16.1 L’area di lingua tedesca dopo il Quarantotto

Per riprendere il filo…

Il Congresso di Vienna aveva profondamente modificato l’assetto del Centro Europa. In particolare, i nuovi territori assegnati all’emergente potenza prussiana ne avevano rafforzato l’omogeneità nazionale e il ruolo nell’area germanofona, ora riorganizzata nella Confederazione germanica. Qui, nel trentennio successivo, una dura repressione aveva impedito ai fermenti sociali e liberalnazionali di sfociare in rivolte simili a quelle scoppiate altrove, mentre la lega doganale (Zollverein) promossa dalla Prussia nel 1834 contribuiva alla progressiva integrazione economica e culturale fra i paesi aderenti. Nel Quarantotto, molti sovrani erano però stati costretti ad aperture in senso liberale e un’assemblea era stata convocata per dar vita a una Germania unita e monarchico-costituzionale. A vanificare il tentativo del Parlamento di Francoforte erano stati però prima i contrasti al suo interno sulle modalità di unificazione, e poi l’esaurirsi della spinta e il rifiuto del re di Prussia di accettare la corona tedesca offertagli in extremis dai delegati.

16.1 L’area di lingua tedesca dopo il Quarantotto

Tanti Stati, una nazione
Dopo il fallimento del Quarantotto, il mondo germanofono restava frammentato dal punto di vista politico ma sempre più coeso dal punto di vista economico e nazionale.

Faceva in parte eccezione la Svizzera, che proprio nel 1848 aveva ridefinito il suo assetto liberale e federale con una nuova costituzione, aveva impedito la secessione tentata l’anno precedente dai cantoni gelosi delle loro antiche autonomie e aveva visto confermare l’adesione alla Confederazione da parte di tutti quelli a maggioranza tedesca [ 1]. Si era trattato di un passaggio cruciale, anche perché aveva smorzato le velleità di quei gruppi minoritari di svizzero-tedeschi che avevano invece sperato di staccarsi per poi magari confluire in una futura unità nazionale pangermanica.

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La grossa parte della popolazione germanofona risiedeva però negli Stati membri della Confederazione germanica, che restava un mosaico variegato per la scarsa incisività degli organi federali [▶ cap. 9.3], per le fratture confessionali fra cattolici e luterani e per la varietà degli assetti politico-istituzionali, che spaziavano da regimi reazionari come il Regno di Hannover a sistemi costituzionali come quelli del Regno di Baviera e del Regno di Württemberg.
Tuttavia, ciò non impediva ai sudditi degli Stati tedeschi di percepirsi sempre più come un unico popolo dagli interessi almeno in parte comuni. Sul piano politico e culturale proseguiva infatti la crescita della già ampia rete di associazioni professionali e sportive protagoniste dei moti liberali nei decenni precedenti e sempre più impegnate nella diffusione del messaggio nazionalista fra i ceti medi urbani in ascesa. Nonostante una discreta alfabetizzazione, una certa politicizzazione e gli effetti nazionalizzanti di prodotti culturali assai diffusi (le fiabe dei fratelli Grimm [▶ oggetti], i canti popolari, il mito di Arminio vincitore dei Romani), la causa nazionale restava però patrimonio di una – pur vasta – minoranza.
Sul piano economico, dagli anni 1840-50 vi fu una diffusa crescita industriale, un notevole sviluppo della rete ferroviaria e un aumento della produzione di ferro e carbone; mentre molti proprietari terrieri dalla spiccata vocazione imprenditoriale meccanizzavano le loro aziende e indirizzavano l’agricoltura verso prodotti rivolti principalmente al mercato, ed erano perciò interessati ai miglioramenti infrastrutturali e alla liberalizzazione dei commerci. Tutto ciò accrebbe il ruolo dello Zollverein [▶ cap. 9.3] [ 2], che al suo interno restava attraversato dalle tensioni fra i sostenitori del protezionismo e gli Stati intenti a favorire l’export delle loro industrie ormai competitive, ma che costituiva sempre più un efficace strumento d’integrazione economico-finanziaria. Non a caso il governo asburgico aveva cercato sin dal 1849 di esservi ammesso, nonostante le difficoltà che nell’immediato avrebbe avuto il sistema produttivo dell’impero nel competere con i prodotti stranieri senza lo scudo delle barriere doganali. Il tentativo fu respinto con successo dalla Prussia tenendo le tariffe troppo basse perché le industrie asburgiche potessero reggerle: nel 1853 fu infatti rinnovato il trattato di libera circolazione doganale e, fra 1863 e 1866, gli fu data un’ulteriore apertura con la ratifica di accordi commerciali con Francia e Regno Unito.
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A far calare un certo silenzio sulla questione nazionale almeno sino a metà anni Sessanta fu probabilmente l’effetto combinato di più fattori: la crescita economica, che placò il malcontento dei ceti inferiori e assorbì energie e interessi di quelli superiori; l’incapacità degli Stati minori di coagularsi per limitare l’influenza austro-prussiana, in larga parte dovuta a una lunga storia di particolarismo politico, a interessi non sempre convergenti e al timore di rappresaglie da parte di potenze molto più forti e ancora ambigue sul punto; infine, paradossalmente, la consapevolezza maturata dai movimenti nazionali di non poter fare a meno dell’appoggio di un forte Stato per concretizzare i loro progetti unitari. Restava però aperta la questione che aveva già paralizzato il Parlamento di Francoforte, quella cioè di quale paese membro della confederazione dovesse farsene carico. Le possibilità erano due:

