FENOMENI - Le esplorazioni nell’età dei Lumi

All’inizio degli anni Sessanta, Voltaire dimostrò in Francia le sue capacità di comunicare e mobilitare, mettendo in piedi una possente campagna di stampa intorno all’arresto di Jean Calas, un protestante di Tolosa accusato di aver ucciso suo figlio per evitarne la sua conversione al cattolicesimo. Il tribunale della città pronunciò la condanna a morte e fece giustiziare il presunto reo il 10 marzo del 1762, ma lo scrittore non smise di far sentire le sue ragioni e arrivò a ottenere tre anni più tardi una revisione del processo e una dichiarazione di innocenza.

Nel 1764 Voltaire pubblicò in forma anonima il Dizionario filosofico, continuando poi a integrarlo negli anni successivi con aggiunte e spiegazioni. L’intento era quello di fornire alle “persone illuminate” un’opera agile e a basso prezzo, attraverso la quale si potevano apprendere nuove idee e nuovi processi conoscitivi. Le verità che il sapere tradizionale considerava indiscusse venivano decostruite, anche con ironia. Discutendo casi di cronaca, affari giudiziari, opere letterarie e Sacre Scritture, Voltaire denunciava tutto ciò che credeva essere riconducibile a bugie e arbitrarietà. Le reazioni sdegnate non mancarono: tanto nell’ambito cattolico quanto in quello protestante, il testo fu giudicato scandaloso e sottoposto a censura.

Ragionare sul mondo: l’Enciclopedia
La piena maturità del movimento dei Lumi fu raggiunta dalla fine degli anni Quaranta e l’inizio degli anni Settanta del XVIII secolo, quando prese forma il progetto dell’Enciclopedia o Dizionario ragionato delle scienze, delle arti e dei mestieri, animata fra gli altri da Denis Diderot (1713-84) e Jean-Baptiste Le Rond D’Alembert (1717-83), che si avvalsero di un gruppo di circa 160 collaboratori. Il rifiuto dei dogmi che stava alla base delle singole voci di questa grandiosa opera (17 volumi di testo e 11 di tavole) portò a una riorganizzazione del sapere che forniva innumerevoli spunti di discussione sulla tolleranza e la molteplicità delle religioni, sulla tradizione biblica e sul fanatismo, sulla storia e la comparazione fra diverse culture, sulle libertà civili, sul concetto di rappresentanza politica e sulla legittimazione del potere attraverso il consenso ai governanti. Grande attenzione era dedicata alla tecnica, all’artigianato e al lavoro manifatturiero, nell’intento di porre il sapere teorico al servizio di fini pratici e di superare l’antica distinzione fra teoria e tecnica: il testo era destinato a essere usato e giudicato per la sua utilità [ 10].

Il progetto editoriale non fu privo di intoppi. Il principale ideatore, il tipografo André Le Breton, fu costretto più volte a riorganizzare la squadra dei collaboratori ed ebbe diversi ripensamenti. Diderot e D’Alembert si mostrarono invece determinati nel portare a termine il lavoro. L’Enciclopedia – pubblicata in 28 volumi fra il 1751 e il 1772 (senza contare i 7 volumi aggiuntivi che uscirono fino ai primi anni Ottanta) – non fu osteggiata dai vertici politico-istituzionali dello Stato francese, che in alcuni casi sostenne i compilatori con pensioni e sussidi: per questa ragione molti ritennero che si trattasse di un grande riassetto del sapere disponibile al tempo, al servizio di una società che non aveva in sé una vera intenzione di cambiamento.

Di fatto, gli ambienti accademici più legati alle consuetudini (come quello dell’Università Sorbona di Parigi) o gli ordini religiosi (primi fra tutti i gesuiti) manifestarono la loro ostilità all’impresa: diffuso era il sospetto che l’unico scopo dell’opera fosse quello di distruggere le certezze consolidate dei sudditi, minando la stabilità del trono e dell’altare. Molti erano inoltre infastiditi dai continui richiami a Newton, a Locke e a esponenti delle filosofie materialiste e sensiste. Scriveva infatti D’Alembert nel Discorso preliminare all’Enciclopedia: «Tutte le nostre conoscenze dirette si riducono a quelle che riceviamo attraverso i sensi».

Il successo fu comunque notevole: nel giro di circa 4 decenni dalla prima uscita, si contarono in Europa circa 25 000 copie distribuite.

