15.2 Il Secondo Impero

15.2 Il Secondo Impero

Le caratteristiche di un regime nuovo

La svolta istituzionale del 1851 segnò la nascita del cosiddetto “Secondo Impero”. Nonostante il richiamo al passato contenuto nel nome, il regime nasceva in una situazione e con premesse molto diverse da quelle dell’impero napoleonico. Esso rappresentava una novità non tanto perché Napoleone III si poneva come garante insindacabile della volontà popolare in opposizione all’insieme delle forze politiche e parlamentari descritte come litigiose e interessate solo al loro utile particolare. L’originalità del nuovo corso stava piuttosto nel suo fondarsi su un mix di carisma, autoritarismo centralista, ▶ demagogia e richiami rivoluzionari:

  • il carisma era in larga parte legato ai fasti della dinastia;
  • l’autoritarismo trovava espressione nella repressione dei dissidenti e nell’accentramento amministrativo demandato a un’efficiente burocrazia di nomina imperiale;
  • la demagogia era evidente sia nel massiccio uso degli strumenti di organizzazione del consenso (celebrazioni, stampa) sia nel frequente ricorso al plebiscito in funzione legittimante;
  • l’uso strumentale della memoria rivoluzionaria s’intrecciava ai sinceri convincimenti che Luigi Napoleone aveva maturato negli anni in cui aveva attivamente cospirato con liberali e carbonari contro l’autocrazia papale (1830) e contro la monarchia orleanista (1836 e 1840).

Il “bonapartismo” finiva così per configurarsi come lo stesso Luigi Napoleone lo aveva descritto già nel 1839 parlando dell’esperienza dello zio Napoleone I, ossia come una posizione priva di una precisa identificazione ideologica e partitica, forte del sostegno dei militari e particolarmente attenta ad ammantare di democrazia un rapporto con le masse in realtà di natura sostanzialmente dittatoriale.

Il nuovo regime restava però fragile, soprattutto a causa della scarsa identificazione del suo variegato blocco sociale con la pur vaga ideologia bonapartista. Di fatto esso si reggeva sulle profonde divisioni fra le varie anime dell’opposizione e sulla diffusa paura per l’instabilità politica e per le sue ricadute su un’economia già segnata dalle difficoltà dei tardi anni Quaranta. Non stupisce perciò che, per evitare di mettere a rischio un equilibrio ben più precario di quanto suggerissero i risultati plebiscitari, Napoleone passasse gli anni fra il 1853 e il 1857 a occuparsi per lo più di politica estera e della modernizzazione dell’economia, sfruttando la fase espansiva postcrisi e al contempo alimentandola con una sempre più incisiva, organica ed efficace azione statale mirata all’ammodernamento del sistema produttivo, infrastrutturale, finanziario e urbanistico [ 3].
Crescita economica, modernizzazione e tecnocrazia

Sebbene favoriti dalla fase di generale espansione economica che l’Europa stava vivendo in quegli anni [▶ cap. 10.1], i provvedimenti napoleonici furono determinanti nel favorire e poi nel sostenere l’aumento dei consumi [ 4] e la prima ondata di industrializzazione francese, che si era avviata negli anni Quaranta ma che nel decennio successivo accelerò significativamente. In circa dieci anni, Napoleone III realizzò:

  • le riforme in materia di diritto societario, come la legge che permetteva di costituire ▶ società anonime e quindi facilitava la raccolta dei capitali per avviare imprese industriali mediante la vendita di loro quote azionarie;
  • l’ammodernamento dei tre principali porti del paese (Marsiglia, Le Havre e Saint-Nazaire);
  • una certa “democratizzazione del credito” con la progressiva emancipazione del sistema creditizio dall’oligopolio dell’Alta Banca [▶ cap. 9.3] e la nascita di istituti con filiali in tutto il paese dediti ai prestiti a lungo termine e al credito industriale o commerciale (il Crédit Mobilier dei fratelli Péreire, il Crédit lyonnais, il Crédit industriel et commercial).