  • la Prussia apparentemente avviata sulla strada del riformismo, come sosteneva la Società nazionale (Nationalverein) nata nel 1859 sull’onda della recentissima resa asburgica all’indipendentismo italiano [▶ cap. 13.3];
  • l’Austria, come auspicato soprattutto dagli Stati a maggioranza cattolica e da quelli di medio-piccole dimensioni del Centrosud, che temevano l’eccessiva invadenza di un’eventuale egemonia prussiana ed erano perciò disposti a immaginare una Germania unificata comprensiva anche delle folte minoranze presenti nell’Impero asburgico (ungheresi, slavi, rumeni, ebrei, ruteni, croati, italiani).

  oggetti

Le fiabe dei fratelli Grimm

Già prima dell’unità, e ancora per tutto l’Ottocento, il genere letterario della fiaba era uno dei cardini su cui si fondava e attraverso cui si diffondeva la cultura tedesca, non solo fra i bambini.

Fra il 1812 e il 1822 venne pubblicata quella che diventerà la più importante raccolta di fiabe di tutta la storia del folklore: i Kinder- und Hausmärchen dei fratelli Jacob e Wilhelm Grimm. La raccolta ebbe una notevole funzione propulsiva, sia perché avviò un’ec­cezionale produzione di studi sulla fiaba, sia perché fu da esempio per le molte raccolte di fiabe nazionali realizzate nel corso dell’Ottocento in tutta Europa. Lo scopo dei Märchen (Fiabe), che si affiancavano alla raccolta dei canti popolari (Volkslieder) di Ludwig Achim von Arnim e Clemens Bren­tano (Des Knaben Wunder­horn, 1805-08), era quello di dotare la Germania di un corpus di letteratura popolare nazionale in cui riconoscersi e di riportare alla luce la sua vera poesia popolare, eco di quel passato a cui era necessario rifarsi per ricostruire l’anima nazionale tedesca.

Gli autori consideravano i Märchen un’opera scientifica, che metteva per iscritto con la massima fedeltà le fiabe narrate dalla viva voce del popolo. Tuttavia, nelle sue diverse edizioni, l’opera subì ritocchi e ampliamenti che i Grimm giustificavano col principio secondo il quale per ricostruire la forma primitiva di una fiaba bisognava confrontare e integrare le sue diverse varianti, dal momento che ciascun racconto orale assumeva di volta in volta una forma e uno stile secondo il narratore. In realtà, numerosi studi hanno messo in luce come molte fiabe fossero giunte ai Grimm non direttamente dalla viva voce del popolo, ma attraverso una mediazione. Alcune dipendevano dalle novelle letterarie francesi (di Perrault), mentre altre riecheggiavano le fiabe italiane cinque-seicentesche contenute in Le piacevoli notti di Giovan Francesco Straparola e in Lo cunto de li cunti di Giovan Battista Basile.

Del resto, se c’è un genere letterario che non può dirsi “nazionale” è proprio la fiaba. Così, le storie, i personaggi, i temi e i motivi della rac­colta dei Grimm erano, paradossalmente, quasi sempre sovranazionali e internazionali al punto da rendere impossibile indicarne un’origine precisa.

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L’Impero asburgico
All’indomani del Quarantotto il divario in termini di solidità politica ed economica fra i due potenziali leader del processo di unificazione nazionale tedesco non era molto ampio. Le rivoluzioni avevano certo fatto vacillare l’Impero asburgico, ma ne avevano pure mostrato la capacità di reggere alle forze centrifughe al suo interno. E anzi avevano lasciato in eredità l’emancipazione contadina e altre conquiste utili non solamente a rinnovare i sistemi di produzione agricola ma anche a rafforzare l’industrializzazione nelle aree più progredite (Boemia, Moravia, Lombardia). Allo stesso modo, la pur tardiva partecipazione alla Guerra di Crimea aveva rimarcato ancora una volta il ruolo tutt’affatto marginale di Vienna nell’influenzare gli equilibri geopolitici europei [▶ cap. 12.3].

La forbice si andò però ampliando rapidamente, soprattutto dopo la dispendiosa sconfitta contro i franco-piemontesi del 1859-60 [▶ cap. 13.3], che costrinse gli Asburgo a difendere lo status di grande potenza spostando il baricentro della loro politica estera sull’area tedesca, e a farlo dovendo ridurre drasticamente la spesa pubblica e militare in particolare.

Sul piano economico, l’Impero asburgico reggeva infatti i ritmi di sviluppo della Francia e cresceva più della Porta ottomana e dell’Impero russo ma – ancor più dopo la cessione della ricca provincia lombarda – perdeva progressivamente terreno tanto rispetto a molti Stati della Confederazione germanica quanto alla Prussia. Ciò non solo per i costi connessi alla gestione dei suoi delicati equilibri interni e al suo ruolo internazionale, ma soprattutto per l’incapacità di estendere oltre le aree tradizionalmente più evolute infrastrutture e sistemi produttivi competitivi con la concorrenza straniera.

