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Letteratura e schiavismo
La letteratura giocò un ruolo decisivo nel dibattito sullo schiavismo. Contro il Fugitive Slave Act, nel 1852 l’abolizionista Harriet Beecher Stowe pubblicò per esempio il romanzo La capanna dello zio Tom, ispirato a memorie di schiavi fuggiti. Il libro, pur non privo di stereotipi (il servo grato, la Mammy), offrì un quadro sentimentale ma realistico della vita degli schiavi, che riscosse un enorme successo (2 milioni di copie vendute in dieci anni) e convinse molti dell’incompatibilità fra schiavismo e cristianesimo.
Il fronte schiavista rispose sia criticando la scarsa conoscenza del Sud dell’autrice, sia alimentando un vero e proprio sottogenere detto “Letteratura anti-Tom”: un ricco filone che univa ai racconti popolari su stereotipati personaggi come Sambo e Mammy, storie per bambini e romanzi che raccontavano di premurosi padroni e servi fedeli in quanto incapaci di badare a se stessi, se non proprio selvaggi al punto da essere pericolosi per l’ordine sociale.
Il mito di un Sud armonioso e la persistenza delle idee suprematiste bianche contribuirono a conservare un’immagine positiva della schiavitù almeno sino alla metà del Novecento, non di rado diffusa da opere di persone impegnate in favore dei diritti dei nativi o delle donne: segno di come l’inferiorità dei neri fosse da molti considerata come un indiscutibile dato naturale e potesse quindi convivere con la lotta per emancipare chi era invece ritenuto essere umano.
Così, ancora nel 1936 il fortunato romanzo di Margaret Mitchell dal titolo Via col Vento – poi diventato un celebre film (1939) – riproponeva un mondo romantico e pacifico, popolato da generosi padroni e schiavi dagli stereotipati tratti di incapacità, lealtà e gratitudine.