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Un contributo notevole all’espansione dell’economia nazionale lo dette anche la maggiore integrazione nei mercati commerciali e finanziari internazionali. Da una parte si registrarono massicci investimenti di capitali francesi in banche e grandi opere all’estero (la Banca imperiale ottomana, la Banca d’Indocina, il canale di Suez), incoraggiati dal governo in quanto strumenti di penetrazione economica e di influenza su Stati o regioni strategiche per la politica estera napoleonica. Dall’altra, vi fu la svolta liberista sancita nel 1860 dal trattato commerciale con il Regno Unito [▶ cap. 12.1]. Esso non solo abolì i reciproci dazi e divieti d’esportazione e importazione per dieci anni ma – mediante il meccanismo della clausola della nazione più favorita – fece sì che i successivi accordi bilaterali stretti dalla Francia con diversi altri paesi producessero un continuo e generale abbassamento delle tariffe doganali in larga parte d’Europa, con beneficio per le esportazioni di prodotti francesi e una più agevole acquisizione di materie prime e tecnologie estere.

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La crescita economica giocò un ruolo importante nella retorica autocelebrativa del regime ed ebbe effetti importanti anche sulla composizione della sua classe dirigente. Costretto ad adeguare l’apparato amministrativo alle esigenze connesse alla modernizzazione dell’economia e della macchina statale, il regime annoverò un numero crescente di tecnici altamente specializzati e ingegneri. Ciò dette alla burocrazia imperiale un carattere sempre più tecnocratico e fornì contributi intellettuali importanti – Comte, il sansimonismo – nel definire la filosofia positivistica e l’idea di progresso che caratterizzavano la cultura europea in questa fase [▶ cap. 10.3].
Ricostruire l’impero

Nel regime bonapartista politica estera e interna erano legate in modo particolarmente stretto. Ciò perché, poggiando su un consenso sempre piuttosto labile, per durare esso doveva distogliere l’attenzione dalle questioni interne e abbagliare l’opinione pubblica rinverdendo il mito della grandeur imperiale.

Fu in quest’ottica che, fra il 1853 e il 1858, Napoleone:

  • sottomise definitivamente la resistenza delle popolazioni locali [▶ cap. 9.2] facendo dell’Algeria una parte del territorio francese dove inviare oltre 10 000 indigenti;
  • prese il Senegal, pur conservandovi prudentemente i capi tradizionali;
  • sollecitato anche dagli ambienti finanziari e industriali desiderosi di sbocchi nei grandi mercati asiatici, organizzò vittoriose spedizioni militari in Cina a sostegno dei britannici impegnati nella Seconda guerra dell’oppio (1857-58) [▶ cap. 12.2].

Il momento di gran lunga più importante nella politica estera napoleonica di questa fase fu però la vittoriosa partecipazione alla Guerra di Crimea del 1853-56 [▶ cap. 12.3]. La decisione di intervenire rispondeva a diverse esigenze, fra cui soprattutto la ricerca di prestigio e del plauso dei cattolici per la difesa dei luoghi sacri nella Palestina ottomana dalle pretese degli ortodossi, appoggiati dallo zar.

In realtà, il protrarsi di un conflitto tanto sanguinoso procurò al regime l’ostilità non solo dell’opinione pubblica, colpita dalle atrocità della guerra, ma anche del mondo degli affari, danneggiato nei suoi commerci mediterranei e nelle relazioni con i mercati dell’Est. Tuttavia, la vittoria della coalizione franco-ottomano-britannica segnò comunque il ritorno della Francia al centro della politica europea. Parigi fu scelta come sede dei trattati di pace. Inoltre, la Francia accrebbe la sua influenza negli affari interni dell’Impero ottomano, sia mediante una massiccia penetrazione finanziaria, sia sfruttando il ruolo di protettore delle locali comunità cristiane che Napoleone aveva strumentalmente assunto e che gli consentiva di inviare contingenti laddove il sultano non faceva abbastanza per rispettare gli obblighi sanciti dalla pace del 1856 [▶ cap. 12.3]. Infine, a margine della Pace di Parigi, Napoleone ottenne l’avallo zarista al suo progetto di scalzare gli Asburgo dalla penisola italiana per farne un’area d’influenza francese, magari trovando un accordo con il Regno di Sardegna a sua volta uscito rafforzato dal conflitto e avviato da Cavour sulla strada della modernizzazione  [▶ cap. 13.2].