Parallelamente, difficoltà sempre più evidenti si profilavano in ambito amministrativo e istituzionale, dove a poco valsero gli sforzi di Francesco Giuseppe per contenere l’influenza slava e ungherese favorendo la borghesia di lingua tedesca. Né le timide concessioni racchiuse nella “patente di febbraio” del 1861 bastarono a soddisfare i liberali e tanto meno i popoli sottomessi. Il documento, che di fatto costituiva la nuova costituzione dell’impero, garantiva fra l’altro alle principali minoranze nazionali presenti nei territori asburgici una rappresentanza nel nuovo parlamento bicamerale (una elettiva, l’altra di nomina imperiale), il cui parere diventava vincolante su alcuni temi. Ma ciò non frenò ungheresi e cechi dal boicottarne i lavori, costringendo l’imperatore a scioglierlo e a dichiarare lo stato d’assedio. Nel frattempo, il forte centralismo abbinato alla crescente autonomia lasciata ai centri urbani finì per produrre un caotico “dualismo amministrativo” che, mirando a compensare i tradizionali poteri dei  Länder, palesava piuttosto l’incapacità dello Stato di controllare i suoi vasti territori.

Verso questa situazione erano particolarmente insofferenti i sudditi di nazionalità tedesca, che rafforzarono il loro senso di sprezzante alterità rispetto a slavi ed ebrei soprattutto nelle città, nelle aree in cui erano loro a essere in minoranza (Boemia, Sudeti) e nelle regioni dove le politiche di germanizzazione volute dal governo centrale erano vanificate dal più efficace Nation building orchestrato dalle élite ceche (la cosiddetta “riconquista ceca di Praga”). Eppure Vienna rimaneva ancora la capitale di un ampio e popoloso impero multinazionale, la cui corte era abituata a far coesistere dentro di sé identità nazionale e senso di appartenenza a un’entità politica imperiale.

Il Regno di Prussia
Anche la Prussia aveva i suoi problemi nella gestione di alcune minoranze (in primis i polacchi delle regioni orientali) e del proprio territorio, uno spazio non grande ma reso discontinuo dai possedimenti renani ricevuti nel 1815 [▶ cap. 7.3]. Tuttavia, se fino ai primi anni Cinquanta essa aveva al massimo reso più produttiva la sua agricoltura e quindi favorito una considerevole crescita demografica, di lì in avanti conobbe un progresso industriale senza pari in Europa. La rapida industrializzazione fu in parte conseguenza dell’onda lunga del processo iniziato in Inghilterra nel secolo precedente, ma dipese soprattutto dalla massiccia iniziativa statale nel promuovere il trasporto ferroviario, l’ industria pesante e quella militare: tutti settori essenziali per perseguire una  politica di potenza.

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Presupposto e motore dello sviluppo economico della Prussia e un po’ di tutta l’area tedesca fu però anche una fioritura scientifica e culturale tale da dotare il paese di uno dei più efficienti sistemi scolastici e universitari d’Europa, di intellettuali e scienziati di grande livello. In particolare, furono decisivi lo stretto nesso fra ricerca e didattica che caratterizzava l’università humboldtiana [▶ fenomeni] e un attivo associazionismo sempre più connotato in senso nazionalista (sopravvissuto sia ai rigidi controlli delle autorità sulla stampa sia alle epurazioni dei funzionari tacciati di simpatie liberali). Berlino divenne così la capitale morale del mondo tedesco e un polo d’attrazione per l’élite culturale germanofona dell’intera Europa centrorientale.
Dal punto di vista politico-istituzionale la Prussia era un regime formalmente parlamentare e costituzionale, dal momento che restava in vigore il suffragio universale maschile e che Federico Guglielmo aveva modificato ma non abrogato la Carta concessa nel 1848. In pratica, però, i vertici della politica, della burocrazia e dell’esercito continuavano a essere dominati dai membri della nobiltà terriera (Junker), i quali sfruttavano sia un sistema di voto non segreto, che lasciava sottorappresentati i ceti inferiori, sia gli ampi poteri garantiti al monarca e all’esecutivo rispetto al parlamento, la cui Camera dei signori di nomina regia prevaleva sulla Camera eletta lasciandole voto vincolante solo su questioni di bilancio.
Nel frattempo erano cambiati i protagonisti della scena politica prussiana. Nel 1861 era salito al trono Guglielmo I Hohenzollern. L’anno successivo la Camera eletta, in cui era maggioritaria la componente liberale, aveva bocciato perché troppo onerosa la riforma dell’esercito da lui voluta (aumento delle unità, allungamento della ferma, migliore addestramento ecc.). Il sovrano, allora, per attuare la riforma, decise di nominare  cancelliere il principe Otto von Bismarck [▶ protagonisti], uomo noto per determinazione e conservatrice fedeltà alla corona. Bismarck, infatti, dichiarò che in casi di disaccordo tra parlamento e sovrano, non essendoci indicazioni specifiche nella costituzione, doveva prevalere l’autorità del secondo. E fondò su questo assunto – oltre che sull’abilità nello sfruttare con cinico realismo le situazioni e i rapporti di forza di volta in volta esistenti (Realpolitik) – i suoi ambiziosi e spregiudicati progetti politici. All’interno, mirava infatti a contenere le istanze liberali e sociali, pure con la forza se necessario. In politica estera puntava invece a rafforzare la posizione internazionale del paese, per poi creare uno Stato nazionale tedesco a guida prussiana.
Era insomma questo paese – conservatore sul piano socio-politico ma in rapida ascesa economica e militare – a rappresentare un fattore sempre più cruciale nello scacchiere geopolitico continentale. Lo era certo già stato durante le guerre napoleoniche e il Congresso di Vienna [▶ capp. 6 e 7.3]. Lo era poi stato quando la sola minaccia di aderire alla coalizione antizarista in Crimea aveva contribuito a portare Alessandro II al tavolo delle trattative [▶ cap. 12.3]. E infine lo era stato nel 1859, quando aveva subordinato il suo aiuto agli Asburgo contro i franco-piemontesi al controllo delle operazioni militari in area tedesca, spingendo Francesco Giuseppe a rifiutarlo e a chiedere la pace a Napoleone III [▶ cap. 13.3]. Alla metà degli anni Sessanta era però ormai pronto ad assurgere al ruolo di indiscusso protagonista. E a farlo – come Bismarck aveva preannunciato in un discorso del 1862 – «non con i discorsi né con le deliberazioni della maggioranza […] ma col sangue e col ferro».

