15.4 La Terza Repubblica

15.4 La Terza Repubblica

Istituzioni e politica di un regime instabile
Socialisti e anarchici uscirono dalla Comune sconfitti e privi dei loro leader, mentre il marxismo faticava a diffondersi fra le masse, soprattutto rurali. D’altra parte, anche i monarchici apparivano deboli, divisi com’erano tra filoborbonici (favorevoli alla restaurazione dei Borbone e a un ritorno alla società di antico regime ispirata ai valori della Chiesa) e orleanisti liberali (meno filoclericali e fautori di un re discendente da Luigi Filippo). Al contrario, a uscirne rafforzati furono i repubblicani che, pur frazionati a loro volta fra radicali e moderati, riuscirono a compattarsi nel nome del comune anticlericalismo, della garanzia della proprietà privata, del rispetto dell’ordine pubblico e della difesa della repubblica. Ciò però non impedì una notevole instabilità politica che, in particolare nei primi anni di vita, mise più volte in discussione la sopravvivenza stessa delle istituzioni repubblicane.

Una prima minaccia venne, fra il 1873 e il 1875, dalla convergenza degli orleanisti più conservatori sull’uomo indicato dai filoborbonici per ripristinare la monarchia. E ciò costrinse i repubblicani a definire in senso più gradito agli orleanisti moderati l’assetto istituzionale dello Stato pur di salvarne l’impianto repubblicano. Ne venne fuori un equilibrio istituzionale che bilanciava l’ampia partecipazione democratica (suffragio universale maschile, elettività delle camere) con strumenti tesi a evitare degenerazioni eversive (lungo mandato e ampi poteri al presidente).

Una seconda e più grave crisi istituzionale si ebbe nel giugno 1877, quando il presidente Patrice de Mac-Mahon sciolse arbitrariamente le camere a maggioranza repubblicana e fece pressioni sul corpo elettorale mediante la stampa e gli organi periferici dello Stato perché alle successive elezioni vincessero i monarchici. Non vi riuscì: i repubblicani ottennero la maggioranza (ottobre 1877), sventando la restaurazione monarchica auspicata da Mac-Mahon e costringendolo alle dimissioni (1879).

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In un quadro istituzionale ormai consolidato in senso repubblicano ma reso politicamente instabile dalle frequenti crisi di governo e dalle continue ridefinizioni degli equilibri parlamentari, a guidare la Terza Repubblica nei primi anni Ottanta furono soprattutto due uomini: da un lato Léon Gambetta, solo brevemente a capo del governo nel 1881-82, ma sempre molto influente e decisivo nell’opposizione a Mac-Mahon; dall’altro Jules Ferry, due volte primo ministro e tre ministro dell’Istruzione. C’era da rialzare un paese scosso dagli orrori parigini, prostrato economicamente dalla guerra e in cerca di rivincita dopo l’umiliazione subita ad opera dei tedeschi. E a questo scopo i governi che si succedettero in questa fase operarono in una duplice direzione.
Rigenerare una nazione, preparare la rivincita
Per risollevare l’umore di una popolazione traumatizzata dalla sorprendente quanto netta sconfitta militare contro i tedeschi, sin dai primissimi anni Ottanta la Francia riprese con rinnovato vigore la campagna coloniale in Asia e si iscrisse alla cosiddetta “corsa all’Africa”. Ne ottenne il protettorato sulla Tunisia, strappata alla concorrenza italiana (1881[▶ cap. 14.6], significativi ampliamenti territoriali in Indocina (1887) e il Madagascar, invaso nel 1883 e riconosciuto protettorato francese anche dai britannici nel 1890 [ 10].

Parallelamente si avviò un massiccio programma di riforme teso: ad adeguare l’eserci­to al vincente modello prussiano; a fare di una pubblica istruzione laica e gratuita lo strumento della modernizzazione e del radicamento dei valori repubblicani; a ricostruire il sistema universitario e di ricerca, in larga parte distrutto in epoca rivoluzionario-napoleonica e alla base della superiorità tecnico-scientifica tedesca. Gli sforzi compiuti non annullarono la natura classista dell’accesso all’istruzione superiore né colmarono il divario con il mondo tedesco. Tuttavia, essi ridussero l’analfabetismo dal 25% di inizio Secondo Impero al 5% dei primi del Novecento, con effetti positivi soprattutto sull’istruzione tecnica e femminile. In più, contribuirono in maniera consistente ai progressi delle scienze incarnati in personaggi come Louis Pasteur [▶ protagonisti] e Marie Curie, che fra fine Ottocento e inizio Novecento formulò assieme al marito Pierre la teoria della radioattività.

