione Meiji”, una fase di “governo illuminato” in cui il neoimperatore Mutsuhito, restaurato nelle sue prerogative a lungo rimaste lettera morta, edificò uno Stato moderno e centralizzato, costruì una coesa nazione giapponese, industrializzò il paese e lo trasformò in una potenza imperialista, concretizzando lo slogan “Ricco il paese e forte l’esercito”.
Il primo passo fu l’abolizione dei feudi e la loro sostituzione con un sistema di province guidate dai daimyō. Questi rinunciarono spontaneamente alle loro prerogative per diventare governatori di nomina imperiale sottoposti al ministero degli Interni, ricevendo in cambio lauti stipendi, titoli nobiliari e la disponibilità dello Stato ad accollarsi sia le paghe dei samurai al loro servizio sia i debiti accumulati dai feudi sino ad allora. Parallelamente, il bisogno di consenso spinse il nuovo regime a blandire anche i samurai e i capi villaggio. Ai primi furono garantiti impieghi nella burocrazia periferica o una ricca buonuscita per avviare attività produttive: un’operazione riuscita però solo in parte, motivo di rivolte da parte dei samurai più attaccati all’antico status guerriero o falliti a causa dello scarso senso imprenditoriale. Ai secondi fu invece offerta l’opportunità di partecipare alla vita politica del paese mediante l’istituzione di assemblee locali con funzione consultiva.

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L’impianto politico-istituzionale delineato dalla Costituzione del 1868 restava però lontano dai sistemi occidentali e si configurava semmai come un delicato equilibrio fra la teocrazia ancora apprezzata dall’aristocrazia cortigiana, il conservatorismo degli oligarchi delle quattro province principali che avevano guidato la rivolta anti-Tokugawa e le spinte moderatamente liberali dei settori più progressisti della classe dirigente. Ne veniva fuori un profilo istituzionale compromissorio ma nel complesso conservatore, che accentuò il suo carattere illiberale e non democratico nei decenni successivi.

Nel 1883 una stretta fu imposta all’attività dei partiti, mentre i principali esponenti delle forze liberali di opposizione venivano cooptati nel governo per depotenziarne la polemica antigovernativa in cambio di qualche concessione minore. Nel frattempo, furono intensificati tanto la repressione poliziesca del dissenso quanto l’opera di indottrinamento delle masse. Infine, una nuova Costituzione fu promulgata nel 1889. Si trattava della prima Carta moderna adottata in Asia e aveva il merito di fondare un vero Stato di diritto. Ma veniva pur sempre presentata come dono dell’imperatore, ribadendo come la modernizzazione politica giapponese fosse una “rivoluzione dall’alto”, che non ammetteva né democrazia né spazio politico per i ceti emergenti [ 14].

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Lo sviluppo sociale ed economico
Alla modernizzazione istituzionale la Restaurazione Meiji associò radicali riforme socioeconomiche tese a concretizzare un altro slogan caro al governo, “civiltà e progresso”: riorganizzò l’articolazione della società in classi facendo confluire contadini, artigiani, mercanti e samurai di basso rango nella categoria della “popolazione comune” (heimin); furono concesse libertà di movimento, matrimonio e scelta professionale indipendentemente dalla classe di appartenenza; fu abolito il divieto di compravendita delle terre agricole e furono introdotti l’obbligo scolastico e il servizio militare. Questi provvedimenti ebbero effetti molto positivi. Benché osteggiata dai contadini danneggiati dall’arruolamento e dai samurai privati delle loro tradizionali prerogative in ambito militare, la coscrizione consentì la creazione di un moderno esercito regolare. Inoltre, la popolazione aumentò da 30 a 54 milioni fra il 1860 e il 1914; la vendibilità delle terre aprì la strada a un capitalismo agrario; la libertà di movimento favorì l’incontro fra domanda e offerta di lavoro e una società meno rigidamente gerarchizzata stimolò sia lo spirito d’iniziativa sia una mobilità sociale prima inammissibile.
In un paese privo di tradizione imprenditoriale, ancora largamente agricolo e bisognoso d’importare tecnologie e materie prime, decisivo per la rapida crescita economica fu però l’intervento pubblico. Lo Stato riorganizzò il sistema bancario e la fiscalità, quest’ultima in base a un nuovo catasto e a una tassa fondiaria ora inividuale, indipendente dall’andamento del raccolto ed esatta direttamente dallo Stato. Ciò fece aumentare il gettito fiscale, compensò le accresciute spese amministrative e militari e favorì sia l’ampliamento delle superfici coltivate sia la concentrazione delle terre in competitive aziende che trovavano manodopera a basso costo nei tanti piccoli proprietari costretti a vendere i loro appezzamenti perché incapaci di pagare le imposte.

