18.3 Costruire una ricca nazione

18.3 Costruire una ricca nazione

I nuovi assetti dell’Unione
Dopo una simile lotta il paese si trovò economicamente provato e ben lontano dalla pacificazione, come dimostrò l’assassinio di Lincoln da parte di un filosudista il 14 aprile 1865. Tuttavia, il conflitto aveva lasciato anche importanti eredità.

In primo luogo, le esigenze di coordinamento e di velocizzazione dei processi decisionali imposte dalla guerra avevano costretto non solo gli unionisti ma anche gli Stati confederati a rafforzare i poteri dei rispettivi organi federali. La burocrazia ne era uscita ampliata (da 40 000 a 200 000 dipendenti), i fondi stanziati a questo scopo erano cresciuti enormemente (da 63 a 1250 milioni) e la carica presidenziale aveva assunto un carattere più operativo, lasciando che molte decisioni fossero prese con ordini esecutivi ratificati ex post dal Congresso. L’invasività governativa aveva così potuto infrangere alcuni veri e propri tabù sociali ed economici. Aveva per esempio introdotto la leva (che infatti aveva provocato forti resistenze) e aveva disconoscuto gli assunti liberisti, introducendo forti tasse e dazi doganali, unificando la moneta, imponendone il  corso forzoso e creando un sistema di banche nazionali dopo il fallito esperimento della Second Bank of United States [▶ cap. 8.2].

Non stupisce che, già durante il conflitto, la tendenza centralista avesse generato reazioni sia a Nord sia a Sud. Tuttavia, mentre al Nord il Partito repubblicano era riuscito a mantenere coesa l’opinione pubblica con la massiccia propaganda e intrecciando rapporti non sempre trasparenti con il mondo degli affari, al Sud le tensioni erano state più forti. I piccoli coltivatori avevano protestato contro l’inflazione galoppante o la coscrizione, da cui erano esentati i possessori di almeno 20 schiavi. E alcuni grandi proprietari avevano presto denunciato i metodi di fatto simili a quelli unionisti adottati dal governo confederato, boicottandone le richieste più gravose: uomini da mandare al fronte, tasse eccezionali per sostenere i costi del conflitto e beni da requisire per esigenze militari.

L’illusione egualitaria
A scardinare i precedenti equilibri socioeconomici intervenne inoltre la formale abolizione della schiavitù, sancita nel 1865 dal XIII Emendamento alla Costituzione. L’emancipazione s’inseriva in realtà in una tendenza globale, che aveva visto iniziare gli inglesi nelle Indie occidentali (1834), i francesi e i danesi nelle rispettive colonie (1848) e infine gli olandesi nel 1863. Tuttavia, negli Stati Uniti la svolta riguardò un numero enorme di persone e soprattutto fu imposta da una parte di nazione vittoriosa all’altra sconfitta, dopo una sanguinosa guerra civile. Perciò essa fu vissuta dalle élite sudiste come una violenta ingiustizia che – come disse il noto scrittore abolizionista Mark Twain – «smantellò istituzioni vecchie di secoli, trasformò la politica di un popolo intero e modificò la vita sociale di metà del paese».

Un’avversione ancora più decisa suscitarono i tentativi della maggioranza repubblicana al Congresso di trasformare gli Stati Uniti in una democrazia multirazziale e aperta alla partecipazione femminile. E infatti il parlamento seguitava a ignorare gli appelli dei movimenti per il voto alle donne. Eppure fu in questa fase, poi ribattezzata “Ricostruzione radicale” (1867-77), che vennero approvati il XIV e il XV Emendamento, con i quali non solo si sanciva lo status di cittadino dei neri (1868), ma si estendeva loro il diritto di voto (1870).

Il bisogno di radicarsi al Sud spinse il Partito repubblicano a promuovere una rapida politicizzazione dei neoelettori neri, alcuni dei quali entrarono per la prima volta nelle istituzioni locali e federali (2 senatori e una quindicina di deputati). Infine, le conquistate libertà favorirono l’associazionismo, la creazione di proprie chiese e la nascita di sistemi scolastici e universitari aperti ai neri, allo scopo di ridurre il divario sul piano dell’alfabetismo e, in prospettiva, formare una classe dirigente afroamericana.