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accompagnati da provvedimenti tesi a rinsaldare il carattere liberale della repubblica e a ricomporre le fratture prodotte all’interno della nazione dagli avvenimenti degli anni Settanta (amnistia per i comunardi, libertà di stampa, sindacale, di riunioni pubbliche, di divorzio). Una pervasiva retorica provava a rileggere la disfatta del 1870 come colpa del passato regime e prova dell’eroismo della popolazione [ 11]. La concezione volontaristica della nazionalità teorizzata da Ernest Renan [▶ cap. 9.1] fu usata per rivendicare la “francesità” dell’Alsazia-Lorenza, cedute all’Impero tedesco. Infine, si cercò di rinvigorire il patriottismo delle masse attraverso un massiccio ricorso agli strumenti tipici del Nation building: la toponomastica, la letteratura, l’arte, la “statuomania”, il culto dei grandi uomini [ 12] nonché la scelta della Marsigliese come inno e del 14 luglio come festa nazionale.

  protagonisti

Louis Pasteur

L’aumento della scolarizzazione e la crescente democratizzazione del sapere furono inoltre

Louis Pasteur (1822-95) è considerato il padre della microbiologia e uno dei principali artefici dei moderni metodi di sterilizzazione e vaccinazione, oltre che l’inventore del comune contagocce (detto “pipetta Pasteur”). Mosso dal preciso intento di risolvere i più rilevanti problemi dell’agricoltura, dell’allevamento e dell’industria agraria, negli anni Cinquanta Pasteur studiò la fermentazione della birra, del vino e dell’aceto, dimostrando la falsità della “generazione spontanea” (la teoria predominante secondo cui la vita poteva nascere da elementi naturali inanimati come l’aria in quanto dotati di flussi vitali) in favore della biogenesi (teoria che vuole ogni essere vivente provenire da un essere vivente preesistente) e mettendo a punto il procedimento poi noto come “pastorizzazione”: il riscaldamento del vino oltre i 50 °C in assenza di ossigeno uccideva i microrganismi responsabili del suo rapido inacidimento e ne consentiva così la conservazione e il commercio a lunga distanza senza l’addizione di altro alcol. Sebbene fosse concepito per la produzione del vino e poi della birra (per la pastorizzazione del latte si dovette attendere il 1886, quando fu proposta dal chimico tedesco Franz von Soxhlet), il procedimento di Pasteur rappresentava un enorme passo in avanti anche per la medicina e la chirurgia, che ne derivarono il concetto di sepsi (la reazione di un organismo in risposta a un’infezione causata da microrganismi patogeni) e di conseguenza migliori strategie di asepsi (ossia le procedure per evitare la sepsi).

Molto legato a Napoleone III, nel 1865 Pasteur fu coinvolto da Haussmann nella commissione per lo studio del colera, la più grave piaga della Parigi del tempo. I risultati furono però modesti e lo scienziato – che nel frattempo aveva ottenuto la direzione degli studi scientifici presso l’École normale supérieure – tornò a dedicarsi con maggior successo ad altre patologie. Prima trovò il rimedio alla pebrina, una malattia che colpiva periodicamente l’allevamento dei bachi da seta. Poi, traendo spunto dall’errore di un collaboratore nel preparare un esperimento, si accorse che l’inoculazione di un microrganismo patogeno attenuato dal contatto con l’ossigeno immunizzava i soggetti dalla malattia che esso causava: era l’inizio delle tecniche di vaccinazione, che egli applicò prima alla patologia nota come “colera dei polli”, poi all’antrace che colpiva le greggi e infine alla rabbia. Il vaccino antirabbico valse a Pasteur fama mondiale, mentre la Terza Repubblica ne faceva un simbolo della grandezza nazionale intitolandogli un istituto di ricerca scientifica (1888), celebrandone trionfal­men­te il settantesimo compleanno nel 1892 e infine riservandogli grandiosi funerali di Stato e una sepoltura nella cattedrale di Notre-Dame al momento della morte, nel 1895.