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La svolta del 1858 e l’indipendenza italiana
La situazione cambiò a partire dal 1858. Nel 1857 i risultati delle elezioni erano stati deludenti, con l’astensionismo al 35% e una forte crescita del Partito repubblicano in tutti i grandi centri. L’anno successivo, inoltre, Napoleone subì un attentato da parte del patriota italiano Felice Orsini, che lo considerava un ostacolo all’unità d’Italia per il ruolo avuto nel crollo della Repubblica romana del 1849 e nella difesa del papato [▶ cap. 11.6].

L’imperatore decise allora di allearsi segretamente con il Regno di Sardegna e poi di combattere assieme contro gli Asburgo nel 1859 [▶ cap. 13.2], sperando di ottenere così un duplice obiettivo: da un lato, accelerare i suoi progetti egemonici sull’Italia per disinnescare i rischi derivanti dall’instabilità della regione; dall’altro, ingraziarsi le masse urbane, i liberali e i repubblicani meno intransigenti, sensibili alle cause nazionali e avversi a una potenza conservatrice come l’Impero asburgico.

Le vittorie sul campo non valsero però a Napoleone III né vantaggi in chiave geopolitica né la popolarità sperata. Al contrario, non solo il sostegno alla causa italiana incontrò l’opposizione dei clerico-conservatori, preoccupati per le sorti del potere temporale del papa, ma si rivelò un gravissimo errore strategico. Le polemiche interne e l’imprevista annessione al Regno di Sardegna di vasti territori tosco-emiliani lo costrinsero a chiudere rapidamente la pace separata di Villafranca con Francesco Giuseppe, ad accettare la nascita di un’Italia più grande e autonoma di quella che aveva immaginato firmando gli accordi di Plombières (limitata al Nord della penisola e sottoposta all’influenza francese), nonché a garantire con un proprio contingente i confini del mutilato Stato pontificio contro i tentativi annessionisti dei garibaldini e le dichiarazioni d’intenti cavouriane [▶ capp. 13.2 e 14.2]. Ancor peggio, il duro colpo inferto all’Impero asburgico aprì la strada al protagonismo della Prussia nell’Europa centrale di lingua tedesca, Prussia che presto avrebbe considerato la Francia un nemico da abbattere per compiere l’unificazione territoriale della Germania e affermarne quindi il primato continentale.

Gli altri azzardi in politica estera
Parallelo alle incaute mosse in Europa proseguiva l’espansionismo coloniale. Successi si registrarono soprattutto in Indocina, dove la Francia stabilì un protettorato in Cambogia (1863) e prese la Cocincina (l’attuale Sud del Vietnam) dopo una lunga guerra e successivi scontri con l’Impero vietnamita (1858-62), al tempo detto “Impero annamita” dal nome di una sua regione [ 5].

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Si trattava di risultati non disprezzabili, che però furono offuscati dal rovinoso fallimento dell’iniziativa intrapresa in Messico. Sfruttando la guerra civile in corso negli Stati Uniti (di cui parleremo in seguito), la debolezza militare che la Repubblica messicana aveva dimostrato negli scontri con gli Usa degli anni Trenta e Quaranta [▶ cap. 8.2] e la sua fragilità istituzionale di fronte ai sentimenti antirepubblicani della nobiltà locale, Napoleone tentò di imporre con la forza un monarca amico e gradito ai cattolici. La scelta cadde su Massimiliano I d’Asburgo che, in pessimi rapporti con il fratello imperatore Francesco Giuseppe e impossibilitato a cingere altre corone in Europa per non alterare il bilanciamento dei poteri, accettò quella messicana. Fu però una mossa arrischiata: sia perché Napoleone e Massimiliano sottovalutavano l’ostilità degli stessi Asburgo e delle principali potenze europee, contrarie a regimi filofrancesi nelle Americhe, sia perché l’iniziativa presupponeva che la popolazione locale accettasse il nuovo regime monarchico e che gli Stati Uniti, la principale potenza della regione, non intervenissero. Così, nel 1863, l’appoggio francese consentì a Massimiliano di dar vita a un Secondo Impero messicano dopo quello di Itúrbide crollato nel 1823 [▶ cap. 8.1]. Ma il nuovo regime ebbe vita breve. Già nel 1867, la fine della guerra civile consentì agli Usa di riaffermare la “dottrina Monroe” [▶ cap. 8.2], aiutando la maggioranza della popolazione a deporre l’imperatore, fucilarlo e ripristinare la repubblica [ 6].
Il repentino ritiro dei contingenti francesi dal Messico non era stato dettato solo dalla volontà di evitare un rischioso conflitto con gli Stati Uniti, ma anche da valutazioni legate a quanto era nel frattempo accaduto in Europa. La rapida vittoria della Prussia e dell’Italia nel 1866 contro l’Impero asburgico [▶ cap. 14.5] non solo aveva deluso le speranze di Napoleone che un lungo conflitto indebolisse sia gli Asburgo sia i prussiani, ma aveva anzi modificato il quadro geopolitico e i rapporti di forza in modo sfavorevole alla Francia: l’Italia si era ampliata con l’annessione del Veneto, mentre l’affermazione della leadership prussiana nell’area tedesca apriva la strada a possibili mire di Berlino oltre il Reno. L’imperatore dei francesi pretese allora un indennizzo territoriale al fine di bilanciare nuovamente gli equilibri continentali e di tutelare l’incolumità della Francia. Chiese con insistenza parte del Belgio, il Palatinato e soprattutto il Lussemburgo. Così facendo, egli però non fece altro che acuire i sentimenti nazionalisti e antifrancesi già diffusi in molti dei piccoli Stati tedeschi sempre più legati alla Prussia, che a sua volta alimentava tali passioni per poterle presto mobilitare in una guerra nazionale contro il pretenzioso vicino francese.