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Pur rappresentando importanti passi in avanti, emancipazione, cittadinanza e voto non si tradussero in un’effettiva equiparazione fra bianchi e neri, un’eventualità avversata dalla società meridionale ma che trovava molti oppositori anche al Nord. Infatti, mentre ancora lo slancio della “Ricostruzione nera” era forte, l’atteggiamento conciliante e le radicate convinzioni razziste del successore di Lincoln – il vicepresidente democratico Andrew Johnson – aprirono la strada a tentativi di ridurre l’impatto dell’emancipazione. In particolare, i governi di diversi Stati sostituirono alle norme schiaviste ormai incostituzionali (slave codes) altre che limitavano alcuni diritti fondamentali dei neri, come affittare terre, detenere armi o muoversi liberamente (black codes). E ciò di fatto finì per costringere molti ex schiavi a restare nelle piantagioni con forme contrattuali e in condizioni di lavoro semiforzato.

Alle discriminazioni legali, che configurarono presto una vera e propria  segregazione fondata sul principio ipocrita “separate but equal” (“separati ma uguali”), si aggiungeva inoltre l’assenza di una riforma agraria che garantisse l’indipendenza economica degli ex schiavi e intaccasse il predominio economico-sociale dei vecchi padroni. Il risultato fu che molti divennero braccianti malpagati o mezzadri poveri, dipendenti dai proprietari che fittavano loro le terre vendendo a credito sementi e attrezzi.

Simili situazioni non potevano che acuire la frattura razziale. Il fronte degli attivisti in favore dei neri si divise fra chi lottava per l’uguaglianza restando negli Usa e appellandosi ai valori costituzionali e chi voleva un proprio Stato-nazione in America o un ritorno di massa in Africa. Sul fronte opposto, soprattutto fra l’élite meridionale sconfitta e i bianchi più poveri che si sentivano bistrattati dallo Stato federale, il montante odio razziale portò invece alla creazione del Ku Klux Klan e di numerose altre associazioni segrete dedite a punire e intimidire i neri. Anche grazie alla malcelata simpatia popolare e delle autorità locali, fra 1865 e 1870 i membri del Klan sparsero per tutto il paese una lunga scia di sangue e terrore, finché a inizio anni Settanta il governo federale non fu costretto a intervenire con ondate di arresti e spingendo gli stessi dirigenti del Klan a dichiararne lo scioglimento.

In questo clima, sia il Congresso sia il nuovo presidente eletto nel 1868, l’ex generale Ulysses Grant, cercarono di stemperare le tensioni amnistiando i dirigenti confederati. Ciò mentre la Corte suprema non disconosceva, ma sempre più tendeva a dare interpretazioni restrittive agli “Emendamenti della Ricostruzione”.

Nel frattempo, esaurita ormai la spinta della Ricostruzione radicale, pian piano il Partito democratico poté riorganizzarsi, riprendere il controllo di diversi Stati del Sud e infine ridurre di molto la pressione del governo federale con un tacito scambio fra la pacifica permanenza nell’Unione e la non interferenza nelle questioni interne: il cosiddetto “Compromesso del 1877”.

Un’Unione, una nazione
Il rafforzamento dello Stato federale andò di pari passo con uno sforzo mai così intenso per costruire una condivisa identità nazionale da porre alla base dell’Unione. La sconfitta militare aveva certo inferto un colpo mortale ai progetti di secessione. E momenti di alto valore simbolico come il discorso di Gettysburg avevano riaffermato l’indissolubilità degli Usa, intesi non come una semplice federazione di Stati ma come espressione politico-istituzionale di un’unica nazione e dei suoi comuni valori fondanti. Tuttavia, in molti abitanti degli Stati del Sud restava forte il senso di un’identità sudista almeno regionale, se non altro quale nostalgica rievocazione dell’armoniosa società agricola di prima della guerra. Allo stesso tempo, restavano profonde le differenze culturali e di stile di vita fra le altre principali macroaree del paese, il Nordest e l’Ovest.