 >> pagina 51

La morale e i confini della ragione
L’atmosfera illuminista, pur declinandosi in diversi orientamenti di pensiero, fu accomunata da una generale presa di distanza dalle  metafisiche tradizionali: le idee dovevano essere necessariamente suffragate dall’osservazione dei fatti. Prendendo ispirazione dall’empirismo di Locke, Étienne Bonnot de Condillac (1714-80) compose il Saggio sull’origine delle conoscenze umane (1746), dove cercò di ricondurre alle percezioni dei sensi tutte le conoscenze dell’uomo. Altri filosofi come Julien Offroy de La Mettrie (1711-76) si spinsero verso posizioni più radicalmente improntate alla centralità della materia, spiegando con quest’ultima persino l’attività psichica dell’uomo e la sua capacità di elaborare idee.

Lo scozzese David Hume (1711-76) volle invece attaccare in maniera ancora più diretta la metafisica nel Trattato sulla natura umana (1739-40), mettendo in evidenza i limiti della ragione e la sua incapacità di costruire delle regole. La realtà esterna ai sensi è, per lui, destinata a rimanere inconoscibile. Le percezioni non conducono alla vera essenza delle cose: lo stesso meccanismo associazionistico che conduce a legare diversi fenomeni secondo un rapporto di causa-effetto non è basato su principi razionali, ma sull’abitudine che ha in precedenza contaminato il pensiero con ingannevoli premesse emotive. In altre parole, se determinati accadimenti si susseguono l’uno dopo l’altro, ciò non costituisce una garanzia necessaria del fatto che debbano ripetersi in futuro nello stesso ordine.

 >> pagina 52 

Uno dei risvolti più rilevanti del pensiero empirista o sensistico fu lo sviluppo dell’utilitarismo. I buoni fini perseguiti dall’uomo non potevano essere astratti, ma dovevano avere a che fare con il piacere, con l’appagamento dei bisogni e l’alleviamento del dolore. Il pericolo che questa ricerca potesse ledere le buone regole del vivere sociale e la morale condivisa era ben presente ai pensatori del tempo. Molti presupposero – come lo stesso Hume – l’esistenza di un’innata tendenza a preservare il comune benessere e a provare compassione per le sofferenze altrui. Altri, come l’inglese Jeremy Bentham (1748-1832), esaltavano il lavoro come strumento per realizzare l’obiettivo della comunità, ossia garantire tutta la felicità possibile al maggior numero di persone.

I saperi tecnico-scientifici: scoperte ed eventi sensazionali
Per quanto riguarda il piano più strettamente scientifico, fin dagli anni Trenta divenne trasversale il consenso intorno alle idee di Newton, che furono propagandate in diversi contesti dai letterati: già nel 1738 Voltaire aveva pubblicato gli Elementi della filosofia di Newton, mentre il veneziano Francesco Algarotti aveva dato alle stampe il Newtonianesimo per le dame. I fenomeni elettrici furono più tardi sottoposti alle sperimentazioni dell’americano Benjamin Franklin (1706-90) [ 11] e successivamente entrarono nel campo di interesse di scienziati italiani come Luigi Galvani (1737-98) o Alessandro Volta (1745-1827). Il parigino Antoine-Laurent de Lavoisier (1743-94) usò la sua appartenenza a influenti circoli nobiliari per finanziare le sue ricerche nel campo della chimica, che lo condussero a risultati notevoli come il riconoscimento dell’ossigeno e dell’idrogeno, oltre al rinnovamento della nomenclatura dell’intera disciplina [ 12]. Nel campo della botanica e della zoologia si susseguirono importanti scoperte e lavori di divulgazione, come quelli dello svedese Linneo (Carl von Linné, 1707-78) e del francese George-Louis Leclerc de Buffon (1707-88).

Lo straordinario prestigio goduto da questi personaggi favorì la nascita di sodalizi e circoli: le grandi scoperte erano esibite al pubblico grazie a governi compiacenti, intenzionati a trarre legittimazione dal sostegno alle attività di ricerca. Nel 1783 i fratelli Montgolfier riuscirono per la prima volta a far volare un aerostato ad aria calda. In un primo momento salirono a bordo una pecora, un’oca e un gallo, sotto gli occhi ammirati del re di Francia Luigi XVI e della consorte Maria Antonietta. Successivamente toccò a esseri umani, che viaggiarono per circa nove chilometri, suscitando clamore in tutta Europa.