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La crisi boulangista
Gli sforzi profusi dal governo e dall’intellettualità francese più impegnata non impedirono tuttavia il montare di un diffuso antiparlamentarismo nell’opinione pubblica, sempre più insofferente nei confronti dell’alternarsi degli esecutivi, dei loro legami spesso poco trasparenti con gli ambienti dell’alta finanza e del ritardo nel dare soddisfazione al crescente ▶ revanchismo antitedesco, conseguenza dell’umiliazione subita nel 1870.
Questi sentimenti furono alla base della cosiddetta “crisi boulangista” del 1887-89. Fu infatti in questi anni che il generale e ministro della Guerra Georges Boulanger raccolse attorno a sé un vasto quanto eterogeneo consenso, frutto sia di un progetto politico-istituzionale che mischiava autoritarismo nazionalista e richiami ai valori sociali cari alle sinistre, sia dei suoi atteggiamenti provocatori nei confronti dell’Impero tedesco. Sostenuto al contempo dalle sinistre, dai nazionalisti e dai monarchici (che volevano servirsi di lui per abbattere la repubblica), per un po’ sembrò che il “Generale Rivincita” potesse attuare un vero e proprio colpo di Stato sul modello bonapartista, forte anche della grande popolarità fra le masse popolari urbane. Boulanger però esitò, convinto di poter vincere le elezioni presidenziali del 1889 e di arrivare così al potere legalmente.
Questa esitazione gli fu fatale, perché deluse i monarchici in attesa di un’immediata svolta antirepubblicana e scontentò pure le sinistre più radicali, sempre più diffidenti verso il carattere personalistico del boulangismo e la sua dichiarata disponibilità a correggere l’impostazione fortemente anticlericale dello Stato francese pur di ottenere il supporto dei cattolici.
Le elezioni del 1889 segnarono una pesante sconfitta per Boulanger, che fu accusato di tradimento e dovette fuggire in Belgio, dove si suicidò nel 1891 ormai dimenticato dai suoi stessi seguaci.

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Quella boulangista fu dunque una crisi passeggera, che in fondo contribuì a rafforzare la Terza Repubblica. Non solo, infatti, dimostrò ancora una volta la tenuta dell’impianto istituzionale repubblicano di fronte alle minacce eversive, ma impose anche un ulteriore riavvicinamento fra i repubblicani radicali, quelli moderati e la parte di conservatori che preferivano la difesa dell’ordine sociale ad avventurose iniziative personali, benché potenzialmente utili a restaurare la monarchia. Si cementava così un blocco ideologicamente eterogeneo, ma ormai alieno dalle tentazioni rivoluzionarie o autoritarie delle forze estremiste di matrice socialista o monarchico-nazionalista, che di lì a breve sarebbero prepotentemente entrate nell’arena politica francese dando voce a parte dell’insoddisfazione popolare.
Dagli anni Novanta alla Belle époque
Negli anni Novanta, infatti, la Francia conobbe una progressiva riclassificazione delle forze politiche e un loro riallineamento in quattro insiemi:
  • a sinistra si registrò lo sviluppo del socialismo, dell’anarchismo e quello di un sindacalismo autonomo dai partiti, con la fondazione della Fédération des Bourses du travail nel 1892 e della Confédération générale du travail nel 1895;
  • nel mondo cattolico si andarono via via distinguendo, da un lato, una linea intransigentemente ▶ ultramontana con tratti di ▶ antisemitismo religioso, dall’altro le prime iniziative di un cattolicesimo sociale, che cercava risposte alternative a quelle dei socialisti e dei liberali ai problemi posti dalla società industriale;
  • a destra il patriottismo assunse sempre più i caratteri aggressivi di un nazionalismo antiparlamentare, autoritario e razzista, rappresentato in particolare dall’evoluzione ideologica della Lega dei Patrioti, un’associazione fondata nel 1882 per promuovere l’amor patrio fra i giovani e passata prima al boulangismo e poi a uno ▶ sciovinismo bellicista e intollerante in particolare nei confronti degli ebrei;
  • il variegato campo repubblicano, ricompattato dalla crisi boulangista e contrapposto agli estremismi di destra e sinistra.