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Ben consapevole di ciò, all’indomani del conflitto il governo federale intensificò il Nation building. Fu promosso il culto della bandiera; si cercò di omogeneizzare le diverse culture mediante la scolarizzazione e i programmi d’inclusione destinati agli immigrati; si estesero a tutto il paese feste originariamente non celebrate al Sud, fra le quali il giorno del Ringraziamento; si elaborarono nuovi miti fondativi e furono aggiunti al tradizionale Pantheon altri padri della patria, in primis Lincoln [ 8].
Insomma, il discorso pubblico e il linguaggio istituzionale tesero a rappresentare sempre più gli Stati Uniti come un’entità unica (si diffuse per esempio l’uso di scrivere “The United States is”). La federazione diventava così un’entità superiore e per certi versi indipendente dagli Stati membri. Ne era conferma il principio secondo il quale era ora attribuita la cittadinanza, che prima derivava dall’essere cittadino di uno degli Stati membri dell’Unione e che – secondo il XIV Emendamento – dal 1868 fu invece attribuita a «tutte le persone nate o naturalizzate negli Stati Uniti», indipendentemente dal loro essere cittadine di uno degli Stati. Si trattava non solo di un totale ribaltamento rispetto al passato, ma anche di un’apertura notevole nei confronti dei figli degli immigrati, che acquisivano così automaticamente la cittadinanza in base al principio dello  ius soli.
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Si realizza il “sogno americano”
Intanto che s’impegnavano a farsi nazione, gli Usa divennero una delle più grandi potenze economiche e militari del pianeta. Gli ultimi trent’anni dell’Ottocento videro infatti non solo una vertiginosa crescita demografica (da 31 a 76 milioni, di cui la maggior parte giovani) e urbanistica (New York raggiunse i 3,5 milioni di abitanti mentre Chicago passò da 30 000 a 1,7 milioni), ma il vero e proprio trionfo del sistema capitalistico americano.

La necessità di sostenere lo sforzo bellico e compensare le mancate esportazioni di cotone aveva spinto anche gli Stati del Sud a sviluppare alcuni settori industriali, dotarsi di nuove linee ferroviarie e dare slancio alla coltivazione del tabacco, sempre più richiesto per il diffondersi delle sigarette. Ma fu soprattutto nel Nordest che l’enorme domanda statale di prodotti per la guerra spinse le imprese a fondersi creando grandi concentrazioni societarie, che soppiantarono le vecchie aziende individuali o familiari. E furono queste società per azioni ad assurgere a posizioni dominanti sul mercato, nonostante i primi tentativi del governo di favorire la concorrenza mediante apposite norme  antitrust. Così, mentre l’inflazione e le devastazioni dovute al conflitto avevano ridotto di circa 1/3 il  potere di acquisto dei salariati (e ancor più quello delle donne), abili e spregiudicati imprenditori come i Rockefeller e i Carnegie realizzarono fortune immense, creando dal nulla società di successo e concentrando il 40% della ricchezza industriale in non più di 300 supercorporation. Essi furono perciò celebrati come l’incarnazione dello spirito e la realizzazione del sogno americano, ma anche attaccati per le loro strategie prive di scrupoli e i legami poco trasparenti con la classe politica.

A stimolare e al contempo a beneficiare di questa nuova organizzazione dei processi produttivi, furono settori trainanti quali le ferrovie [ 9] e nuove imprese come l’industria elettrica, quella dell’acciaio e quella petrolifera. Fra 1867 e 1873 la rete ferroviaria crebbe di 48 000 km e, all’inizio degli anni Ottanta, giunse a contare ben quattro linee transcontinentali, rappresentando da sola circa la metà dell’estensione ferroviaria mondiale.

Entro la fine dell’Ottocento la produzione di acciaio e carbone superò quella britannica e tedesca, mentre la fabbricazione di beni di consumo era stimolata dall’aumento della popolazione, dal rapido incremento del reddito procapite e dall’introduzione di tecniche di commercializzazione innovative come la grande distribuzione e le vendite a rate. Nel complesso, gli stabilimenti industriali passarono dai circa 140 000 del 1860 ai circa 512 000 del 1900, con un capitale totale di gran lunga superiore a quello di qualsiasi altro paese: un boom enorme, capace di superare anche la crisi che nel 1893 colpì il paese in seguito al fallimento di alcune grandi compagnie ferroviarie e al crollo dei prezzi agricoli per l’eccessiva produzione [ 10].