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La vana ricerca di nuovi appoggi
Per tutti gli anni Sessanta questa politica estera aggressiva andò di pari passo con i tentativi di trovare nuovi appoggi fra i repubblicani più moderati, che Napoleone voleva contrapporre alle forze ostili al suo potere: da un lato, socialisti e repubblicani intransigenti, avversi a un regime ritenuto dittatoriale espressione degli interessi dell’élite imprenditoriale; dall’altro la borghesia degli affari e i clericali, contrari alle sue avventurose quanto dispendiose manie di grandezza. A questo scopo, l’imperatore prima attuò alcune importanti riforme sociali come la concessione della libertà sindacale e del diritto allo sciopero; poi impresse una svolta ancor più marcata in senso liberale, addolcendo la censura e garantendo al parlamento l’iniziativa legislativa. Si trattava però di mosse tardive, che soprattutto non scioglievano il nodo che minava irrimediabilmente alla base il suo regime: l’impossibilità di conciliare potere personale e parlamentarismo.
Napoleone III si trovò così sempre più solo, stretto fra forze diverse fra loro ma convergenti nella critica al regime: i clericali, cui non bastavano gli sforzi diplomatici e militari fatti per tutelare l’inviolabilità dello Stato pontificio, messo in pericolo dalla linea ambigua del governo italiano e soprattutto dalle spedizioni garibaldine [▶ cap. 14.2]; l’ala bonapartista più conservatrice, contrariata dalle aperture liberali e favorevole a una svolta autoritaria che l’imperatore esitava a compiere per non precludere il dialogo con i moderati; infine i liberali, insoddisfatti delle riforme, e i repubblicani radicali guidati da Léon Gambetta (1838-82), che nel ripristino della repubblica vedevano il presupposto necessario per qualsiasi superamento della fallimentare linea politica incarnata da Napoleone III. Nel 1869 i repubblicani registrarono una larga affermazione elettorale nelle città, lasciando a Napoleone il sostegno delle sole campagne. Solo una clamorosa vittoria militare poteva ricompattare il fronte interno e ridare slancio all’immagine ormai offuscata dell’imperatore. Nel luglio del 1870, le provocazioni prussiane parvero fornirne l’opportunità.