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Negli anni Novanta, furono proprio i governi di orientamento repubblicano moderato-conservatore a garantire finalmente una certa stabilità alla vita politico-istituzionale del paese. E furono questi stessi governi non solo ad approvare importanti riforme sociali (su lavoro femminile e minorile, incidenti sul lavoro, insegnamento professionale), ma anche a intrecciare accordi come la Duplice Intesa del 1894 con l’Impero russo: un’alleanza ritenuta necessaria per rispondere al rinnovo della Triplice Alleanza fra Italia, Austria-Ungheria e Impero tedesco [▶ cap. 14.6] e per assicurarsi un prezioso alleato sul fronte orientale in previsione di un prossimo conflitto contro quest’ultimo.
L’azione riformista non bastò tuttavia ad affrontare efficacemente i problemi connessi all’industrialismo. Nonostante la crescita dei salari e i miglioramenti introdotti dalla legislazione sociale, gli operai continuavano infatti a sperimentare condizioni di vita assai dure: una spiccata precarietà esistenziale dovuta alla disoccupazione periodica, l’assenza di pensioni (sino al 1898) e una mancanza di prospettive migliorative che giustificavano il crescente risentimento. Questo risentimento si tradusse non solo in singoli clamorosi episodi, come l’assassinio del presidente Marie-François Carnot per mano di un anarchico (nel 1894), ma in un crescente numero di manifestazioni violente (la cosiddetta “sparatoria di Fourmies” del 1891 fece per esempio 10 morti) [ 13] e di scioperi (dagli 80 degli anni Settanta, con meno di 30 000 aderenti, agli oltre 400 con quasi 800 000 partecipanti degli anni Novanta).
Si trattava per lo più di proteste con alla base puntuali rivendicazioni operaie in tema di salario e di condizioni di lavoro, ma che con maggiore frequenza andavano mischiandosi alle più ambiziose aspirazioni e strategie del sindacalismo rivoluzionario teorizzato da Georges Sorel: un movimento che identificava nel sindacato – e non nel partito – lo strumento per educare le masse alla lotta e sovvertire l’ordine politico-sociale capitalistico mediante il ricorso sistematico allo sciopero e l’instaurazione di organismi di autogoverno operaio.
Intolleranza, xenofobia e razzismo: l’affare Dreyfus e le sue conseguenze
Alle tensioni legate alla questione operaia s’intrecciavano quelle connesse all’intolleranza religiosa, alla ▶ xenofobia e al razzismo. Al mai sopito revanchismo si andarono infatti accompagnando forme di aperta ostilità nei confronti di diverse categorie di persone.

In primo luogo, ne furono vittime i lavoratori stranieri, il cui numero crebbe progressivamente con l’aumento dell’immigrazione di tecnici e uomini d’affari dal Regno Unito e dalla Germania, e di manodopera dequalificata dall’Italia e dalla Spagna. A essere sempre più spesso vittime di violenze furono soprattutto gli operai e i braccianti giunti attraverso i tradizionali circuiti migratori stagionali e transfrontalieri, perché accusati di sottrarre lavoro ai locali e di boicottare le iniziative sindacali pur di non perdere la loro misera paga. E l’accanimento nei loro confronti aumentava man mano che la situazione economica del paese peggiorava. In secondo luogo, oggetto di aspri attacchi furono gli uomini di Chiesa, tratteggiati come nemici della nazione e ostacolo al suo progresso, spesso mutuando i classici stereotipi dell’antisemitismo come l’inaffidabile doppiezza della loro fedeltà (al papa e alla Francia), la brama di denaro e il rifiuto della modernità.

Proprio l’antisemitismo assunse però dimensioni e un peso del tutto eccezionali. Esso combinava ora la tradizionale avversione del mondo cattolico per gli ebrei con riletture banalizzate e fuorvianti della più ampia riflessione in corso sulla natura delle razze e sul declino dei popoli occidentali. Fu proprio recuperando vecchi preconcetti e distorcendo in parte le pseudoscientifiche teorie sull’ineguaglianza delle razze avanzate da Joseph-Arthur de Gobineau che testi e associazioni antisemiti riscossero un enorme successo già a fine anni Ottanta. In Francia, poi, essi più che altrove rispondevano al diffuso bisogno di trovare capri espiatori per le difficoltà economiche e politiche in cui la Terza Repubblica versava ormai dai primi anni Settanta.

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L’insofferenza nei confronti degli ebrei toccò un livello clamoroso nel cosiddetto “affare Dreyfus”, la lunga e poco trasparente vicenda giudiziaria di un ufficiale ebreo di origini alsaziane ingiustamente condannato nel 1894 per spionaggio durante la guerra del 1870. Attorno al caso si polarizzarono le forze politiche e l’opinione pubblica francesi [ 14]. Le sinistre, molti repubblicani e alcuni intellettuali di spicco fra cui lo scrittore Émile Zola accusarono i vertici militari e la propaganda antisemita e filogovernativa di sfruttare e fomentare le paure, la frustrazione e la xenofobia diffuse nel paese [▶ FONTI]. In opposizione ai “dreyfusardi”, nazionalisti, conservatori, clericali e alcuni repubblicani moderati concorsero a formare la fazione “antidreyfusarda”: un insieme composito, tenuto assieme da condivisi pregiudizi razzisti, dalla paura per la tenuta del corpo sociale e dalla ferma volontà di difendere la credibilità delle forze armate, strumento indispensabile sia dell’auspicata revanche contro i tedeschi sia del mantenimento dell’ordine costituito minacciato da socialisti, anarchici e sindacalisti rivoluzionari.
Al di là del suo esito compromissorio (alla fine Dreyfus fu condannato ma subito graziato), la questione ebbe effetti dirompenti dentro e fuori i confini francesi.