  fenomeni

La nascita dell’università moderna

Di origine medievale, in Europa le università erano nate con una vocazione prevalentemente professionalizzante (vi si formavano giuristi, medici) e di solito indipendenti dai poteri politici ed ecclesiastici. Attraverso i secoli, avevano poi conosciuto profonde modifiche, riducendo l’impegno nella ricerca e facendosi per lo più centro di formazione professionale al servizio dello Stato. Soggette anche alla concorrenza delle accademie e di altre scuole ispirate all’interesse illuminista per i saperi applicabili, a fine XVIII secolo le università offrivano ormai uno studio obsoleto e ripetitivo. A rivitalizzarle e a porre le basi della moderna idea di università giunse però la riforma promossa in Prussia da Wilhelm von Humboldt dopo la sconfitta contro Napoleone a Jena nel 1806. Consapevoli dell’importanza di una classe dirigente e di tecnici qualificati per il progresso economico e la forza militare di un paese, i riformatori prussiani dettero vita a un sistema universitario fondato su tre principi: libertà d’insegnamento, libertà di apprendimento e stretta connessione fra ricerca e didattica. Il finanziamento statale degli atenei e lo stipendio garantito ai professori aprivano al tempo stesso la carriera accademica agli studiosi più brillanti anche se non benestanti, consentendo loro di fare ricerca con tempi e strutture adeguati. I corsi trasmettevano così ai discenti i risultati di ricerche spesso innovative, contribuendo al progresso tecnologico e culturale del paese nonostante la frequenza di studi superiori restasse ristretta a una minoranza della popolazione.

Si realizzò dunque una proficua convergenza fra élite e classi produttive, fra cultura e industria, e fra università e interesse nazionale, che fece del modello prussiano un punto di riferimento per i principali paesi europei, perché capace di attrarre i migliori studenti da ogni dove, di sfornare alcuni dei più grandi intellettuali e scienziati del XIX secolo e di fornire laureati dotati delle competenze necessarie a promuovere l’industrializzazione, la scolarizzazione di massa e più in generale la modernizzazione del paese.

  protagonisti

Otto von Bismarck

I primi anni

Nato in Brandeburgo da una famiglia di Junker e presto trasferitosi a Berlino, Otto von Bismarck (1815-98) ebbe una gioventù disordinata, studiando poco e malvolentieri, superando a stento l’esame di ammissione all’amministrazione prussiana, mal sopportando il servizio militare e finendo con il ritirarsi a vita privata per amministrare le proprietà familiari. La svolta venne nel 1847, quando fu chiamato a sostituire un delegato nella Dieta prussiana e guadagnò fama fra i conservatori per la forza oratoria con cui sosteneva le sue posizioni antiliberali. Fu così scelto come delegato alla Dieta federale di Francoforte, ma l’autonomia che pretendeva dal governo in nome delle sue idee reazionarie e il coinvolgimento nel­la sanguinosa repressione post 1848 spinsero Guglielmo ad allontanarlo, inviandolo come ambasciatore presso lo zar e poi presso Napoleone III.

Bismarck cancelliere

Richiamato nel 1862 come cancelliere, “von Bismarck” – come ormai si firmava per rimarcare l’origine aristocratica – mostrò di non aver perso la tendenza agli eccessi (nel bere, nel mangiare, nel fumare) e la ritrosia alle esigenze di rappresentanza, ma anche di saper compensare la poca esperienza politica e l’ancor minore propensione al confronto (le discussioni gli provocavano crisi nervose) con una lucida capacità d’analisi della situazione interna e internazionale, una strategia lungimirante, una sagacia diplomatica unica e un’abilità oratoria in grado di affascinare sovrani ben più colti di lui (lo zar Alessandro, la regina Vittoria e lo stesso Guglielmo I, più volte convinto ad avallarne le opinioni). Antiliberale quanto fedele alla corona, Bismarck comprese però l’importanza che l’opinione pubblica e un certo grado di parlamentarismo avevano per i governi moderni, riuscendo a manipolarli e sfruttarli a vantaggio suo e del suo paese; così come colse il ruolo decisivo dello sviluppo industriale e infrastrutturale nei rapporti di forza militari, oltre che economici. Da cancelliere prussiano e poi del­l’Impero tedesco, Bismarck seppe però soprattutto dosare accelerazioni e rischi con frenate e attese, riuscendo a egemonizzare la scena politica europea per un trentennio e centrando l’obiettivo di tutta una vita: costruire uno Stato tedesco unito e potente.