15.3 Il crollo del Secondo Impero e la Comune di Parigi

La Guerra franco-tedesca

Nell’estate 1870 alle tensioni generate dalle pretese francesi sul Lussemburgo si sommarono quelle connesse alla crisi dinastica in Spagna, dove Isabella II era stata esiliata e si profilava la possibilità che a succederle fosse un parente del re di Prussia. La prospettiva di essere accerchiato da due grandi Stati sottoposti alla stessa ostile dinastia rendeva questa soluzione inaccettabile per Napoleone, che però non intendeva arrivare fino allo scontro militare per almeno due motivi:

  • anche se la Francia era considerata ancora il principale modello di organizzazione militare, egli era conscio che la recente riforma dell’esercito non aveva colmato il divario con l’armata prussiana, vincitrice contro gli Asburgo appena quattro anni prima;
  • tutti i tentativi di stringere un’alleanza con paesi che potevano impegnare i prussiani su un secondo fronte erano falliti, dato che l’Italia non perdonava alla Francia la sua difesa dello Stato pontificio e gli Asburgo temevano le conseguenze sulla stabilità dell’impero di un nuovo rovescio militare dopo quello del 1866.

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Eppure il crollo della sua popolarità costringeva ormai l’imperatore a tenere in gran conto la volontà del parlamento e dell’opinione pubblica, divenendone di fatto quasi ostaggio. Il governo prussiano lo sapeva e sfruttò al meglio il diffuso malcontento e la frustrazione di larghi strati della popolazione per un regime che stentava a rinverdire i fasti del Primo Impero. Per provocare il conflitto, come vedremo, il cancelliere prussiano Otto von Bismarck manipolò un dispaccio – il cosiddetto “telegramma di Ems” – perché risultasse umiliante per la nazione francese. A quel punto, contornato da ministri decisamente antiprussiani e pressato dalla piazza, Napoleone III non poté esimersi dal reagire con la dichiarazione di guerra.

Una volta aperte le ostilità, il 19 luglio 1870, i timori dell’imperatore e quelli dell’opposizione favorevole alla via diplomatica (fra cui Thiers) si rivelarono subito fondati. Rispetto al nemico, la Francia scontava l’isolamento diplomatico, la minor preparazione dei comandanti, le obsolete tattiche di combattimento, una mobilitazione meno coordinata e soprattutto l’arretratezza della propria rete ferroviaria. Ciò consentì a Napoleone di avere a disposizione solo 300 000 uomini contro i circa 800 000 prussiani, cui si sommavano quelli degli Stati tedeschi, schieratisi al fianco della Prussia: lo scontro appariva infatti al montante nazionalismo tedesco come una guerra nazionale contro le pretese di ingerenza francese degli anni precedenti e l’occasione per unificare il popolo tedesco sotto l’egida prussiana.

Il risultato fu una prima serie di sconfitte, che precluse alla Francia qualsiasi residua speranza di aiuto esterno e spinse i comandi a commettere gravi errori strategici, fino a giungere alla disfatta di Sedan, il 1° settembre 1870. La guerra non era ancora formalmente terminata ma, con oltre 17 000 perdite in un solo giorno, 100 000 uomini catturati e lo stesso Napoleone III consegnatosi ai tedeschi, Sedan segnò la fine sia del mito della grande nation dominante in Europa sia dello stesso Secondo Impero.

L’eco della disfatta provocò una rivolta popolare a Parigi, l’istituzione della Terza Repubblica (dopo quella giacobina e quella del 1848-52) e la nomina di un governo provvisorio di difesa nazionale di fatto guidato da Léon Gambetta. Compito del nuovo governo era quello di proseguire la guerra con le forze residue, ma la soverchiante potenza tedesca avanzò ulteriormente e accerchiò Parigi, dove la popolazione organizzò corpi di ▶ franchi tiratori e combatté strenuamente sino alla resa, nel gennaio 1871.

I primi passi della repubblica e la Comune di Parigi
I gravi disagi dovuti all’assedio e la caduta di Parigi si tradussero nel rafforzamento dell’agguerrita minoranza socialista e nella sconfitta dei repubblicani alle elezioni del febbraio 1871, vinte dai monarchico-conservatori. Furono dunque il neoeletto parlamento e il nuovo governo guidato da Thiers a firmare il Trattato di Francoforte: una pace durissima che costava alla Francia un’indennità di ben 5 miliardi, l’occupazione di alcune aree orientali del suo territorio a garanzia e la cessione dell’Alsazia e della Lorena, regioni ricche di giacimenti di ferro e carbone (pari a circa il 20% della capacità estrattiva nazionale) e strategiche perché, poste oltre il fiume Reno, consentivano ai tedeschi una rapida penetrazione in territorio francese [ 7].