In Francia esso causò la ridefinizione e la crescita dei movimenti nazionalisti, con la nascita dell’Action française nel 1899 e la sua successiva adesione alla linea antiparlamentare, antidemocratica, antisemita e filomonarchica di Charles Maurras. Il crescente seguito del binomio monarchico-nazionalista e le simpatie che esso raccoglieva in parte dalle forze cattoliche spaventarono i moderati, che tornarono a temere per la sopravvivenza delle istituzioni repubblicane. Perciò, essi non solo formarono un governo assieme ai radicali e ai socialisti nel comune intento di arginare le destre ma, sin dai primi del Novecento, reagirono: attuarono politiche decisamente anticlericali, come la sostituzione del concordato napoleonico con la legge del 1905 che separava Stato e Chiesa; epurarono i vertici delle forze armate dai più ferventi simpatizzanti nazionalisti; introdussero importanti riforme in campo sociale, come il riposo settimanale e la riduzione dell’orario di lavoro.

Nel resto d’Europa, dove come vedremo il pericoloso intreccio fra nazionalismo e antisemitismo era altrettanto diffuso, l’eco del dibattito sul caso Dreyfus produsse iniziative destinate ad avere importanti conseguenze nel XX secolo, in particolare la pubblicazione de Lo Stato ebraico del giornalista ebreo-ungherese Theodor Herzl e la conseguente nascita di un movimento politico teso a costituire uno Stato ebraico nella “promessa” Palestina: il sionismo [▶ fenomeni, p. 488].

FONTI

Il J’accuse

Il 13 gennaio 1898 lo scrittore Émile Zola, fervente repubblicano e noto “dreyfusardo”, pubblicò sul giornale L’Aurore una lettera aperta al presidente della repubblica intitolata J’accuse (“Io accuso”). Imputava ai vertici militari di aver perseguito ingiustamente Dreyfus, cavalcando l’antisemitismo e l’antigermanesimo che pervadevano la società francese, e di essersi poi trincerati dietro la ragion di Stato e l’onore dell’esercito per non rivedere il verdetto una volta che le prove addotte si erano dimostrate false e il vero colpevole era stato individuato. L’articolo costò a Zola una condanna per vilipendio delle forze armate, ma contribuì a riaprire il caso e a sollecitare una riflessione sull’intolleranza che sempre più connotava il clericalismo e il nazionalismo francesi.

Sig. Presidente,


[…] il Comandante du Paty de Clam1 entra in scena non appena il primo sospetto cade su Dreyfus. Da allora è lui che ha inventato il caso Dreyfus, l’affare è diventato il suo affare, si fa forte nel confondere le tracce e nel condurlo all’inevitabile conclusione. C’è il ministro della guerra, il generale Mercier, la cui intelligenza sembra mediocre; c’è il capo dello Stato Maggiore, il generale de Boisdeffre, che sembra aver ceduto alla sua passione clericale, ed il sottocapo dello Stato Maggiore, il generale Gonse, la cui coscienza si è adattata a molte cose. Ma in fondo non c’è che il comandante du Paty de Clam che li guida tutti, li ipnotizza perché si occupa anche di spiritismo, di occultismo e conversa con gli spiriti. Non si potrebbero concepire le esperienze a cui egli ha sottoposto l’infelice Dreyfus, le trappole in cui ha voluto farlo cadere, le indagini pazze, le mostruose congetture, tutta una demenza da tortura. Ah! Questo primo affare è un incubo per chi lo conosce nei suoi veri dettagli! Il comandante du Paty de Clam arresta Dreyfus e lo mette nelle segrete. Corre dalla signora Dreyfus, la terrorizza dicendole che se parla il marito è perduto. Nel frattempo, l’infelice si strappava la carne, gridava la sua innocenza. E l’istruttoria è stata fatta come in una cronaca del XV secolo, nel mistero, complicata da feroci espedienti, basata su una sola prova indiziaria, questo stupido elenco2 che non era solo un volgare imbroglio, ma la più impudente delle frodi poiché i “famosi segreti” consegnati erano tutti senza valore. Se insisto è perché il nodo è qui, […] lo spaventoso rifiuto di giustizia di cui la Francia è malata.