16.2 La guerra austro-prussiana e la Duplice monarchia asburgica

Dalla prudenza all’azione

Federico Guglielmo era stato sempre molto accorto a non entrare in aperta rotta di collisione con l’Impero asburgico, anche quando ve ne era stata l’opportunità (come durante la Guerra di Crimea e quella del 1859). Ciò sia perché era ancora un nemico temibile sia per il pericolo rappresentato dall’attivismo francese, che pareva mirare non solo alla penisola italiana ma anche ai territori renani. Il suo successore regnava invece su un paese ormai modernizzato e industrializzato, dotato di un potente apparato militare e detentore del primato economico e ideale all’interno della Confederazione germanica. Perciò, poteva finalmente raccogliere i frutti di un sorpasso avvenuto ben al di là della percezione diffusa in Europa. Così, poiché il primo ostacolo al progetto di unificazione tedesca sotto l’egida prussiana era rappresentato dalla concorrenza interna dell’Impero asburgico, Guglielmo I e Bismarck colsero la prima occasione utile per estrometterlo dalla confederazione. Nonostante i pressanti problemi interni, un esercito impreparato e un atteggiamento verso la potenza prussiana che oscillava fra netta contrapposizione e ricerca di una leadership condivisa, nel 1866 l’imperatore si fece ingenuamente attrarre nella trappola tesa da Bismarck.

Nel 1863 l’ascesa al trono danese per  via semisalica di Cristiano IX aveva riaperto la questione dei rapporti fra il Regno di Danimarca e i ducati di Holstein e Schleswig, legati in unione personale secondo la  legge salica al suo predecessore, e quindi teoricamente liberi di non accettarlo come sovrano. D’altro canto, all’interno dei due ducati la maggioranza degli abitanti era tedesca. E, anche dove invece prevalevano i danesi come nello Schleswig, la minoranza tedesca concentrata nel sud del ducato aveva già tentato la secessione per unirsi alla Prussia, combattendo la cosiddetta Prima guerra dello Schleswig (1848-52) ma finendo per soccombere all’esercito danese e all’avversione degli Asburgo e delle principali potenze a un rafforzamento prussiano nell’area.
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Così, rischiando di perderne il controllo, nel 1863 Cristiano decise di annettere lo Schleswig alla Danimarca, scatenando le proteste della minoranza tedesca e della Confederazione germanica. Questa volta, per prevenirne ogni opposizione all’azione militare prussiana, Bismarck ebbe però la furbizia di coinvolgere Francesco Giuseppe come alleato nel conflitto contro la Danimarca. La cosiddetta Seconda guerra dello Schleswig fu così rapidamente vinta, occupando sia l’Holstein che lo Schleswig (1864).

A quel punto, il cancelliere prussiano poté fare dell’ancora incerto destino delle zone d’occupazione il pretesto per un ulteriore conflitto. Non gli restava che convincere Guglielmo I che gli Asburgo volevano estrometterlo dagli affari tedeschi ed era perciò necessario combattere il suo tradizionale alleato antifrancese. Presto ci riuscì: iniziava così nel giugno del 1866 la Guerra austro-prussiana.

L’eccessivo ottimismo asburgico, che si fondava soprattutto sul numero dei soldati e sull’appoggio ricevuto dai principali Stati della Confederazione (Assia, Hannover, Sassonia, Baviera, Württemberg), fu presto spazzato via dalla superiorità diplomatica, tecnologica e militare del nemico. Infatti, il contributo degli staterelli tedeschi del Nord (l’Oldenburg, il Meclemburgo) schieratisi al fianco della Prussia soprattutto per timore di ritorsioni fu militarmente irrilevante. Ma l’alleanza con l’Italia siglata ad aprile (e favorita da Napoleone III per approfittare di un’ulteriore destabilizzazione della situazione europea) impose all’esercito asburgico di dividersi su due fronti, riducendone di molto il vantaggio numerico. Inoltre, un tessuto infrastrutturale e industriale ben più evoluto consentì alle truppe di Guglielmo I e dei piccoli Stati tedeschi suoi alleati di mobilitarsi rapidamente e di contare su armi più efficaci. Infine, l’abilità del generale prussiano Helmuth von Moltke e l’imprudenza dei comandanti asburgici fecero il resto, portando l’armata di Francesco Giuseppe alla clamorosa sconfitta di Sadowa (3 luglio 1866) [ 3] e alla resa sancita con la Pace di Praga (23 agosto 1866).