Parte degli introiti fiscali fu usata per costruire una moderna rete infrastrutturale e per avviare settori industriali come la cantieristica, il metalmeccanico e il siderurgico, militarmente strategici e quindi gestiti direttamente dallo Stato. Parallelamente, fra il 1881 e il 1885 il governo cedette a prezzi favorevoli le imprese attive in altri ambiti a capitalisti privati, sperando così di stimolare la formazione di una classe imprenditoriale autoctona. L’operazione finì però per favorire i “mercanti politicamente protetti”, per lo più arricchitisi già in epoca Tokugawa e vicini al potere al punto da poter dar vita a concentrazioni societarie industriali e finanziarie simili a quelle tedesche e statunitensi [▶ capp. 16.4 e 18.3]. E furono questi colossi a “protezione indiretta” che, sfruttando anche il basso costo del lavoro e spinti dai consumi interni assai contenuti per i modesti salari e la forte pressione fiscale, poterono destinare il grosso della loro produzione all’esportazione. Il che consentì all’Impero giapponese di compensare le massicce importazioni di prodotti ad alto contenuto tecnologico, proiettando il paese fra le grandi potenze industriali aderenti al Gold standard.

L’Occidente a oriente
I frequenti viaggi di delegazioni giapponesi in Europa, i numerosi esperti stranieri invitati in Giappone, i contatti commerciali ormai costanti, la traduzione dei classici europei e il rapido ridursi del divario con le principali potenze ridefinirono i rapporti con l’Occidente. I migliori intellettuali e la classe dirigente Meiji si convinsero che l’occidentalizzazione non fosse un valore o un fine in sé, quanto il migliore strumento per rafforzare l’impero al punto da consentirgli non solo di resistere alle pressioni esterne ma di imporre in tutta l’Asia le proprie tradizioni e i sentimenti antioccidentali ancora diffusi in larghi strati della società giapponese.

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Non a caso la massiccia opera di nazionalizzazione posta in essere dalle autorità sfruttava agenzie e meccanismi mutuati dall’Impero tedesco e dalla Repubblica francese (scuola, coscrizione), ma fondava il nascente nazionalismo nipponico sull’unicità e sulla natura divina del popolo giapponese, sull’idea dello Stato come armoniosa famiglia sottoposta all’autorità “suprema e sacra” dell’imperatore e sulla religione shintoista, elemento al contempo di coesione interna e di distinzione da altri popoli asiatici. Spirito giapponese, sapere occidentale” divenne così il motto di un popolo che, a fine Ottocento, era ormai una nazione pronta a diventare una potenza imperialista.

L’imperialismo giapponese
In realtà, fare dell’espansionismo in Asia uno strumento di prestigio internazionale e una garanzia contro le mire del potente vicino cinese era un’idea che l’Impero giapponese aveva sin dall’epoca Tokugawa. Tuttavia, si dovette attendere il rafforzamento economico e militare prodotto dalla Restaurazione Meiji per avviare una più attiva politica estera, utile anche a convogliare verso un nemico esterno l’insoddisfazione di parte delle élite militari tradizionali (samurai e daimyō) per le prerogative perdute.

Fu dunque in questa prospettiva che, nel 1869, l’impero annetté l’isola di Hokkaido e poi, nel 1874, inviò una spedizione militare a Taiwan col pretesto di vendicare l’uccisione di alcuni marinai. Negli anni successivi, furono poi prese prima le isole Kuril (1875) e poi le Rkyū (1879), mentre nel 1876 fu imposta con la forza l’apertura di alcuni porti coreani ai commerci nipponici. Tutto questo attivismo inasprì i rapporti con l’Impero cinese, ma in fondo si trattava di azioni dagli effetti territoriali assai modesti. Ciò sia per il timore di reazioni da parte delle potenze europee sia per la paura che un eventuale rovescio intaccasse la credibilità della classe dirigente Meiji e ponesse fine alle sue riforme [ 15].

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Eppure l’espansionismo era un obiettivo largamente condiviso nella società giapponese. Tanto più che, a metà anni Ottanta, forti si levavano nel paese le voci di chi attribuiva a un Giappone ormai “occidentale” un ruolo civilizzatore in Asia: un argomento che si abbinava alle teorie politiche che legittimavano la conquista di aree strategiche, distinguendo la “sfera della sovranità” costituita dal territorio nazionale dalla “sfera di interesse nazionale” comprendente almeno Taiwan e la Corea.