Essi3 agitano la Francia, si nascondono dietro la sua legittima emozione, chiudono le bocche agitando i cuori, pervertendo gli spiriti. Io non conosco un crimine civico più grande. Dunque, sig. Presidente, i fatti dimostrano come un errore giudiziario possa essere stato commesso; […] come Dreyfus [sia] una vittima delle straordinarie congetture del comandante Paty de Calm, dell’ambiente clericale in cui esse s’inseriscono, della caccia agli «sporchi ebrei» che disonora la nostra epoca. […] Quando una società arriva a questo punto, essa cade nella decomposizione. […]

L’economia francese fra “grande depressione” e lenta industrializzazione
Segnato da continue tensioni e da una forte instabilità politica, il primo trentennio di vita della Terza Repubblica vide l’economia francese crescere, ma meno dei suoi principali concorrenti. Ciò si verificò sia per cause interne, sia per gli effetti particolarmente gravi della riduzione della spinta espansiva registrata dall’economia mondiale a partire dai primi anni Settanta.
Pur ancora condizionata da malattie endemiche e periodiche epidemie, in Francia la ▶ speranza di vita passò dai circa 40 anni del 1840-59 ai circa 50 del 1908-13. In più, il saldo migratorio era attivo, dal momento che l’immigrazione era in crescita mentre erano tutto sommato pochi i francesi a cercare fortuna oltreoceano. Tuttavia, considerate le gravi perdite provocate dalla guerra del 1870 (220 000 morti e 1,6 milioni di abitanti dell’Alsazia-Lorena) e il tasso di natalità più basso d’Europa, l’incremento demografico restò assai inferiore a quello delle potenze continentali, così che nel 1911 i francesi erano 25 milioni in meno dei tedeschi e appena il 9% degli europei. Di conseguenza, si verificò un invecchiamento della popolazione, che accentuò più che altrove la stagnazione della domanda interna.
A soffrirne fu in primo luogo l’agricoltura, che occupava ancora il 40% della popolazione attiva. Alla scarsa capacità del mercato interno di assorbire la produzione nazionale si aggiunsero infatti problemi congiunturali come i parassiti che attaccarono a più riprese le viti, le malattie che colpirono gli animali e il calo del prezzo dei cereali, dovuto alla sopraggiunta concorrenza extraeuropea. Inoltre il settore pagava la perdurante prevalenza della piccola-media proprietà e la carenza di capitali, che ne limitava modernizzazione e competitività rispetto ai grandi produttori internazionali.
Anche il commercio non visse una fase facile negli anni della Terza Repubblica, penalizzato da una rete infrastrutturale insufficiente benché in espansione, dall’alto costo dei prodotti nazionali e dai contraccolpi della svolta liberista del 1860. Inizialmente, il liberoscambismo aveva infatti ridotto il ritardo dal Regno Unito, ma si era poi dimostrato insostenibile per una produzione incapace di reggere la concorrenza tedesca e statunitense, e passata quindi dal costituire il 12,8% del commercio mondiale nel 1860 ad appena il 7,2% nel 1913.

Né a risollevare l’industria e il commercio estero francesi valse il ripristino delle tariffe protezioniste nel 1881 e il loro progressivo inasprimento nel 1885 e nel 1892: non tanto perché una quarantina di partner commerciali continuarono a beneficiare della clausola della nazione più favorita, bensì soprattutto per la stessa struttura industriale del paese, che restava per lo più caratterizzata dalla molteplicità delle botteghe artigiane e piccole società. I processi di concentrazione erano infatti limitati a pochi settori (tessile, estrazione mineraria, metallurgia, chimica). Le banche preferivano investire all’estero o in altri ambiti, piuttosto che in rischiose imprese industriali. Infine, la localizzazione delle fabbriche e i costi dei loro prodotti restavano fortemente condizionati dalla disponibilità di materie prime e risorse energetiche, importate in larga parte per l’insufficienza di quelle nazionali.