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Mentre le speranze francesi di veder indebolirsi a vicenda prussiani e austriaci furono frustrate dalla rapidità della vittoria, gli Asburgo furono costretti non solo a cedere il Veneto all’Italia [▶ cap. 14.5] e a pagare a Guglielmo ingenti danni di guerra, ma anche a riconoscere lo scioglimento della Confederazione germanica e l’istituzione, al suo posto, della Confederazione della Germania del Nord [ 4]. La nuova entità politico-economica, dotata di un governo (Bundesrat) e di un parlamento (Reichstag) a presidenza prussiana, riunì i territori tedeschi a nord del fiume Meno, escludendo l’Austria e gli Stati meridionali a maggioranza cattolica, come la Baviera e il Württemberg, ancora filoasburgici nonostante la sconfitta.

La Prussia, che nel frattempo aveva annesso l’Elettorato di Assia e l’Hannover, avrebbe senza dubbio potuto ottenere di più dal punto di vista sia territoriale sia simbolico, con Guglielmo e i vertici militari che avevano persino accarezzato l’idea di umiliare gli Asburgo prendendo Vienna e occupando tutti gli Stati tedeschi suoi alleati. Ma Bismarck scelse saggiamente di non stravolgere gli equilibri interni e internazionali, conscio tanto dei rischi derivanti dal senso di rivalsa austriaco e dal possibile intervento zarista contro una Prussia accresciutasi oltremisura, quanto delle difficoltà connesse all’eventuale occupazione degli Stati meridionali cattolici.

La Duplice monarchia asburgica

Quella che i prussiani chiamarono ironicamente “Guerra delle Sette settimane”, e che per gli italiani era invece stata la cosiddetta “Terza guerra d’indipendenza”, rappresentò quindi una cesura netta nella storia dell’Impero asburgico, i cui effetti non tardarono a farsi sentire tanto sui rapporti internazionali quanto sui precari equilibri interni.

A livello internazionale, parvero ormai evidenti le difficoltà di quella che era stata la grande potenza terrestre d’Europa e l’arbitro dei destini continentali sin dal Congresso di Vienna, ora tagliata fuori sia dalla penisola italiana sia dal mondo tedesco e costretta a guardare ai Balcani quale unica area di possibile espansione. 

La situazione interna, invece, era ben fotografata dalle parole del segretario di Stato pontificio Giacomo Antonelli subito dopo Sadowa. Nel suo sconsolato «Un mondo casca» c’era infatti la consapevolezza delle conseguenze economiche, demografiche e politiche dell’umiliazione e delle cessioni territoriali subite. Intaccata nel suo prestigio e con le casse vuote, la monarchia si trovava a gestire un impero in cui gli italiani erano ormai un’esigua minoranza, mentre i tedeschi erano circa la metà degli slavi e più o meno gli stessi degli ungheresi.

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La rottura dei tradizionali equilibri etno-demografici si tradusse in una ripresa delle rivendicazioni nazionaliste slave e magiare. In cambio della loro fedeltà all’imperatore e della rinuncia all’indipendentismo quarantottesco, i liberali ungheresi ottennero la cosiddetta “legge del compromesso” del 1867. L’impero si divideva in due entità, la  Transleitania (il Regno d’Ungheria) e la  Cisleitania (Austria, Boemia, Moravia, Dalmazia, Tirolo) [ 5]. Esse erano dotate di governi e parlamenti autonomi ma restavano unite da un consiglio esecutivo con i tre ministeri competenti nelle materie comuni (finanze, esteri e difesa) e da un esercito imperial-regio unico, le cui riserve erano però ora divise fra la Honvéd ungherese e la Landwehr austriaca. A incarnare questa unione era poi la persona di Francesco Giuseppe, che regnava quale imperatore in Cisleitania e re d’Ungheria in Transleitania.

Sebbene il compromesso non facesse altro che formalizzare un dualismo che nei fatti esisteva ormai da tempo, si trattava di una costruzione istituzionale tanto fragile quanto artificiosa, perché pretendeva di tenere insieme l’unità dell’impero e la sovranità degli Stati, presupponendo una reciproca volontà di conciliazione in realtà perlopiù assente. Ne scaturiva un’entità che, in senso figurato, poteva ancora chiamarsi “Impero asburgico”, ma una cui precisa definizione generò non a caso evidenti imbarazzi, almeno sino al rescritto imperiale del novembre 1868 che ne fissava il nome di Monarchia austro-ungarica (o Duplice monarchia), eliminando la parola “Impero” sgradita agli ungheresi [ 6]. Soprattutto, pur appianando i rapporti austro-ungheresi, il “compromesso” non risolveva né i problemi connessi all’eterogeneità delle aree cisleitane, denominate significativamente con l’astratta formula di “Territori e regni rappresentati al parlamento dell’impero”, né le delicate relazioni fra i magiari e le minoranze stanziate nel Regno d’Ungheria. Non risolveva nemmeno la “questione slava”, la cui accelerazione produsse sia la maturazione di un antisemitismo e di un antislavismo aggressivi a Vienna e a Praga non meno che in Germania (a smentire il presunto Sonderweg tedesco), sia i presupposti per le convergenze fra socialismo e nazionalismo che – in particolare sotto la spinta del caso ceco – proprio in Austria-Ungheria si sarebbero meglio realizzate sul finire del secolo e poi nel Novecento.