Il cameralismo e la fisiocrazia
Tra la fine del Seicento e l’inizio del Settecento le teorie economiche più diffuse erano riconducibili essenzialmente al mercantilismo. Lo sviluppo del benessere degli Stati era affidato all’operato dei governi, chiamati a ridurre al minimo le importazioni, a sostenere la produzione interna e a massimizzare le esportazioni, a sviluppare politiche di crescita e a sostenere l’iniziativa dei privati. In area tedesca, le riflessioni sul ruolo del sovrano nella ricerca di una prosperità generale confluirono in un complesso di ideologie e saperi riconosciuto come cameralismo, il quale aveva come sfondo una concezione organica della società imperniata sul monarca, che tuttavia considerava il benessere del popolo come presupposto del mantenimento del potere. Tuttavia nei decenni centrali del XVIII secolo si diffusero, a partire dalla Francia e dall’Inghilterra, nuove idee che tendevano a leggere l’economia come un sistema di rapporti fondato su leggi naturali che non potevano essere intaccate dall’intervento dei poteri politici.

 >> pagina 53 
Su questi presupposti si sviluppò la scuola fisiocratica (da fisiocrazia, termine che deriva dal greco e significa “regno della natura”), stimolata dalle riflessioni del medico e naturalista François Quesnay (1694-1774). La priorità, secondo Quesnay, andava all’agricoltura e allo sfruttamento dei terreni coltivabili: le manifatture e il commercio non creavano nuove ricchezze, ma si limitavano a trasformare materie prime già esistenti. Erano quindi necessari, secondo Quesnay, investimenti per rendere coltivabili le terre e per generare i maggiori profitti possibili, che a loro volta dovevano essere reinvestiti: si auspicava in definitiva un ciclo virtuoso, volto a non bloccare la ricchezza, bensì a farla circolare.
L’economia civile e la costruzione di una nuova morale
 Nel 1751 vide la luce il trattato Della moneta dell’economista Ferdinando Galiani (1728-87), che analizzava la relazione fra l’utilità, il valore delle merci e il bisogno economico, finendo per sostenere una prassi consolidata per gli Stati settecenteschi, ovvero quella della “manipolazione della valuta corrente”. Galiani si concentrò, soprattutto, sull’analisi degli effetti dell’aumento e della diminuzione del valore della moneta. Tale pratica si basava soprattutto sulla ricerca della stabilità di questo valore, cercando di evitare oscillazioni oppure forzandole per difendere specifici interessi. Più tardi, dopo aver lavorato anche come segretario d’ambasciata a Parigi, maturò una visione cupa dei processi naturali che lo condusse a sviluppare una critica della fisiocrazia e, più in generale, sulle capacità di azione degli uomini: nei Dialoghi sul commercio dei grani (1769) si mostrò chiaramente pessimista sulla prospettiva di poter realizzare con successo quanto prescritto da Quesnay e dai suoi seguaci.

 >> pagina 54 

Sempre nell’ambiente napoletano si affermò in quegli anni la figura di Antonio Genovesi (1713-69), che aveva seguito le lezioni universitarie di Giambattista Vico traendone ispirazioni sulla funzione civile della cultura. Affermatosi in ambito accademico (nonostante le non poche ostilità degli ambienti ecclesiastici), pubblicò nel 1753 il Discorso sopra il vero fine delle lettere e delle scienze, sottolineando l’importanza di rivolgere le conquiste della ragione verso un fine pratico. I suoi insegnamenti furono raccolti più tardi (fra il 1765 e il 1767) nelle Lezioni di commercio o sia d’economia civile: questi scritti proponevano un’analisi profonda della situazione delle campagne meridionali, della manifattura e degli scambi, denunciando senza mezzi termini il peso della proprietà ecclesiastica e del latifondo, ostacoli per tutti coloro che cercavano di stimolare le necessarie forme di sviluppo.

Il discorso economico era legato a quello morale. Nella volontà esplicita di portare al monarca i giusti consigli, Genovesi poneva al centro del suo discorso l’educazione dei giovani e la costruzione di una nuova armonia sociale. I suoi allievi riuscirono a ottenere importanti compiti nell’apparato statale borbonico entrando a far parte del consiglio delle finanze, occupandosi di questioni fiscali, della gestione dell’esercito e della gestione delle proprietà della corona. Gli ideali di rinnovamento sociale e di pratica di una vera e propria religione civile furono ereditati, fra gli anni Settanta e Ottanta, anche dal giovanissimo Gaetano Filangieri (1752-88) che lavorò all’imponente progetto della Scienza della legislazione (data alle stampe nel 1780): l’opera ebbe risonanza in Europa e oltre (anche Benjamin Franklin la accolse con entusiasmo), capace come era di incarnare molti degli ideali del secolo, affrontando temi di carattere giuridico, economico e morale e diventando un punto di riferimento per quel che riguarda la diffusione di nuovi ideali e la libertà di stampa.