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Nel frattempo, l’ampiezza delle compagnie (soprattutto quelle siderurgiche e ferroviarie) impose una maggiore articolazione delle funzioni all’interno delle imprese, favorì l’affermazione di manager professionisti e aprì la strada ai primi esperimenti di organizzazione scientifica del lavoro poi teorizzata da Frederick W. Taylor. Allo stesso modo, alcune recenti scoperte trovarono pronta applicazione industriale, come le fibre sintetiche ricavate dagli idrocarburi nel 1898 e il perfezionamento della lampadina a incandescenza da parte di Thomas Edison (1879). Ricerca scientifica e business si intrecciavano così in un sistema produttivo rafforzato da più elementi: eccellenti istituzioni formative dedite alla scienza industriale (nel 1862 era stato fondato il Massachusetts Institute of Technology); un set di valori dominato dal successo economico-professionale e dal mito dell’efficienza; concezioni filosofico-pedagogiche come il progressismo e il  pragmatismo, centrate sull’idea che la conoscenza fosse un mezzo per trasformare il mondo e che la scienza dovesse guidare una società ormai troppo complessa per autoregolarsi.
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Mid e Far West fra mito e realtà
Anche l’Ovest conobbe un notevole sviluppo. Fra il 1861 e la fine del secolo gli abitanti bianchi passarono da 7 a oltre 17 milioni (oltre 1/3 donne) e 12 nuovi Stati aderirono all’Unione. L’aumento della domanda interna, la meccanizzazione dell’agricoltura e la rete infrastrutturale portarono soprattutto il Midwest a diventare uno dei principali esportatori mondiali di cereali, conquistando i mercati europei a danno dei produttori locali. Nel frattempo, l’industria mineraria, quella ferroviaria e l’allevamento raggiunsero dimensioni tali da richiedere capitali e competenze tecniche fuori dalla portata dei pionieri e dei piccoli gruppi di coloni.

Così, le grandi aziende e le immense fattorie (ranch) presero a commerciare in tutto il paese legname e carne bovina, poi divenuta con il tempo un cardine della dieta americana. Ciò mentre imprese del Nordest subentrarono con massicci investimenti e articolati organigrammi aziendali, trasformando figure romantiche e centrali nell’immaginario nazionale come il cercatore d’oro, il cacciatore di taglie e il cowboy in sottopagati dipendenti, spesso peraltro afroamericani, meticci, messicani o asiatici.

Man mano che si procedeva verso Ovest, la vita restava comunque molto meno confortevole che nel Nordest, dal momento che i villaggi dotati di servizi restavano pochi e il grosso dei coloni abitavano in capanne di legno isolate, costituite da un unico ambiente privo di pavimento, con arredi essenziali e finestre di carta spalmata di lardo di maiale per proteggersi dal freddo. In più, non solo la dieta dei coloni era fortemente condizionata dalla scarsezza di carne (mancava il sale per conservarla) e di bevande come gli alcolici e il caffè, ma il loro abbigliamento era estremamente essenziale e privo di ogni capo non necessario (scarpe, copricapi ecc.). Il che esponeva i coloni a disagi notevoli ma favoriva la somiglianza nel vestiario di uomini e donne, e con essa quella maggiore libertà dalle convenzioni di genere che consentiva alle donne di svolgere un ruolo centrale all’interno delle comunità più che in altre aree del paese.

Se dunque il Far West era un posto difficile e rischioso, dove regnava la legge del più forte e lo Stato (nella persona dello sceriffo) stentava a mantenere il controllo del territorio, letteratura, fotografie e stampe insistettero in questa fase con ancor maggiore forza a idealizzarlo, presentandolo come un mondo selvaggio e genuino, dove non solo i frontiersmen ma persino i criminali (Jesse James, Billy the Kid, Wild Bill Hickok) incarnavano l’avanzata inesorabile della superiore civiltà bianca e dei suoi valori: individualismo, iniziativa, virilità e coraggio.

Fra sviluppo e tensioni
A forgiare una nuova e dinamica società dei consumi, che rappresentava la vera peculiarità statunitense rispetto ad altri paesi occidentali, concorrevano però non solo un sistema politico più democratico e la notevole crescita economica, ma anche l’immigrazione.

Nel 1882, il governo concesse il libero accesso agli stranieri, pur con l’eccezione dei cinesi. E ciò, sommato alla facilità nell’ottenere la cittadinanza, favorì il riorientamento dei flussi migratori europei, prima diretti per lo più in America Latina. Tra fine Ottocento e inizio Novecento giunsero così negli Usa circa 15 milioni di persone: un flusso enorme, che accentuò ulteriormente il carattere multiculturale della società statunitense e ne diffuse un’immagine centrata sui concetti di “uomo nuovo americano” e di melting pot, ovvero di una comunità composta da individui di origini e culture diverse ma capaci di cooperare al benessere del paese e convivere pacificamente nel rispetto dei suoi valori di libertà, intraprendenza, patriottismo e spirito democratico [▶ luoghi]. Anche in questo pareva realizzarsi l’ideale universalista della Costituzione [▶ cap. 4.4].

Storie. Il passato nel presente - volume 2
Storie. Il passato nel presente - volume 2
Dal 1715 al 1900