Era questo lascito di tensioni interne, frustrate ambizioni imperialiste e insistiti quanto velleitari tentativi di modernizzazione economico-istituzionale a minare nelle fondamenta l’edificio costruito durante la secolare storia della dinastia asburgica.

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16.3 La Guerra franco-tedesca

La Prussia bismarckiana dopo la vittoria
Quella austro-prussiana era dunque stata una guerra voluta da governi all’interno di studiate logiche geopolitiche, piuttosto che il frutto delle pressioni popolari a favore della causa nazionale. E infatti era stata espressamente condannata dai movimenti nazionalisti in quanto fratricida e causa di forzate divisioni fra gli Stati dello Zollverein. Bismarck tuttavia sapeva che si trattava di un passo obbligato sulla strada dell’unificazione sotto l’egida prussiana. Così come sapeva che il Regno Unito e l’Impero russo avevano assunto un atteggiamento neutrale per non fomentare le intemperanze e i progetti pangermanisti vagheggiati dalle opinioni pubbliche degli Stati tedeschi minori, sempre più imbevute di nazionalismo. Da ciò derivava la cauta gestione della vittoria, utile anche a rimandare il secondo e più temuto scontro necessario a completare il suo progetto, quello contro la Francia, che si opponeva a ogni ipotesi di rafforzamento prussiano in Europa centroccidentale.

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Così fra 1866 e 1870 Bismarck si preoccupò soprattutto di preparare la guerra contro Napoleone III, mentre il governo a guida prussiana della Confederazione del Nord procedeva a una più stretta integrazione dell’area tedesca e a una sua uniformazione a norme e usi prussiani: furono resi comuni i passaporti e il sistema postale, la leva fu riformata seguendo il modello prussiano e, nel 1867, accordi doganali furono conclusi anche con importanti Stati meridionali come la Baviera, il Württemberg e il Baden. Insomma, la “prussianizzazione” della Germania procedeva rapida ed efficace, facilitata pure dal fatto che era prussiano circa il 90% della popolazione e del territorio della Confederazione.

Sul fronte interno, Bismarck non sfruttò la vittoria per un’ulteriore stretta autoritaria dopo l’esautorazione del parlamento del 1862. Al contrario ne ripristinò le funzioni, seppur limitate a pareri consultivi. Con questa mossa ottenne molti vantaggi. In primo luogo, spaccò il fronte degli avversari liberali, avvicinando a sé la maggioranza convinta di poter così dare un contributo al progressivo ammodernamento istituzionale del paese. In secondo luogo, trovò appoggio fra le classi medio-alte, il cui contributo era decisivo nel sostenere gli sforzi per l’unificazione nazionale e nel limitare l’influenza dei conservatori più estremisti e dei vertici militari. Infine, guadagnò consensi nelle élite liberali filoasburgiche degli Stati meridionali, preoccupate dalla fama autoritaria della dinastia protestante prussiana ma altrettanto infastidite dalla piega reazionaria presa dalla Chiesa con il Syllabus [▶ cap. 10.5].

Sul fronte esterno, il cancelliere prussiano si mosse in due direzioni. Da una parte si assicurò la neutralità del Regno Unito (tradizionalmente diffidente verso la Francia) e dell’Impero russo (interessato all’avallo prussiano alle sue mire espansioniste nei Balcani a danno degli Asburgo e del sultano ottomano) di fronte alle provocazioni con cui intendeva costringere Napoleone III alla guerra. E, una volta ottenutala, prima si oppose al tentativo francese di acquisire il Granducato del Lussemburgo e poi appoggiò la candidatura di un Hohenzollern al traballante trono di Spagna [▶ cap. 15.3] [ 7]. Dall’altra, cavalcò e alimentò il crescente sentimento nazionalista e antifrancese che percorreva l’area tedesca rinfocolato dalla crisi lussemburghese. In questo modo, pur stentando a far breccia al Sud, diventava sempre più punto di riferimento per liberali e nazionalisti degli Stati tedeschi centrosettentrionali. Tanto più che questi non erano stati vittime come i prussiani dell’autoritarismo bismarckiano del 1862-66, e quindi erano a maggior ragione favorevoli a un’unificazione sotto la Prussia che pareva garantire un’amministrazione più efficiente, i vantaggi materiali derivanti da una ancor più stretta integrazione economica e un governo costituzionale.

La guerra franco-tedesca

Napoleone III era stato invece imprudente a indebolire l’Impero asburgico con la guerra del 1859-60 [▶ cap. 13.3]. In più, aveva sopravvalutato le sue forze e sottovalutato il concreto rischio di non trovare alleati contro la Prussia. Tuttavia, nel luglio 1870 egli era restio allo scontro, per cui l’opinione pubblica interna al contrario premeva [▶ cap. 15.3]. Al contrario Bismarck spingeva ormai decisamente per avviare le ostilità. Sia perché lo riteneva l’unico modo per eliminare una volta per tutte il pericolo di un’alleanza franco-asburgica tesa ad accerchiarlo, invano promossa da Napoleone III in quei mesi. Sia per il timore di un progressivo rafforzamento militare che in un prossimo futuro rendesse la Francia un nemico ancora più temibile.