Le diverse traiettorie degli illuministi
Fra gli anni Cinquanta e gli anni Ottanta, il movimento illuminista produsse orientamenti sempre più diversificati, man mano che si intensificavano gli scambi fra intellettuali e che iniziavano in alcuni Stati processi riformatori fondati sulle nuove idee.

Diderot, per esempio, si distinse sempre di più per la sua opposizione al potere assoluto, mentre Voltaire si mostrò molto più moderato, manifestando il suo apprezzamento per il modello inglese di monarchia costituzionale. Il filosofo francese di origine tedesca Paul Henri d’Holbach (1723-89) abbracciò un radicale materialismo e si prodigò in una feroce propaganda contro tutte le religioni, cercando di smascherare tutti coloro che ne sfruttavano le menzogne per affermare il loro potere e soggiogare i popoli. Altrettanto risoluto fu il messaggio lanciato da Guillaume-Thomas-François Raynal (1713-96), che affrontò temi spinosi come il commercio e la schiavitù rivolgendo accuse pesanti sia ai colonizzatori europei sia alla Chiesa [▶ fenomeni].

 >> pagina 55

  fenomeni

Le esplorazioni nell’età dei Lumi

Molti pensatori imbevuti di cultura illuminista considerarono i viaggi in terre sconosciute come una fonte cruciale per l’accrescimento delle conoscenze sulle società umane e sulla natura. Grande risonanza ebbero le esplorazioni della Siberia, della Lapponia, delle aree interne del continente americano. Tuttavia, i risultati più rilevanti arrivarono dalle iniziative di diverse istituzioni scientifiche sostenute dagli Stati (accademie, società regie, prima fra tutte la Royal Society inglese) che cominciarono a promuovere esplorazioni dell’Oceano Pacifico a partire dalla fine degli anni Sessanta del XVIII secolo. I dibattiti sulle società indigene e sulla natura dell’uomo conobbero una svolta: quel mare conteneva oltre 25 000 isole e copriva un terzo della superficie del globo.

Il navigatore e cartografo britannico James Cook (1728-79) fu inviato a Thaiti, approdò sulle coste orientali dell’Australia e su due isole della terra oggi conosciuta come Nuova Zelanda. Attraversò lo Stretto di Bering alla ricerca di un passaggio a nordovest fra gli oceani Atlantico e Pacifico. Provò l’esistenza dell’Antartico e arrivò alle Hawaii dove trovò la morte in uno scontro con gli indigeni. I resoconti delle sue imprese ebbero un successo editoriale notevole e furono tradotti in diverse lingue.

La volontà generale e il valore dell’apprendimento: l’opera di Rousseau
Il pensiero di Jean-Jacques Rousseau (1712-88) si presta ancor meno di quello dei suoi contemporanei a essere ricondotto a una corrente precisa. Nella sua visione, la storia umana non doveva essere considerata come un percorso orientato verso il progresso e la conquista di diritti, ma al contrario come una lenta decadenza segnata dall’allontanamento da un originario “stato di natura” fondato sulla convivenza pacifica. Nel Discorso sulle scienze e sulle arti del 1750, l’autore definiva i prodotti della creatività umana e i saperi come facenti parte di un sistema sociale che aveva coltivato corruzione e malcostume. Nel Discorso sull’origine della disuguaglianza fra gli uomini, realizzato quattro anni più tardi, la sua critica era diretta alle leggi e alle istituzioni che legittimavano la proprietà privata danneggiando i più deboli.
Nel Contratto sociale (1762) Rousseau immaginò la rifondazione delle regole che sono alla base di ogni comunità, suggerendo che ciascun membro decidesse di unire la propria volontà a quella degli altri, andando così a formare un corpo omogeneo collettivo in grado di garantire la difesa da sopraffazioni e abusi. L’individuo era quindi chiamato a essere “cittadino” (titolare di sovranità, sia pur condivisa), ma doveva allo stesso tempo dimostrarsi capace di rimanere “suddito”, garantendo fedeltà al potere che egli stesso aveva contribuito a creare. L’obiettivo del governo era perseguire il bene di tutti, rispettando i legittimi desideri e mettendo da parte pregiudizi ed egoismi. La presa di distanza dal contrattualismo seicentesco era evidente: senza postulare la presenza di uno stato naturale fondato sul caos o sulla sopraffazione, la sovranità assumeva con Rousseau una dimensione positiva, configurandosi come la somma di tante scelte soggettive e soprattutto come indivisibile.