Fra il 1880 e il 1900, tuttavia, non mancarono singoli casi di grande successo. Nacquero e si affermarono marchi come Renault, Schneider, Michelin e Peugeot. Alcuni settori crebbero molto, come la chimica. Altri – come l’edilizia e le ferrovie – conobbero un vero e proprio boom, anche grazie agli investimenti pubblici per risolvere i problemi socio-sanitari legati all’inurbamento (la popolazione cittadina era passata dal 24,4% del 1846 al 44,2% del 1911), per garantire all’esercito una pronta mobilitazione e per favorire la crescita dell’industria siderurgico-metallurgica mediante le ordinazioni di armi e materiali ferroviari. Nel complesso, però, la Francia vide ridursi dal 7,8% al 6,8% la sua quota sulla produzione industriale mondiale, e soprattutto finì per perdere terreno rispetto alla concorrenza tedesca (passata dall’8,5% al 13,2%).

  fenomeni

Lo Stato ebraico e il sionismo

Impegnati a emanciparsi dalla condizione di minorità giuridica loro imposta in molti paesi, a fine XIX secolo gli ebrei dovettero fronteggiare una nuova ondata di ostilità, in cui confluivano elementi diversi: il tradizionale antigiudaismo religioso, i timori suscitati dalle ipotesi sulla degenerazione delle razze “pure” a contatto con quelle “inferiori”, l’ossessione per l’omogeneità nazionale, le teorie cospirative e le frustrazioni sociali e politiche peculiari di ogni singolo contesto. L’ebreo incarnava sempre più il perfetto capro espiatorio, se non proprio il “nemico interno”: cosmopolita non integrabile nella comunità nazionale, individualista, libero dai vincoli morali di matrice cristiana e tanto legato alle proprie tradizioni da rifiutare la modernità. Alcuni intellettuali ebrei iniziarono perciò a ritenere come unico posto sicuro un proprio Stato, da costituirsi preferibilmente nei luoghi originari del loro popolo: i territori ottomani della Palestina e di Gerusalemme, biblicamente chiamata Sion, dal nome dell’altura su cui la città era sorta.

Già negli anni Ottanta, la Palestina era stata meta di una prima ondata migratoria, composta per lo più di ebrei in fuga dalle violente discriminazioni subite nell’Impero russo. Nello stesso periodo, in varie parti dell’Europa soprattutto orientale gruppi chiamati “Amanti di Sion” avevano iniziato a promuovere il progetto del nuovo Stato e attività tese a contrastare l’assimilazione degli ebrei nei paesi ospiti: tramandare usi e costumi, insegnare loro la lingua ebraica e costruire socialità tutte interne alla comunità.

Tuttavia, fu il caso Dreyfus a dare slancio a questa riflessione. Dopo aver assistito al processo, l’ebreo ungherese Theodor Herzl pubblicò infatti Lo Stato ebraico (1896): un pamphlet che lasciava aperta la possibilità di una ricollocazione degli ebrei in Argentina (ricca di terre vergini) o in Uganda (offerta dal governo britannico), ma che poneva comunque ormai come urgente il «tentativo di una soluzione moderna della questione ebraica». Il libro ebbe un’eco enorme, anche se non bastò ad assicurarsi l’appoggio di ebrei molto influenti come i banchieri Rothschild, cui pure originariamente si rivolgeva quali possibili leader del movimento.

L’anno successivo Herzl fondò l’Organizzazione sionista e ne tenne il primo congresso a Basilea, fissandone come obiettivo la creazione di uno Stato a maggioranza ebraica in Palestina e individuandone gli strumenti nel­la promozione dell’immigrazione, nel rafforzamento dell’identità ebraica negli ebrei in diaspora e nella ricerca del sostegno di Stati amici.

L’Organizzazione, detta “il parlamento del popolo ebraico”, teneva periodici congressi fra i delegati votati dagli iscritti (donne incluse) e si mostrò da subito capace di dotarsi dei mezzi necessari ai suoi scopi. Prima costituì una banca popolare per raccogliere fondi e far credito ai coloni trasferiti in Palestina (la Jewish Colonial Trust Limited ). Poi fondò il Jewish Nation Fund per l’acquisto di terre nei territori che il governo ottomano seguitava a rifiutarsi di concedere agli ebrei nonostante le tante udienze ottenute da Herzl presso i principali capi di Stato europei. Infine, creò la Commissione sionista e diverse società tese allo studio e al miglioramento delle condizioni socio-economiche degli ebrei trasferiti nella “Terra promessa”.

Gli sforzi del movimento sortirono però effetti solo dopo la Grande guerra del 1914-18, suscitando nel frattempo violente polemiche e la diffidenza di quegli ebrei residenti in Europa che temevano di veder compromesso il loro tentativo di integrazione nelle società ospiti. Eppure, la nascita dello Stato di Israele nel 1948 avrebbe reso profetiche le parole di Herzl all’indomani del Congresso di Basilea quando, per spiegare l’evento, disse: «A Basilea ho fondato lo Stato ebraico. Se lo dicessi ad alta voce oggi sarei universalmente deriso. Ma in cinque anni forse, e di certo in cinquanta, tutti se ne accorgeranno».