Forte anche del sostegno dei più influenti imprenditori del paese, interessati alle commesse militari e ai nuovi possibili mercati, a partire dagli anni Novanta il governo nipponico ruppe gli indugi e si lanciò in diverse operazioni. Nel 1891 conquistò le isole Nanpō. Poi, fra il luglio 1894 e l’aprile 1895 sconfisse la Cina, dettando condizioni di pace molto dure, che significativamente si rifacevano ai “trattati ineguali” imposti all’Impero Celeste dalle potenze occidentali.

Come detto in precedenza, l’Impero giapponese ottenne il riconoscimento cinese dell’indipendenza della Corea, la cessione di Taiwan e delle isole Pescadores, la condizione di “nazione più favorita” e un risarcimento tale da rimpinguare le riserve di metalli preziosi e poter quindi adottare il Gold standard: una vittoria dunque nettissima, che faceva del Giappone una nuova potenza regionale, sebbene il Triplice intervento” tedesco, zarista e francese gli avesse impedito di annettere anche la penisola del Liaodong, ritenuta cruciale per gli interessi europei nell’area.

Eppure le cancellerie europee seguitarono a snobbare l’Impero nipponico, accecate da pregiudizi di matrice orientalista [▶ cap. 9.2]. Tanto meno fu colta la valenza imperialista dell’azione giapponese, vista al contrario da molti nazionalisti asiatici di altri paesi come una guerra contro la tradizionale ingerenza cinese condotta da un nuovo paladino della causa antimperialista. Così non era. E lo dimostravano le politiche assimilazioniste imposte dai giapponesi alle popolazioni conquistate: forzature tese ad assicurarsene la fedeltà, ma anche a risolvere le contraddizioni derivanti dalla natura ora multietnica e multireligiosa di un impero che aveva invece fondato la sua identità nazionale sull’omogeneità interna e sull’alterità rispetto agli altri popoli asiatici.

19.7 Un mondo di imperi occidentali

Tratti e conseguenze dell’imperialismo
Assieme alla diffusione dell’industrializzazione, l’espansione coloniale di fine secolo e l’affermazione di nuove potenze imposero di rivisitare l’idea di Occidente. Da un lato era ora necessario escludere diverse aree geograficamente occidentali o in passato considerate indiscutibilmente tali per imprinting culturale e legami politico-economici con l’Europa, come per esempio gli Stati latinoamericani. Dall’altro, ne diventavano parte integrante paesi quali gli Stati Uniti e l’Impero giapponese, extraeuropei ma cresciuti facendo propri e rielaborando con successo elementi culturali e sviluppi socioeconomici originati nel Vecchio continente. A essere occidentali erano dunque ora quei paesi che condividevano una superiorità tecnologica, un sistema produttivo ormai avviato alla meccanizzazione, impianti istituzionali e macchine amministrative consolidati, società moderne e non ultimo un mutuo riconoscimento come membri di questo selezionato insieme, seppur lungo una scala gerarchica disegnata dalla potenza militare, dall’ampiezza dei possedimenti, dal ruolo giocato sui mercati commerciali e finanziari globali, dalla forza diplomatica e dal prestigio internazionale di ognuno.

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Fu appunto non più l’Europa ma l’Occidente a spartirsi il pianeta, arrivando nel 1913 a sottomettere quasi il 40% delle terre emerse e quasi un terzo della popolazione mondiale: un dato ancor più impressionante se paragonato al 18% di terre emerse e al 22% della popolazione mondiale sottoposti ad europei, statunitensi e giapponesi solo 35 anni prima.

A inizio Novecento, dell’intero continente africano restavano slegati dal controllo occidentale solo l’Impero etiope, invano aggredito dagli italiani; la Liberia, che godeva della tutela statunitense [▶ cap. 8.2]; Tripolitania e Cirenaica, in mano ottomana fino alla guerra italo-turca del 1911-12; il Marocco, oggetto di un aspro contenzioso e infine trasformato in protettorato francese nel 1912. In Asia la formale indipendenza dell’Impero cinese e il rafforzamento dell’Impero giapponese rendevano il fenomeno meno evidente ma non meno pervasivo, considerato che l’unico Stato rimasto davvero indipendente era il Siam, prima satellite del Regno Unito [▶ cap. 12.2] ma ora messo a fare da cuscinetto fra i possedimenti francesi e britannici [ 16].