 >> pagina 56 

Grazie al successo del romanzo pedagogico Emilio e del romanzo epistolare La Nuova Eloisa, egli riuscì a tenere viva l’attenzione su una parte delle sue teorie, celebrando il valore dell’educazione per la creazione di una società nuova, sulla tutela dell’innocenza dei giovani, sulla lotta alle disuguaglianze. Si inaugurava così un nuovo interesse per la pedagogia.

Il Caffè
L’aspirazione a una società fondata su nuove basi trovò espressione in Italia nella rivista milanese Il Caffè – diretta da diversi letterati fra i quali l’attivissimo Pietro Verri (1728-97) – che raccoglieva informazioni e recensioni sugli ultimi libri pubblicati, sul teatro e sulla musica, notizie politiche e diplomatiche, articoli legati a fatti di cronaca, riflessioni sulla religione, sulle mode e sulla morale, progetti finalizzati al raggiungimento della felicità pubblica e privata. L’esperienza, per quanto breve (il foglio fu stampato solo dal 1764 al 1766), fu molto significativa perché riuscì a raccogliere in un unico gruppo molti dei letterati vicini alla corte asburgica di Vienna e impegnati in concreti tentativi di riformare la macchina statale. Fra gli animatori, si distinse Alessandro Verri (1741-1816), fratello di Pietro, che si occupò anche di teatro traducendo le opere di Shakespeare e scrivendo drammi originali prima di affermarsi come romanziere [ 13].
Una nuova idea di giustizia
Nello stesso ambiente operò lo scrittore Cesare Beccaria (1738-94), che raggiunse la notorietà negli anni Sessanta grazie al libretto Dei delitti e delle pene. Ispirandosi a illustri pensatori come Locke e Montesquieu, portò avanti una critica serrata dei meccanismi che governavano il sistema giudiziario, affermando l’illegittimità della tortura e della pena di morte. Stando al punto di vista espresso dall’autore, si poneva l’assoluta urgenza di porre fine alla sovrapposizione fra procedure statali ed ecclesiastiche, garantendo il carattere pubblico dei processi e il diritto di difesa agli imputati. Era il contrario di quanto avveniva, per esempio, con l’Inquisizione, che fondava la sua azione repressiva sul segreto, costringendo le persone a deporre al buio, senza essere nemmeno informate sui contorni del caso e sulle accuse eventualmente pendenti sul loro capo.

L’idea portante del pensiero politico di Beccaria affidava al potere assoluto il compito si sorvegliare con mezzi equilibrati la società rendendola sicura, capace di fondarsi su criteri di uguaglianza e di garantire tranquillità a gruppi e individui. La sua scrittura – in particolare nel trattato Dei delitti – era caratterizzata da una straordinaria chiarezza, che le conferiva un potere comunicativo fuori dal comune. Grazie a queste qualità divenne oggetto di dibattiti in diversi Stati italiani ed europei – nel Granducato di Toscana ispirò una riforma del diritto che abolì la pena di morte – riuscendo a dare concretezza all’aspirazione illuministica di comunicare al maggior numero di persone possibili le nuove idee, facendole diventare la base costitutiva di processi di rinnovamento sociopolitico ed economico.

 >> pagina 57

Chiese e contropropaganda
La Chiesa cattolica, quelle protestanti e gli Stati meno disposti ad avviare progetti di riforma cercarono di reagire in diversi modi alla cultura illuministica e ai processi di rinnovamento che corrodevano il loro potere di influenza sul corpo sociale. Da un lato si continuò a ricorrere al ben conosciuto strumento della censura, con divieti di stampa e di vendita, messa al bando e, talvolta, persino roghi dei testi che erano ritenuti portatori di dottrine eretiche o lesive dell’autorità. Dall’altro lato si cercò di organizzare un’opera di contropropaganda fondata su un abile uso di tutti i mezzi disponibili, da quelli fondati sulla parola scritta fino alle immagini e alla comunicazione orale.

Furono messi sul mercato tantissimi testi (breviari, raccolte di preghiere, calendari e almanacchi sacri, vite di santi, persino romanzi edificanti) che puntavano implicitamente o esplicitamente il dito contro le idee illuministe. Furono promossi nuovi culti orientati a salvaguardare le gerarchie sociali esistenti, a prescrivere l’obbedienza verso le autorità costituite e a rilanciare l’alleanza fra trono e altare. Numerosi predicatori raggiunsero la celebrità organizzando grandi adunate nelle piazze delle città o nei pressi dei santuari rurali, definendo i filosofi e gli scrittori più noti (da Voltaire a Rousseau) come agenti della volontà di Satana [▶ protagonisti, p. 58].

Storie. Il passato nel presente - volume 2
Storie. Il passato nel presente - volume 2
Dal 1715 al 1900