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Davanti a una pace tanto punitiva – motivo di tensione nei rapporti franco-tedeschi sino alla Grande guerra del 1914-18 – il popolo parigino si sentì tradito e insorse. A capo della città e in contrapposizione al governo fu eletto un Consiglio della Comune, il cui nome evocava l’istituzione giacobina del 1793-94 [▶ cap. 5.3].

I dissidi all’interno del Consiglio e quelli fra le diverse anime del socialismo impedirono che si andasse oltre alcuni cardini condivisi: l’anticlericalismo, il rifiuto degli eserciti permanenti e dichiarazioni di principio come “lavoro per tutti” o “terra ai contadini”. Ciò nonostante, nelle settimane in cui visse, la cosiddetta “Comune di Parigi” adottò provvedimenti importanti in tema di politica e amministrazione (suffragio universale, separazione fra Stato e Chiesa, decentramento amministrativo), istruzione (obbligatoria, laica e gratuita), lavoro (sostegno alle cooperative, soppressione delle trattenute sul salario) e questioni sociali (blocco degli sfratti, equiparazione degli stipendi dei funzionari a quelli degli operai qualificati). Il quadro retorico in cui si muoveva era intriso di acceso nazionalismo, ma si trattava pur sempre di un regime rivoluzionario, che aveva issato la bandiera rossa sul municipio di Parigi.

Per dare risposta all’allarme che la Comune aveva subito destato fra i ceti medio-alti e le masse rurali, Thiers mosse presto al contrattacco. Prima riuscì a evitare l’adesione alla rivolta delle altre grandi città filorepubblicane, con la promessa di conservare l’assetto repubblicano nonostante la maggioranza monarchica in parlamento. Poi, con il beneplacito dell’occupante prussiano, organizzò una spedizione per riprendere la capitale e stroncare una volta per tutte i movimenti eversivi. Fra il 21 e il 28 maggio 1871 oltre 100 000 soldati combatterono strada per strada i comunardi, estremamente motivati e forti delle molte armi distribuite in città nei mesi precedenti per difendersi dall’assedio. Circa 20 000 insorti furono sommariamente uccisi e 45 000 arrestati in quella che fu significativamente ribattezzata “la settimana di sangue”. Mentre ancora centinaia di cadaveri giacevano al suolo, la città contava decine di barricate e molti edifici bruciavano devastati dai colpi dell’artiglieria e dagli incendi appiccati dai parigini, il 28 maggio la Comune poteva dirsi definitivamente sconfitta [ 8].

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Essa fu dunque un fenomeno effimero e non strettamente socialista. All’egualitarismo e alle istanze sociali si intrecciavano infatti la domanda di democrazia, un forte nazionalismo, le sofferenze materiali prodotte dalla guerra, la frustrazione per la sconfitta nonché la tradizionale contrapposizione fra la capitale e le campagne, che in qualche modo faceva della Comune l’ennesimo episodio della lunga stagione rivoluzionaria iniziata nel 1789 e spesso contrastata dagli ambienti rurali più conservatori [▶ cap. 5.3]. Tuttavia, essa rappresentò un evento di assoluto rilievo, non solo per la storia francese, ma per quella dell’intera Europa. Nell’immediato, quanto accaduto a Parigi era stato un rivoluzionario esperimento di partecipazione democratica al governo della città, aveva mostrato la capacità di mobilitazione delle masse urbane e operaie lungo il duplice asse ideologico nazionalismo-socialismo e aveva rianimato l’intero movimento socialista al di là delle sue fratture interne. E ciò condizionò le scelte dei principali governi europei su temi cruciali come le riforme sociali, il maggior coinvolgimento delle masse operaie in politica e il taglio antisocialista impartito all’educazione scolastica: tutto nel tentativo di contenere un “pericolo rosso” sino ad allora mai così concreto [ 9]. Sul più lungo periodo, pur ritenuta solo un passo intermedio verso la società comunista teorizzata da Marx [▶ cap. 10.6], la Comune divenne un precedente da cui trarre preziosi insegnamenti per diversi movimenti rivoluzionari, in particolare per quelli che nel 1917 avrebbero guidato la rivoluzione nell’Impero russo.

Storie. Il passato nel presente - volume 2
Storie. Il passato nel presente - volume 2
Dal 1715 al 1900