Di conseguenza, si stringevano ulteriormente i nessi fra le vicende dei popoli europei e quelle di asiatici, africani e americani, con ripercussioni da ambo i lati. Benché le colonie stentassero ad assorbire quantità significative dei prodotti confezionati nelle madrepatrie (circa il 20%, massimo il 33% nel caso britannico), il ruolo di questi territori nei processi di industrializzazione e globalizzazione dei mercati non fu per nulla trascurabile, grazie soprattutto alle materie prime che essi garantivano e alle commesse statali legate alla conquista e all’amministrazione dei nuovi possedimenti. Il contributo dell’imperialismo fu inoltre decisivo per le definizioni identitarie nazionali e sovranazionali di molti popoli europei, per i quali il contatto con “altri” in parte diversi dagli “altri” già conosciuti in epoche precedenti rappresentò un elemento di confronto utile a compattarsi superando le differenze linguistico-culturali interne.

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Più complesso è invece valutare l’impatto della presenza occidentale sulle popolazioni e sui territori sottomessi. Seppur per lo più mossi da interessi economici, militari o di controllo del territorio che prescindevano dai bisogni delle popolazioni indigene, i colonizzatori contribuirono in maniera decisiva a migliorare le infrastrutture, a introdurre sistemi istituzionali e burocrazie più efficienti, a modernizzare le società e a integrare queste aree nei circuiti commerciali e finanziari globali. Ciò però non si tradusse quasi mai in uno sviluppo industriale autonomo, favorendo semmai un inserimento nel mercato mondiale subordinato agli interessi dei colonizzatori. Le colonie si specializzarono nell’estrazione di materie prime e in produzioni agricole per l’industria e i mercati europei, acuendo così la dipendenza economica dalla madrepatria, sottraendo risorse alimentari preziose agli indigeni anche quando colpiti da drammatiche carestie e, in ultima analisi, raddoppiando il divario fra la ricchezza dei paesi occidentali e quella del resto del mondo.
Né ai più cinici indirizzi governativi riuscivano a far da argine le attività assistenziali promosse dai missionari delle diverse confessioni cristiane: una presenza sempre più massiccia oltremare (nel 1890 più di 10 000 i britannici, 15 000 gli americani e circa 100 000 gli europei), utile alle autorità coloniali per confermare i fini anche filantropici della dominazione ma non per questo restia a denunciarne gli abusi e pronta a resistere ai tentativi dei vari governi di nazionalizzare le missioni e assumerne il controllo. Non solo i flussi commerciali, l’immaginario collettivo e la cultura, ma anche il cristianesimo conobbe quindi nell’età dell’imperialismo una sua globalizzazione, penetrando in vaste aree prima dedite ad altri culti e diffondendo il suo messaggio per iscritto in idiomi prima ignorati (ben 119 le traduzioni della Bibbia fra il 1876 e il 1902).
Nonostante l’attività degli uomini di Chiesa, le modalità di controllo delle popolazioni colonizzate comprendevano praticamente ovunque il ricorso alla violenza, a discriminazioni, a tentativi di assimilazione e, in più casi, a logiche di divide et impera che alimentavano le tensioni intertribali ponendo le basi per guerre che sarebbero esplose una volta andati via i dominatori, nella seconda metà del XX secolo. Eppure, i colonizzatori instaurarono un po’ ovunque con i colonizzati relazioni che non solo implicavano una vicendevole influenza in termini culturali, ma costringevano di fatto le classi dirigenti europee a scendere continuamente a compromessi con i poteri locali, a collaborare con le élite indigene e ad associare alla repressione una costante ricerca del consenso. Il che faceva dell’esperienza coloniale una Co-History scritta assieme da colonizzatori e colonizzati.

Infine, l’espansione delle potenze europee e l’emergere di nuove forze le cui sfere di influenza erano centrate altrove provocarono uno spostamento dell’asse geopolitico globale dall’Europa al quadrante asiatico e pacifico. Più ancora, però, la natura imperiale di tutte le principali potenze non poté che incidere sulle relazioni internazionali e sulla natura del fenomeno guerra. Se le crescenti tensioni legate alle dispute coloniali imponevano sempre più di tutelarsi mediante fitte reti di alleanze contro i concorrenti più temibili, il conflitto mondiale del 1914-18 avrebbe presto dimostrato che scatenare una guerra significava ormai dilatarne il teatro a larga parte del pianeta e veder mobilitate quantità di uomini e risorse prima inimmaginabili, in larga parte attinte dai possedimenti coloniali.

Storie. Il passato nel presente - volume 2
Storie. Il passato nel presente - volume 2
Dal 1715 al 1900