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Consapevole del diffuso sentimento antiprussiano e del peso che la piazza aveva nel regime bonapartista, il cancelliere colse l’occasione di un incontro fra il sovrano prussiano e l’ambasciatore francese sulla crisi dinastica spagnola per provocare l’opinione pubblica della controparte con un dispaccio modificato apposta (il cosiddetto “telegramma di Ems”) [▶ FONTI, p. 510] e spingere Napoleone III a dichiarare guerra.

Rispetto a quello del 1866, il conflitto assunse una più forte connotazione nazionale, per la benedizione ricevuta da tutti i movimenti nazionalisti, sia per il trattamento riservato ai civili di nazionalità nemica (furono oltre 40 000 i tedeschi espulsi da Parigi), sia per l’adesione in blocco della Confederazione della Germania del Nord e degli Stati meridionali: tutti elementi che facevano di quella che ancora oggi viene discutibilmente chiamata “guerra franco-prussiana” una vera e propria guerra franco-tedesca.

Più del contributo degli Stati tedeschi, della neutralità delle altre potenze e della superiorità negli armamenti, decisiva fu la capacità prussiana di mobilitazione (grazie a una coscrizione ampia) e spostamento (grazie al sistema ferroviario) contrapposta alle fatali indecisioni dei comandanti francesi, vanamente protesi alla difesa della fortezza di Metz e poi sconfitti nella decisiva battaglia di Sedan (1° settembre 1870). Così, Napoleone III si consegnò al nemico e il 2 settembre firmò la capitolazione, aprendo la strada alla Comune parigina e alla Terza Repubblica [▶ capp. 15.3 e 15.4] [ 8]

Occupata gran parte del paese e assediata la capitale in rivolta, Bismarck poté imporre durissime condizioni di pace alla neonata Repubblica francese allo scopo di umiliarla, dando seguito al bellicismo nazionalista su cui si era fondata la retorica della mobilitazione, e di renderla perpetuamente inoffensiva in quanto considerata poco affidabile, tanto più dopo il repentino cambio di regime. Perciò, oltre a pagare una ingente indennità, la Francia fu costretta a cedere Alsazia e Lorena, regioni strategiche sia per le ricchezze minerarie e per il buon livello d’industrializzazione, sia per la funzione di cuscinetto utile a difendere il territorio tedesco da futuri attacchi francesi lungo il Reno meridionale. Si trattava in effetti di aree mistilingue franco-tedesche, ma Bismarck non si fece scrupolo di rivendicarle e ritagliarle in base a un uso evidentemente strumentale del principio di nazionalità, che escludeva porzioni germanofone austriache e includeva invece l’area di Metz, i cui 200 000 francofoni – diceva – avevano solo “dimenticato” la loro vera identità nazionale.

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16.4 L’unificazione della Germania e il Secondo Reich

La nascita di una grande potenza

A vittoria acquisita, Bismarck avviò le trattative con gli Stati meridionali per stabilire i termini della loro inclusione nel nascente Stato nazionale tedesco, non esitando a fare concessioni ai più influenti e persino a corrompere i sovrani più riottosi, come quello bavarese. Il risultato di questa pressante ma prudente serie di negoziazioni fu la proclamazione del nuovo Impero tedesco [ 9], chiamato “Secondo Reich” per sottolinearne la continuità con il Sacro Romano Impero. La scelta di sancire la nascita dello Stato unitario nella Reggia di Versailles (18 gennaio 1871) mirava fra l’altro a umiliare gli sconfitti e a suggerire la staffetta fra Francia e Germania nella leadership continentale. Parimenti, l’apparato retorico-iconografico, la cerimonia e il nome attribuito al nuovo Stato ne mostrarono sin da subito le caratteristiche [ 10].

L’impero tracciava i suoi confini in funzione dei propri interessi economici e geopolitici piuttosto che secondo una coerente applicazione del principio di nazionalità. Infatti, dove c’erano massicce comunità germanofone si adottò la dimensione linguistica come criterio di classificazione, secondo l’uso di molti censimenti europei del tempo. Ma poi la si abbandonò nella parte settentrionale dello Schleswig e nei territori orientali dell’impero, dove erano tanti i parlanti rispettivamente danese e polacco. Allo stesso modo, mentre nei territori strappati alla Francia l’appartenenza nazionale era stata determinata in base alla presunta origine degli abitanti, indipendentemente da successive contaminazioni e dal loro desiderio di entrare nel Reich, un’idea “volontarista” fu richiamata per giustificare la nascita della Germania unita che era presentata come uno Stato-nazione fortemente voluto dai milioni di tedeschi, prima frazionati in tanti Stati.

Usato strumentalmente l’argomento nazionale per legittimare esistenza e frontiere, il nuovo Impero tedesco lasciava in realtà un ruolo marginale ai movimenti nazionali e liberali (che rifiutavano il termine “impero”). I deputati della Confederazione della Germania del Nord non furono invitati a Versailles; non fu scelto un inno, lasciando in uso l’inno di guerra prussiano; la principale festa nazionale fu fissata nell’anniversario di Sedan piuttosto che il 18 gennaio e la bandiera rinunciava in parte ai colori del nazionalismo tedesco per far posto a elementi del vessillo dinastico prussiano [ 11].

Storie. Il passato nel presente - volume 2
Storie. Il passato nel presente - volume 2
Dal 1715 al 1900