Gli inizi della sfavillante Belle époque e le sue ombre
Anche quando all’inizio del Novecento la situazione politica si stabilizzò e l’economia crebbe, la Terza Repubblica non riuscì a concretizzare molti dei suoi obiettivi e principi fondanti.

Restavano forti le differenze fra le ancora poche grandi città e le campagne. Le prime risultavano sempre più congestionate dal massiccio inurbamento contadino, mentre il grosso della popolazione risiedeva in piccoli insediamenti rurali privi di servizi e appena sfiorati dalla modernizzazione.

Allo stesso modo, una nazione abbastanza omogenea dal punto di vista etno-linguistico stentava ad assorbire immigrati e minoranze. La xenofobia cresceva di pari passo con la presenza di stranieri. E i criteri più larghi stabiliti dalla legge sulla cittadinanza del 1889, pur presentati come l’emblema dell’inclusivismo della repubblica, servivano soprattutto a integrare l’insufficiente gettito di coscritti per l’esercito (per ottenere la cittadinanza era necessario fare il servizio militare).
La questione operaia, poi, mostrava i limiti dell’egualitarismo ostentato dalla Terza Repubblica, sia che essa esplodesse in scioperi e manifestazioni di piazza, sia che semplicemente fosse analizzata con crudezza da scrittori quali Victor Hugo (I miserabili) ed Émile Zola (Teresa Raquin e Germinal). E lo stesso faceva un’altra questione che pregiudicava l’immagine di modernità e uguaglianza che il regime repubblicano voleva dare di sé, quella dell’emancipazione femminile. La repubblica ricorse spesso a figure femminili come icone della nazione (Giovanna d’Arco, la Marianna) e fece sempre più delle donne un effettivo strumento di nazionalizzazione e di affermazione delle prerogative statali in ambiti contesi dalla Chiesa come l’istruzione primaria, dove le suore furono sostituite da migliaia di maestre laiche. Tuttavia, come in altri paesi europei, anche in Francia le donne restavano escluse dal voto, marginali sulla scena politica, legalmente prive della facoltà di amministrare i propri beni, tenute a obbedire al marito, destinate a mestieri considerati femminili (casalinghe, domestiche, balie, sarte) o al limite ammesse come operaie nelle fabbriche, ma con salari inferiori nonostante le maggiori tutele rispetto agli uomini (meno ore di lavoro, divieto di lavoro notturno): una situazione di minorità ribadita tanto da intellettuali progressisti come Auguste Comte quanto da alcuni leader socialisti come Pierre-Joseph Proudhon, e contro la quale poco ancora era disposto a combattere anche l’attivo movimento operaio francese.
Eppure, dopo l’immane carneficina della Grande guerra del 1914-18, gli ultimi anni del XIX secolo sarebbero stati nostalgicamente ricordati come l’inizio della cosiddetta Belle époque, un periodo di pace, libertà, prosperità e progresso. In effetti, pur non priva di ombre e della misogina ipocrisia borghese denunciata da tanti artisti (Gustave Flaubert, i “poeti maledetti”), questa fase accentuò o dette avvio a fenomeni destinati a trovare eco in altri paesi occidentali.

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La progressiva emancipazione dei piccoli proprietari contadini dai notabili fondiari nelle campagne fu sicuramente uno di questi, in parte conseguenza delle politiche avviate nel Quarantotto e proseguite sotto Napoleone III, in parte frutto della scolarizzazione promossa dalla repubblica.
Ancor più rilevante fu la crescita dei ceti medi e la loro affermazione. Ad agevolarla furono in primo luogo le inusitate occasioni di ascesa in una società più fluida e più ricca di occupazioni accessibili, soprattutto nel piccolo commercio e nella pubblica amministrazione, che raddoppiò fra il 1851 e il 1914. Tuttavia, a contribuirvi furono una socialità, dei modelli di divertimento e dei consumi in parte nuovi. Pur senza annullare il fascino che ancora contraddistingueva il selezionato e influente mondo aristocratico, a fine Ottocento in Francia si andarono diffondendo gli sport (il calcio, il rugby, il tennis) e nacquero luoghi e spettacoli destinati ad ampia popolarità come i café-chantant e i cabaret: un’atmosfera che trovò una delle sue massime espressioni nelle esposizioni universali del 1889 e del 1900, tenute non a caso a Parigi, e in opere avveniristiche come la Tour Eiffel [ 15].

Storie. Il passato nel presente - volume 2
Storie. Il passato nel presente - volume 2
Dal 1715 al 1900